Situazione di stallo, ma negativa per l’Armenia, in Nagorno Karabak o Artsakh in lingua armena. Come è noto, alcuni mesi fa le truppe azere musulmane hanno occupato militarmente la regione, abitata in prevalenza da armeni cristiani, e non contenti, ora chiedono il riconoscimento legale di un atto ovviamente illegale. Al riguardo sia l’Onu che la Ue hanno palesato assai tiepido interesse per la questione, ritenuta secondaria rispetto al conflitto russo-ucraino e alla guerra a Gaza e in Libano, anche se la presidente della Commissione Ursula von der Leyen, il presidente Joe Biden, l’omologo turco Recep Tayyip Erdoğan e, da una posizione a parte, il Presidente Vladimir Putin, si sono tutti dichiarati favorevoli ad un rapido accordo di pace tra Armenia e Azerbajan, Paese quest’ultimo di fondamentale importanza per l’Occidente per via delle sue immense risorse energetiche (impianti petroliferi di Baku). L’accordo imbastito lo scorso 19 aprile tra Yerevan e Baku per la definizione di una parte del confine tra la regione armena di Tavush e quella azera di Gazakh ha dunque strappato il plauso della comunità internazionale preoccupata principalmente per l’eventuale messa a rischio degli oleodotti che lambiscono o attraversano le aree contese da Armenia e Azerbajan. L’accordo, tuttavia, ha suscitato il disappunto da parte di una buona fetta dell’opinione pubblica armena, e soprattutto da parte dei partiti di opposizione e del clero ortodosso. L’intesa, che riguarderebbe, almeno sulla carta (le zone controverse sono in realtà più estese) un breve tratto di confine tra i due Paesi, sarebbe un risultato del tutto vantaggioso per il governo di Baku in quanto l’area in questione, già occupata manu militari dagli azeri, riveste una grande importanza strategica e militare, anche in vista di un’eventuale espansione verso ovest, e cioè verso l’Armenia vera e propria: progetto, quest’ultimo, più volte sbandierato dal bellicoso leader azero Ilham Aliyev.
Il Presidente azero Ilham Aliyev.
L’intesa, di fatto, consente di fatto all’Azerbajan il controllo della statale che porta in Georgia (uno dei tre principali accessi in direzione di Tibilisi) e di due strategiche infrastrutture energetiche: il gasdotto South Caucasus Pipiline – SCP e l’oleodotto Baku-Supsa. Di fronte a tale situazione, il governo armeno sembra essersi piegato su se stesso, accettando lo stato di fatto pur di evitare un ennesimo devastante conflitto (tra il 1992 e il 2020, Armenia e Azerbajan hanno combattute tre sanguinose e costosissime guerre dagli esiti altalenanti). Nella fattispecie, il premier armeno Nikol Pashinyan ha di fatto accettato le richieste dell’autoritario presidente dell’Azerbaigian, Aliyev, scatenando, come si è detto, il malcontento generale e le proteste della popolazione armena del Nagorno Karabak, costretta dalle forze armate azere all’esodo verso la madrepatria.
