Nel libro di Alberto
Rosselli, giornalista e storico genovese, “Il Movimento Panturanico e la
Grande Turchia, tra mito, storia e attualità” (Edizioni Settimo
Sigillo, Roma), come d’altra parte negli altri due precedenti (“Sulla
Turchia e l’Europa” e “L’olocausto Armeno”) facenti parte del trittico
‘turcomanno’, non c’è spazio per il pettegolezzo protocollare, tanto
caro a certa storiografia d’accatto. Alberto Rosselli scrive infatti di
storia perché l’anima dello storico ce l’ha dentro; ed è in lui
impellente il bisogno di chiarezza, sua in primis e, per
conseguenza, dei lettori. “Il Movimento Panturanico e la Grande Turchia,
tra mito, storia e attualità” è infatti un libro – come sempre parlando
di quelli rosselliani – di grande nitore e completezza. Trattasi di un
testo essenziale, di quelli che, una volta letti, viene da dire: strano
non averci mai fatto caso. Esso scende, per così dire, alle radici di
quel vasto fenomeno etnico, politico ed economico, che sta pervadendo i
nostri tempi, e che, purtroppo, ci ha preso un po’ alla sprovvista, cioè
il ‘fenomeno’ dell’Asia di Mezzo. Questa immensa regione, troppo
lontana per avere avuto accesso all’interno delle ellittiche orbite
mediterranee, ma anche troppo vicina per profumare d’Oriente salgariano.
Questa realtà geografica, storica e culturale che ai nostri giorni si è
trasformata in un enigma politico dei più pressanti, coinvolgendo e
condizionando gli interessi espansionistici di Russia, Cina, Stati Uniti
e Turchia. L’Asia Centrale, questo variegato mondo turcofono che ci
rammenta la “Via
della seta”, abitato da gente orgogliosa della
propria identità, capace di raffinatezze elaboratissime ma anche di
crudeltà primitive, è la materia di una dottrina e di un’ideologia, il
Panturanismo, che, con il Panturchismo, rappresentò – e pare stia
tornando a rappresentare – il sogno revanchista del vasto e
transnazionale ‘popolo turanico’. Turchia, Azerbaigian, Kazakistan,
Kirghizistan, Uzbekistan e Turkmenistan sono i paesi che fanno parte di
questo immenso contenitore etnico-linguistico destinato, sembra, a
giocare un nuovo importante ruolo strategico, soprattutto economico e
militare. Con questa sua ultima ardua opera, Alberto Rosselli ha dunque
voluto indagare questa ampia, ma assai poco conosciuta area del mondo,
legata da un filo sottile, ma robusto ed antico, ad Ankara. E ne ha
tratto uno saggio storico e geopolitico che propende, tuttavia, anche
verso l’analisi antropologica e filosofica. Esso permette infatti al
lettore di comprendere le complesse radici e il significato profondo del
‘nazionalismo’ turco e le mai interrotte connessioni religiose,
culturali e linguistiche esistenti tra il popolo anatolico e le genti
dell’’Asia di mezzo’.
Dopo aver messo mano alla sua recente opera, Sulla Turchia e l’Europa, Alberto Rosselli si è trovato, quasi inevitabilmente, costretto a scrivere questo libro, che del precedente è, al tempo stesso, corollario ed approfondimento. E’, infatti, impossibile affrontare il tema dell’europeità della Turchia moderna, senza affrontare quello che ne è, evidentemente, il nodo storico e civile fondamentale: il massacro del popolo armeno, iniziato negli anni 1894-95 e portato a compimento durante la prima guerra mondiale. Crediamo che la spinta interiore, il furor scribendi, che ha determinato questa necessitante scrittura, appartenga al carattere personale di Rosselli oltre che alla deontologia di ogni storiografo degno di questo nome: il bisogno di capire, la volontà di sapere, il dovere di spiegare, sono le concause dell’opera ultima dello scrittore genovese. Perchè Alberto Rosselli è un ricercatore caparbio e, al tempo stesso, un eccellente divulgatore. Egli ama entrare nelle pieghe più riposte di certe nostre memorie, diafane all’apparenza, per poi percorrerle da capo a fondo. Per capire, prima, per aiutarci a capire, poi. La differenza fondamentale tra questi due libri non è di tipo strutturale o procedurale. Rosselli, in entrambi, ha operato con la sua consueta perizia, affiancando alla disamina cronologica degli eventi schegge di cronaca presente e considerazioni sul passato meno prossimo. Si tratta di una differenza che diremmo quasi antropologica: Sulla Turchia e l’Europa è un libro d’informazione, che pone un quesito e fornisce a chi legga tutti gli elementi per poter rispondere a questo quesito in serena coscienza. Questo L’olocausto armeno è, invece, un’opera civile nel senso più alto del termine: è l’analisi circostanziata