L’uomo, la sua salute, l’Universo; potremmo definire l’Ayurveda in questa triade. C’è l’uomo collocato nell’Universo, per la durata della sua vita, che va dalla nascita alla sua morte fisica; c’è un uomo che è un insieme inscindibile di corpo fisico di mente e di spirito, non distinti fra di loro se non per le differenti manifestazioni; c’è un uomo che ha un corpo fisico che per sua natura si corrompe, decade e, pur nella salute, ha un termine; un corpo però che può anche decadere e deteriorarsi a causa delle malattie ed avere precocemente un termine; decadenza e deterioramento che possono essere evitati seguendo un corretto stile di vita; c’è un uomo che pur seguendo un corretto stile di vita e pur non decadendo maggiormente a causa della malattia, è destinato ad abbandonare il suo corpo fisico in questa vita manifesta; c’è un uomo che possiede la parola e la parola ha dato origine all’Universo: OM, vibrazione originaria, suono e luce. La parola è potere; c’è un uomo che ha questo potere, ricevuto da chi regge l’Universo; c’è un uomo che ha bisogno di conoscere i modi per vivere secondo un corretto stile di vita e non perdere la salute, a causa della malattia, perché ha un compito fondamentale: cantare gli Inni all’Universo; c’è un uomo che nella salute trova la fonte principale della virtù, della ricchezza, dell’amore e della liberazione; c’è un uomo che è imperfetto, fragile, che può perdere la salute: a quest’uomo il Divino Assoluto reggitore dell’Universo, mosso a compassione, ha consegnato l’Ayurveda per mantenersi in salute, perché imparasse a non perderla o a riacquistarla, qualora l’avesse perduta. Brahma, divinità creatrice dell’Universo stesso l’ha rivelata agli uomini, e la tradizione si premura di chiarire che Brahma non l’ha elaborata per trasmetterla, in quanto l’Ayurveda era già, da intendersi era già nell’ eternità, non ancora manifesta.
L’Ayurveda ha un’origine divina, come è scritto nel Charaka Samhita, che non è soltanto il primo libro di medicina indiana, e nemmeno il primo libro di medicina, ma è, insieme ai Veda, uno dei primi libri a noi pervenuti. Origine divina, vera o presunta non sposta il problema: c’è stato un popolo, gli Arya, che ha immaginato che la cura della salute provenisse da una elargizione divina. Nella storia delle religioni è comune rivolgersi alle divinità per impetrare la salute perduta; nella nostra tradizione a partire dai Greci, che si rivolgono ad Apollo fino al Cristianesimo, che esorta a pregare per la salute e che ha individuato luoghi dove la preghiera assume una maggior potenza e che ha, attraverso il culto mariano e dei santi, educato a rivolgersi a mediatori che intercedano presso il Dio nei cieli, c’è questo rapporto fra l’uomo e il divino che può garantire la salute, proteggere dalla malattia, e, persino attraverso il miracolo sanare malattie considerate irreversibili. In nessuna altra cultura e in nessuna altra religione è stato immaginato il diretto intervento del Divino che offre all’umanità un programma esistenziale, che è una proposta per uno stile di vita, ma non solo, da seguire per garantire la salute e per recuperarla quand’essa fosse perduta, nella considerazione tuttavia che la vita ha una fine, e che nulla può eliminare la morte.
Per comprendere questa dimensione che unisce il divino e l’uomo (da non confondere con l’uomo al divino), nell’ambito della cura di sé, occorre risalire al mondo degli Arya, un popolo di nomadi di cui non conosciamo altro che le loro parole; Arya, così si chiamavano, con un nome che potremmo tradurre I Nobili. Un popolo che non ha lasciato null’altro che parole, non un manufatto, non una immagine; solo parole. Sappiamo quasi nulla di loro, da dove provenissero prima di infiltrarsi nella valle dell’Indo; quel che abbiamo sono le loro parole e che, attraverso una serie di mescolanze hanno dato vita alle lingue di quei popoli, chiamati indoeuropei e che, probabilmente da loro provengono. Eppure, gli Arya hanno attraversato la storia con le loro parole, trasmesse oralmente finché trascritte nella loro lingua e, trascorso un lungo lasso di tempo, trascritte ancora dai loro diretti eredi, gli Hindi, nella loro lingua, il sanscrito, probabilmente, intorno al V secolo a.C. per giungere così fino a noi.