Le comunità locali, sentendosi ‘tradite’ dall’esecutivo di Yerevan hanno dunque aderito, con l’appoggio della Chiesa Apostolica armena, al movimento patriottico “Tavush per la madrepatria” alla cui guida si è posto il cinquantatreenne arcivescovo Bagrat Galstanyan che il 9 maggio scorso aveva già promosso una marcia di protesta fino alla capitale Yerevan, culminata con una adunata in piazza della Repubblica alla quale avevano partecipato oltre trentamila persone ed esponenti dei partiti di opposizione e dell’ex presidente Robert Kocharyan (leader del Partito Miatsum, da sempre favorevole alla riunificazione tra Armenia e Nagorno Karabak). Pashinyan, a capo del Partito Contratto civile, ha di fatto giustificato la volontà di cessione all’Azerbajan dei territori sulla base di una mappatura del confine risalente al 1976, e successivamente confermata nel 1979 dall’istituto cartografico dell’URSS, e in linea con la dichiarazione congiunta di Alma Ata (oggi Almaty) del 21 dicembre 1991, voluta dalla Russia. Sta di fatto che, in base a questa vecchia mappatura, l’Azerbajan potrebbe (l’accordo è ancora da ultimare) potrebbe inglobare definitivamente quattro insediamenti del Nagorno Karabak a maggioranza armena: Voskepar, Baganis, Berbaker e Kirants, conquistati dagli armeni durante la guerra degli anni Novanta, suscitando ulteriori malcontenti da parte della popolazione. Dopo la sconfitta armena nella guerra del 2020, la Chiesa Apostolica armena ha assunto una posizione sempre più critica nei confronti del governo Pashinyan, accusato di volere regalare l’antico Artsakh cristiano al dittatore Aliyev. Ricordiamo che l’istituzione apostolica armena, dal 1991 garante della stabilità istituzionale della Repubblica armena indipendente, in questi ultimi tempi è andata assumendo posizioni sempre più ‘patriottiche’ e Karekin II, venerato Catholicos della Chiesa apostolica armena, si è progressivamente avvicinato alle posizioni di un altro importante religioso, Aram I, Catholicos di Cilicia, molto vicino alla diaspora armena. Ma ritorniamo alle intricate questioni armene interne. Come spiega Emanuele Aliprandi, storico ed esperto di geopolitica caucasica “la prima manifestazione a Yerevan ha raccolto molte persone e ha indotto Galstanyan ad avviare una serie di colloqui con politici di opposizione per dare vita a un movimento unitario contro Pashinyan. Tuttavia, il suo tentativo di creare una forte coalizione non ha sortito i risultati sperati anche a causa di una serie di veti incrociati delle varie fazioni politiche armene. Al punto che l’arcivescovo è stato indicato come soggetto super partes per guidare un governo di transizione. Si è parlato di impeachment per Pashinyan (ma di impossibile attuazione stante la maggioranza in parlamento) e della impossibilità per Galstanyan (che ha anche la cittadinanza canadese) di ricoprire il ruolo di Primo ministro. La seconda manifestazione, il 26 maggio – prosegue Aliprandi – ha visto un’affluenza di ventimila persone, dunque in calo rispetto alla precedente, sicché il movimento si è impegnato in una serie di azioni di “disobbedienza civile” quali ad esempio il blocco delle strade della capitale, che è finito in tafferugli”. Da parte sua,Pashinyan ha ribadito che la sua politica fa perno su un concetto pragmatico – ma inaccettabile – per gli armeni del Karabak, cioè l’accettazione di un compromesso al ribasso con Aliyev al fine di porre termine alla lunga e sanguinosa contesa. Il leader di Yerevan prospetta un’Armenia ‘reale’ da contrapporre ad una Armenia ‘terra promessa’, cioè storica, che non può a parer suo essere attuata. Il premier armeno ha dichiarato che per garantire la sovranità sui 29.743 chilometri quadrati della repubblica è necessario stabilire un principio condiviso con la controparte azera, cioè una sorta autolimitazione territoriale seppure a costo di dolorose rinunce quale unico strumento utile per garantire la futura sicurezza dell’Armenia stessa che, ricordiamo, dispone di un apparato militare molto debole – nonostante gli aiuti forniti da Francia e India – rispetto a quello azero, sostenuto da Turchia e Israele. Il proponimento ‘pacifista’ di Pashinyan appare dunque eticamente lodevole, ma del tutto pericoloso in quanto Ilham Aliyev (massicciamente sostenuto, sotto il profilo militare, dalla Turchia, dall’Iran, dal Pakistan e dalla Russia, un tempo paladina dell’Armenia), in un recente passato ha più volte dichiarato l’intenzione a riappropriarsi di altre porzioni dell’Armenia considerate da questi “storicamente azere” (cosa del tutto falsa). Detto ciò, Yerevan e Baku continuano a dichiararsi entrambe favorevoli alla firma di un accordo in tempi brevi, anche se sul contenuto del testo c’è ancora molto da discutere. A questo proposito, Armenia e Azerbajan si sono già scambiate numerose e versioni del documento finale composto da sedici articoli, tre dei quali però sono già stati cassati da Baku. L’Azerbaigian ha infatti richiesto che l’Armenia cambi addirittura la propria costituzione in quanto la stessa, nel preambolo, fa riferimento alla dichiarazione di indipendenza del 1991 che contiene un passaggio relativo alla riunificazione con l’Artsakh (Nagorno Karabakh): richiesta improponibile in quanto, dato e non concesso che essa venisse accettata da Yerevan, sarebbe comunque necessaria la sua approvazione soltanto attraverso un referendum popolare, cosa del tutto impensabile. Ma non è tutto. Non contento, Aliyev ha inoltre avanzato la richiesta di smilitarizzazione del Paese confinante e lo scioglimento del cosiddetto Gruppo di Minsk dell’Osce che per quasi trent’anni ha condotto le trattative sul Nagorno Karabakh.