di una tragedia, che non può rimanere entro i confini della storiografia tabellare, ma che impone, a chi scrive e a chi legge, un’attenzione viva e partecipe, un’umana compassione, oltre che costringere ad amare considerazioni sull’immutabilità dell’umana condizione. Si tratta, in definitiva, di un libro da leggere con l’anima, oltre che con la mente, perchè scende fino al fondo di un inferno che non è opera di un dio, ma di uomini come noi; e che ci impone di conoscere e, finalmente, di giudicare. Per questo, ad un certo punto, i due saggi si toccano e si incrociano definitivamente. Non si può infatti valutare la Turchia di oggi, senza considerare il suo atteggiamento verso la Turchia di ieri; sarebbe come se la Germania di Angela Merkel negasse il dramma della Shoah. Per questo, in maniera assai efficace, l’autore mescola alla storia del genocidio armeno la “storia della storia” di quell’olocausto, arrivando fino a giorni vicinissimi a noi. E se vi è una parvenza di freddezza in Rosselli, essa non risiede affatto nella scarsa adesione emotiva ad un’immane sciagura collettiva di uno studioso di cui personalmente conosciamo ed apprezziamo la calda umanità. Piuttosto, essa sta a significare lo sforzo costante dello storico, che non può accettare le sole ragioni dell’empatia nell’emettere i propri giudizi e che cerca di osservare la natura delle cose, il mondo dei fenomeni, senza lasciarsi condizionare dall’entità dei fenomeni stessi. Perchè un giudizio, disincantato e dolente, sulla capacità dell’uomo di straziare, oltre ogni immaginazione, altri uomini, è presente in ogni pagina di questo libro. Troppo acuto ne è l’autore per poter credere nelle magnifiche sorti e progressive, dopo aver perlustrato tante linee d’ombra, tanti cuori di tenebra. Così, L’olocausto armeno è un opera figlia dell’esperienza di chi ne ha operato, capoverso per capoverso, la stesura: opera matura di autore che ormai padroneggia con piena sicurezza tanto lo strumento quanto la materia. Lavoro che sa dove andare a parare, fin dalle pagine di esordio e che conduce il lettore, con affabile discrezione, com’è costume di Rosselli, fino al centro della Geenna, quasi a dirgli: vedi? Anche di questo siamo stati capaci! Se pregevole, pur nella sintesi, è la visione storiografica, la documentazione delle tappe di questo genocidio, ancor più degna di menzione è la capacità di questo libro di contestualizzare, in un felice gioco di scale e di primi e secondi piani, un avvenimento che parrebbe, nella sua cruda ferocia, del tutto incontestualizzabile. Ecco, dunque, che la strage del popolo armeno appare animata da una sua spietata logica, al pari di ogni altro consimile scempio novecentesco. E, allo stesso modo di altri, analoghi, massacri, vi sono, nel genocidio armeno inconfondibili prodromi ed identificabili segnali. Certo, alla Turchia del 1915 mancava l’implacabile e cronometrica precisione di un apparto nazista o l’inumano cinismo di quello staliniano, ma le ragioni dell’odio, dello sterminio e dell’oblio sono le stesse. E sono ragioni eminentemente pratiche, di opportunità politica e sociale. E’ probabilmente questo il dato più aberrante dei genocidi del XX secolo, da quello degli Armeni a quello perpetrato da un delirante dittatore marxista come Pol Pot. La loro pianificazione è infatti assolutamente “moderna”, quasi “industriale”, con tanto di calcolo dei danni collaterali e delle economie di scala. Colpisce, a tal proposito, il fatto che gli argomenti dei ‘negazionisti’ di tutte le stragi siano assai simili tra loro. La versione secondo cui le vittime non sarebbero state uccise scientemente, ma per conseguenza di disagiate situazioni oggettive, che avrebbero aumentato a dismisura il normale tasso di mortalità in situazioni di per sé difficili (la deportazione, la detenzione in lager, la prigionia di guerra eccetera), è, ad esempio, comune a quasi tutte le versioni negazioniste degli olocausti. Lo stesso dicasi per la tristissima conta delle vittime, che, a seconda della convenienza, moltiplicano o riducono il proprio numero in maniera eclatante. Ebbene, nulla di tutto questo è nell’opera di Rosselli: egli appare, come sempre, animato dall’intento, che chi scrive ritiene essere l’unico deontologicamente corretto per uno storico, dell’avvicinamento al vero. Senza pregiudizi di sorta e, soprattutto, senza quelle finalità educativo-pedagogiche per cui la storia dovrebbe essere emendata di tutti i particolari che non siano funzionali ad un