Parole suddivise in quattro libri, che altro non sono se non Inni, inni sacri, preghiere, litanie, formule di protezione. Da queste parole si comprende che gli Arya vivono immersi nel Sacro, sono essi stessi parte integrante del Sacro: fra la Natura, nella sua declinazione più ampia, e l’Assoluto che la governa, ma non da intendersi come effetti di qualcosa che separa, ma soltanto come differenti espressioni della medesima entità, si pone l’uomo, con la sua consapevolezza, al quale compete di mantenere l’ordine del mondo intorno a lui, nel prezioso rispetto della sua sacralità e di rendere costante il canto di lode e di ringraziamento all’Universo, per mezzo di parole, per la dote di consapevolezza che consente a lui, individuo umano, di apprezzare ciò che è intorno, e di goderne nella profondità della coscienza, e, con la parola, che lo rende unico nell’Universo rendere grazie di essere unico nella varietà dell’Universo ad avere la parola. Uomini talmente immersi nel Sacro, da non aver bisogno di immagini: il Divino era lì in loro e con loro, i riti si svolgevano in un altare nella sembianza di fuoco, Agni, che tutto trasforma, e alla fine del rito l’altare veniva distrutto, perché Agni è nel Sole, che al suo apparire porta “vacche di luce”: meravigliosa simbologia fra il materiale della Natura e l’essenza stessa della vita; l’energia della Luce, Sattva, che vivifica il corpo e apre lo Spirito alla comprensione delle leggi cosmiche, dell’essenza dell’Universo, a cui ognuno deve adeguarsi, Dharma.
Il corpo dell’uomo per la realizzazione sulla via del Dharma ha bisogno di restare in salute, Swastha, iltermine composto da sta, stare e Swa, sé, ovvero stare in sé stesso; per stare bene occorre dimorare in sé stessi. Questa preoccupazione è espressa soprattutto nel IV Veda, Atharvaveda, che preannuncia il contenuto che sarà successivamente dettagliato nel Charaka Samhita, che vuol dire Raccolta dei maestri; un libro che rappresenta il percorso compiuto dal tempo in cui furono definiti i Veda, sceso in una pratica continua da parte di quegli uomini che si erano dedicati alla cura delle persone, chiamati Charaka, e che intorno all’inizio del primo millennio a.C. viene trascritta in una raccolta, Samhita, che diviene il primo libro al mondo che tratta di salute e di malattia. Una raccolta che analizza la natura del corpo umano, la sua struttura (anatomia), il suo funzionamento (fisiologia), come alimentarsi, cosa scegliere fra gli alimenti possibili, come comportarsi per mantenersi in salute, seguendo uno stile di vita, rispettoso dei ritmi giornalieri e notturni, stagionali e, soprattutto, consapevole del progredire dell’età. Ayurveda è un catalogo di precetti per dimorare in sé.La conoscenza diviene scienza, sapere richiede metodo, il metodo si fonda su regole. Veda è conoscenza e scienza. Ayurveda è conoscenza di come si struttura la vita, in quel percorso fra la nascita e la morte, e la nascita si àncora al concepimento e alla struttura fisica e mentale dei genitori e così via nella successione delle generazioni; non si è solo segmento nell’esistenza, si è parte di una linea che viene da lontano e che si proietta nel futuro. Ayurveda è scienza della vita, perché definisce i risultati di quella conoscenza: vita individuale all’interno della Vita universale.
L’idea di una concessione divina, ribadita all’inizio di questo testo, ancor oggi basilare per chi si accosta allo studio dell’Ayurveda lascia all’uomo la responsabilità della gestione della sua vita e della sua salute; il Divino ha fornito un programma finalizzato a mantenersi in salute, che non può essere definita buona salute in quanto non si prevede un livello graduato nell’essere in salute, o si è in salute o non si è in salute, a causa dell’instaurarsi della malattia. All’uomo compete di adeguarsi a quel programma, sempre che desideri mantenersi in salute. Si tratta di una visione molto lontana da quella alla quale nel nostro mondo si è abituati: ci si preoccupa poco della salute fino a quando non si evidenziano i segni della sua perdita; raramente si insegna ai nostri figli a porre attenzione alla loro salute, e, spesso, si equivoca che praticando sport si abbia compiuto quando necessario per ché il corpo cresca sano; sovente molta poca attenzione si porta all’alimentazione, si è molto permissivi e quando sono adolescenti non sono sufficientemente tutelati nel loro accostarsi ad abusi di vario tipo, l’alcool e le droghe in primis. Quando il sintomo si manifesta oggi si ricorre ai nuovi sacerdoti affinché compiano con la loro tecnica un lavoro per recuperare la salute perduta; ancor oggi, perché si è passati da una cultura che si rivolgeva agli intermediari della divinità a una nuova forma di richiesta che si avanza al sacerdote della società contemporanea, il dottore medico; l’individuo cresce sostanzialmente esente dalla responsabilità di avere cura di sé, che viene demandata a colui che la scienza ha individuato come unico mediatore fra la salute e la malattia; capita inoltre che si equivochi il benessere fisico con la prestanza fisica.