Artiglieria azera.
Versione in lingua inglese.
Nagorno Karabak: Armenia and Azerbaijan negotiate an understanding, but the claims of the belligerent Azerbaijani President Ilham Aliyev and the concomitant weakness of the Armenian executive of President Nikol Pashinyan risk putting Yerevan with its back to the wall.
By Alberto Rosselli
A stalemate situation, but a bad one for Armenia, in Nagorno Karabak or Artsakh in Armenian. As is well known, a few months ago Azerbaijani Muslim troops militarily occupied the region, inhabited mainly by Christian Armenians, and not content, they are now demanding legal recognition of an obviously illegal act. In this regard, both the UN and the EU have shown very lukewarm interest in the issue, which is considered secondary to the Russian-Ukrainian conflict and the war in Gaza and Lebanon, although Commission President Ursula von der Leyen, President Joe Biden, Turkish counterpart Recep Tayyip Erdoğan and, from a separate position, President Vladimir Putin, have all declared themselves in favour of a swift peace agreement between Armenia and Azerbaijan, the latter a country of fundamental importance to the West because of its immense energy resources (Baku oil facilities). The agreement reached on 19 April last between Yerevan and Baku to define part of the border between the Armenian region of Tavush and the Azerbaijani region of Gazakh has thus won the applause of the international community, which is mainly concerned about the possible endangering of the oil pipelines that touch or cross the areas disputed by Armenia and Azerbaijan. The agreement, however, has been met with disappointment by a large section of Armenian public opinion, and especially by opposition parties and the Orthodox clergy. The agreement, which would concern, at least on paper (the disputed areas are actually larger) a short stretch of border between the two countries, would be an entirely advantageous result for the Baku government, since the area in question, already occupied manu militari by the Azeris, is of great strategic and military importance, also in view of a possible westward expansion, i.e. towards Armenia proper: a project, the latter, repeatedly flaunted by the belligerent Azerbaijani leader Ilham Aliyev. The agreement, in fact, gives Azerbaijan control of the state highway leading to Georgia (one of the three main accesses in the direction of Tibilisi) and of two strategic energy infrastructures: the South Caucasus Pipeline – SCP and the Baku-Supsa oil pipeline. Faced with this situation, the Armenian government seems to have folded in on itself, accepting the state of affairs in order to avoid yet another devastating conflict (between 1992 and 2020, Armenia and Azerbaijan fought three bloody and costly wars with fluctuating outcomes). In this case, the Armenian Prime Minister Nikol Pashinyan has in fact accepted the demands of the authoritarian President of Azerbaijan, Aliyev, unleashing, as mentioned above, the general discontent and protests of the Armenian population of Nagorno Karabak, forced by the Azerbaijani armed forces to exodus to the motherland. The local communities, feeling ‘betrayed’ by the Yerevan executive, have therefore joined, with the support of the Armenian Apostolic Church, the patriotic movement ‘Tavush for the Motherland’ headed by 53-year-old Archbishop Bagrat Galstanyan, who on 9 May had already promoted a protest march to the capital Yerevan, which culminated in a rally in Republic Square attended by over thirty thousand people and representatives of the opposition parties and former President Robert Kocharyan (leader of the Miatsum Party, which has always been in favour of the reunification of Armenia and Nagorno Karabak). Pashinyan, leader of the Civil Contract Party, has in fact justified the willingness to cede the territories to Azerbaijan on the basis of a mapping of the border dating back to 1976, and subsequently confirmed in 1979 by the USSR Cartographic Institute, and in line with the joint declaration of Alma Ata (today Almaty) of 21 December 1991, desired by Russia. It is a fact that, according to this old mapping, Azerbaijan could (the agreement has yet to be finalised) definitively incorporate four settlements in Nagorno Karabak with an Armenian majority: Voskepar, Baganis, Berbaker