progetto manipolatorio delle coscienze. Rosselli non vuole convincere nessuno: leopardianamentre, egli si limita a mostrare le cose, nella loro cruda realtà, lasciando che siamo noi a trarne, eventualmente, delle conclusioni. Per questo, L’olocausto armeno è, prima di tutto, un libro onesto, in mezzo a tante opere che, se non sono mendaci in senso stretto, sono, quanto meno, compiacenti verso l’una o l’altra dottrina. All’autore queste compiacenze non sono mai interessate. Egli si è limitato a raccontare, in poche significative pagine, un passato terribile, che si riverbera su di un presente che, per molti versi, non gli è preferibile. Come al solito, ci ha dato una lezione di storiografia. E di questo non possiamo non essergli grati.
Ogni anno il governo russo spende 170 mila euro per rifare il look alle spoglie di Lenin, imbalsamate ed esposte, a partire dal 1924 (anno della sua morte) nel mausoleo creato appositamente sotto le mura del Cremlino. Nostalgici (sempre meno), turisti (sempre di più) e necrofili (immutato il loro numero) continuano a visitarla. Dopo Tutankamon, è la mummia più visitata al mondo. Ma già il leader Boris Eltsin aveva in testa un piano per fare seppellire Lenin lontano dal cuore di Mosca. A quell’epoca, l’afflusso turistico verso la Russia non era ancora di moda, e quella salma al centro del palazzo del potere moscovita dava fastidio: era ritenuta antiestetica, rammentava tristi e drammatiche vicende: insomma stonava con il nuovo corso della Russia moderna e non più comunista. Venti anni or sono, in seguito ad un sondaggio, il 55 per cento dei moscoviti si era pronunciato per l’eliminazione dei resti di Lenin, anche perché oltretutto girava voce che la presenza del padre del proletariato, menasse anche gramo per le sorti della città. Anche se – in quanto uomo di Chiesa, l’allora Patriarca di tutte le Russie, Alessio II, uomo non superstizioso, si limitò a caldeggiare cristianamente una degna sepoltura della salma in un normale cimitero. Tuttavia, salito al potere Vladimir Putin, avvenne un ripensamento, e il nuovo leader optò per una conservazione in loco, sperando – così sembra – che potesse servire per incrementare il flusso turistico. In fin dei conti, Lenin rappresentava un grande, rivoluzionario, anche se fallito, ‘sogno ideologico’ di portata planetaria.
Ma chi fu veramente Lenin? Fu colui che incarnò la ‘prima fase’ dello sterminio di un popolo (la seconda venne affidata al suo ben più sanguinario successore, cioè a Josif Stalin, le cui spoglie mortali vennero, nel 1961, fatte tumulare da Nikita Krusciov ben lontano dal Cremlino. Quanta acqua è passata, da allora, sotto i ponti. E quanti cose sono, nel frattempo, sapute sulle possenti e mitiche ‘imprese’ di Lenin, la ‘mummia rossa’ del Cremlino. Oggi tutti sanno che, aldilà del mito, Lenin fu ben altra cosa. Seppur dotato di brillante e sottile acume, sotto il profilo politico, Lenin non fu altro che un abilissimo ‘golpista’ che conquistò il potere avendo non più del nove per cento dei voti e servendosi dell’esercito e dell’artiglieria per imporre il suo credo. Insomma, si comportò né più né meno di un qualsiasi generale sudamericano. Lenin, come è noto, aveva in mente di «abolire il capitalismo e lo Stato», ma la prima cosa che fece fu quella di creare il «capitalismo di Stato» (definizione sua). Dopo avere sterminato l’aristocrazia, i possidenti terrieri e il clero (e fin qui, almeno, si dimostrò coerente con quanto aveva sempre predicato), passò alla seconda fase, cioè l’eliminazione degli ex alleati, cioè i «socialrivoluzionari di sinistra» (che lo aveva aiutato a conquistare la Duma, cioè al Parlamento di Pietroburgo). Quindi, Lenin passò alla terza fase, cioè lo sterminio degli anarchici, soprattutto di quelli ucraini. Il testo di Alberto Rosselli (storico genovese molto navigato e autore di numerosi testi ‘politicamente scorretti’), che vi accingete a leggere racconta con precisione e con coinvolgimento il fiume di sangue che Lenin e i suoi accoliti fecero scorrere nelle terre russe dal 1917 al 1920, in concomitanza con la Rivoluzione d’Ottobre e con la successiva Guerra Civile che contrappose i bolscevichi alle forze ‘bianche’. A questo proposito, Rosselli fornisce un dettagliato resoconto(supportato da dense, ma utili note) relativo a quest’ultimo, cruento e complesso evento, elencando campagne e battaglie, e ricordando l’ambiguo e discontinuo intervento delle Potenze dell’Intesa a sostegno dei generali ‘bianchi’.