and Kirants, conquered by the Armenians during the war in the 1990s, causing further discontent among the population. After the Armenian defeat in the 2020 war, the Armenian Apostolic Church has taken an increasingly critical stance towards the Pashinyan government, accused of wanting to hand over the ancient Christian Artsakh to the dictator Aliyev. Let us recall that the Armenian Apostolic Institution, since 1991 guarantor of the institutional stability of the independent Armenian Republic, has recently been assuming increasingly ‘patriotic’ positions, and Karekin II, revered Catholicos of the Armenian Apostolic Church, has progressively moved closer to the positions of another important cleric, Aram I, Catholicos of Cilicia, who is very close to the Armenian diaspora. But let us return to the intricate internal Armenian issues. As Emanuele Aliprandi, a historian and expert in Caucasian geopolitics, explains, ‘the first demonstration in Yerevan gathered many people and induced Galstanyan to start a series of talks with opposition politicians to create a united movement against Pashinyan. However, his attempt to create a strong coalition did not have the desired results also due to a series of cross vetoes by the various Armenian political factions. So much so that the archbishop has been singled out as a super partesperson to lead a transitional government. There was talk of impeachment for Pashinyan (but impossible to implement given the majority in parliament) and of Galstanyan’s (who also has Canadian citizenship) inability to serve as Prime Minister. The second demonstration, on 26 May,‘ Aliprandi continues, “saw a turnout of twenty thousand people, a drop compared to the previous one, so the movement engaged in a series of ”civil disobedience’ actions such as blocking the streets of the capital, which ended in scuffles’. For his part, Pashinyan reiterated that his policy hinges on a pragmatic – but unacceptable – concept for the Karabak Armenians, namely the acceptance of a downward compromise with Aliyev in order to end the long and bloody dispute. The Yerevan leader envisages a ‘real’ Armenia to be contrasted with a ‘promised land’ Armenia, i.e. a historical one, which in his opinion cannot be realised. The Armenian premier has declared that in order to guarantee sovereignty over the republic’s 29,743 square kilometres, it is necessary to establish a principle shared with the Azerbaijani counterpart, i.e. a sort of territorial self-limitation, albeit at the cost of painful renunciations, as the only useful instrument to guarantee the future security of Armenia itself, which, let us remember, has a very weak military apparatus – despite the aid provided by France and India – compared to the Azerbaijani one, supported by Turkey and Israel. Pashinyan’s ‘pacifist’ proposition therefore appears ethically praiseworthy, but completely dangerous, since Ilham Aliyev (massively supported militarily by Turkey, Iran, Pakistan and Russia, once Armenia’s champion) has in the recent past repeatedly declared his intention to retake other parts of Armenia that he considers ‘historically Azerbaijani’ (which is completely false). That said, Yerevan and Baku both continue to declare themselves in favour of signing an agreement soon, even though there is still much to discuss on the content of the text. In this regard, Armenia and Azerbaijan have already exchanged several versions of the final document consisting of sixteen articles, three of which Baku has already withdrawn. In fact, Azerbaijan has requested that Armenia even change its own constitution insofar as the same, in the preamble, refers to the 1991 Declaration of Independence that contains a passage concerning reunification with Artsakh (Nagorno Karabakh): an unfeasible request insofar as, given and not granted that it would be accepted by Yerevan, its approval would in any case only be required through a popular referendum, which is completely unthinkable. But that’s not all. Not content with that, Aliyev has also put forward a request for the demilitarisation of the neighbouring country and the dissolution of the OSCE’s so-called Minsk Group, which for almost thirty years has conducted negotiations on Nagorno Karabakh
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