Venne poi, nel marzo 1921, la quarta fase del Piano Lenin: lo sterminio dei marinai di Kronstadt, che pure erano stati determinanti per il successo del leader marxista. A sterminarli provvide, alla testa dell’Armata rossa, Lev Trotzky, che, compiuta la missione, inviò a Lenin un telegramma che la dice tutta: «Li ho massacrati come anatre nello stagno». E si trattava di anatre ‘comuniste’.
Si leggano poi le stringate ma inequivocabili pagine che Alberto Rosselli dedica alla ricostruzione del primo episodio del terrore rosso, il massacro della famiglia dello zar, portato a termine il 17 luglio 1918, quando a Ekaterinburg (cittadina situata della Russia centrale, sulle estreme propaggini occidentali degli Urali), l’intera famiglia reale composta dallo zar Nicola II, la moglie Aleksandra Fëdorovna, i loro figli (le granduchesse Olga, Tatjana, Marija, Anastasija e lo zarevic Aleksej Nikolaevic Romanov) e da alcuni membri del seguito, vennero barbaramente uccisi a colpi di pistola da un distaccamento della Ceka (la Polizia politica) agli ordini del commissario comunista Jakov Michajlovic Jurovskij. Fu soltanto l’inizio. Per citare un solo esempio, nel periodo 15 ottobre – 30 novembre 1918, in 12 province della Russia scoppiarono 44 sommosse spontanee anti-bolsceviche nel corso delle quali vennero arrestate 2.320 persone, milleseicento delle quali furono subito impiccate o fucilate. Una inezia, se si pensa che i componenti «Armata verde» del generale Aleksandr Stepanovič Antonov, che avevano osato disubbidire agli ordini sanguinari di Lenin, furono fatti prigionieri e passati per le armi: 50 mila morti. La repressione bolscevica non portò soltanto al massacro di parecchi milioni tra russi bianchi, ucraini anti-bolscevichi o appartenenti alle numerose e variegate minoranze etniche e religiose dell’ex-Impero zarista, ma si abbatté come una scure anche su tutti i partiti e i movimenti politici anarchici e di sinistra non allineati. Esistono a questo proposito numerose testimonianze circa le centinaia di migliaia di operai e contadini che vennero fucilati o impiccati dalla Ceka per “alto tradimento nei confronti dell’ideale rivoluzionario”.
Il libro di Alberto Rosselli ha infine il merito di aver posto in risalto la figura di Pêtr Stolypin, un grande padre della moderna Russia, ingiustamente dimenticato. Autore di un rivoluzionario e avveniristico piano di industrializzazione e di ammodernamento del settore rurale (per secoli unica fonte di vita e di sopravvivenza per le popolazioni russe), fu osteggiato sia dai latifondisti terrieri, sia dal rivoluzionari di Lenin, che finirono per assassinarlo nel 1911. Come sottolinea Rosselli, «Se Stolypin avesse avuto il tempo di realizzare le innovazioni socio-economiche che aveva in mente, la Rivoluzione d’ottobre del 1917 non si sarebbe mai verificata, mutando il corso della storia mondiale».
Ecco anche perché il lavoro di Rosselli va considerato uno strumento agile, ma utile per aiutarci a capire il passato, ma anche per comprendere l’evoluzione e il futuro della stessa Russia.