Per questo viene difficile comprendere il senso profondo dell’Ayurveda, che spesso cade nell’ingannevole equivoco di essere funzionale allo stare bene nel senso puramente fisico. Il testo fondamentale, Charaka Samhita, inizia con la parola esporrò, ribadita subito dopo dalla parola disse: “Ora, esporrò la durata della vita così come disse il Maestro Atreya”. Parola che permetta di passare informazioni da uno all’altro, da una generazione all’altra, che consente all’umanità di evolvere, progredire, che lega i figli ai padri, costruendo identità, consapevolezza dell’essere parte di una storia, nella quale la vita dell’individuo solo apparentemente ha inizio e fine, solo nella fisicità, ma non nella coscienza. Parola, che è proprietà e segno distintivo dell’umano essere, parola che serve, come è detto poche righe dopo per comprendere il danno che procurano le malattie, che sono impedimento all’ascesi, allo studio, alla continenza, alla vita stessa degli uomini, e per poter evitarle. In poche righe, il trattato delinea la ragione per cui il Divino Brahma ha messo a parte di alcuni uomini saggi il contenuto dell’Ayurveda, essa serve soprattutto alla componente spirituale dell’uomo, che può essere compromessa dall’insorgere della malattia nel corpo. E, se non fosse stato chiaro il concetto, il testo prosegue poche righe dopo, ribadendo che la salute ovvero l’assenza di malattia permette di mantenersi in armonia con l’ordine universale, permette di ottenere la giusta soddisfazione dalla ricchezza, il controllo dei desideri e infine di raggiungere la possibilità di liberarsi dalla dualità. I primi tre sono considerati i valori fondanti dell’esistenza, che si manifesta all’interno di un ordine universale. Il primo, mantenersi in armonia con l’ordine universale, dharma, è il punto di partenza: è un richiamo forte all’uomo a considerarsi parte di un universo, che ha un ordine e non tanto il suo padrone; ma attraverso la parola, la conoscenza, la consapevolezza, l’uomo ha anche la responsabilità di avere un comportamento retto per mantenere quell’ordine; il concetto era stato già esplicitato nel IV Veda, dove, al libro XII, si dichiara che l’uomo riceve tutto dalla Terra (Cosmo, Universo), che si sostiene nell’ordine senza patire compressione dal mezzo degli uomini; il forte legame fra rettitudine dell’uomo e Natura è ribadito più e più volte nei Veda, e di qui nasce l’attenzione quasi maniacale dell’Ayurveda per il rispetto di tutto ciò che l’uomo è in grado di osservare, perché ogni aspetto della Natura è in relazione con l’esistenza umana. La tradizione racconta che un grande medico anziano dovendo scegliere un successore, chiese ai suoi discepoli di portarli le erbe che loro ritenevano importanti per la vita dell’uomo; i discepoli tornarono a lui chi con poche chi con tante erbe, uno solo non portò nulla; interrogato dal maestro rispose che non era in grado di portare tutte le erbe, perché ognuna di loro ha una sua particolare utilità per la vita umana: il maestro lo scelse come successore. Il secondo pilastro consegue dal primo, perché chi vive rispettoso dell’ordine universale, può vivere ottenendo quelle ricchezze necessarie ad affrancarlo dal bisogno artha; suggerisce l’Ayurveda chesi deve avere come obiettivo una vita che non sia afflitta dall’inseguire le necessità primarie, perché in caso contrario non avrà la possibilità di garantire al corpo la sua salute; la ricerca della sicurezza economica non deve essere mirata ad ottenere oltre quello che serve, altrimenti si diventa preda tensioni che aggraveranno la salute: la sollecitazione per un equilibrato impegno diviene il punto di partenza per il terzo pilastro, rappresentato dal controllo dei sensi, Kama. L’Ayurveda riconosce che buona parte delle malattie nascono dal desiderio, che si può dividere in desiderio di… e desiderio che non…; il desiderio di…muove dall’ambizione, dalla lussuria, dall’invidia, dalla gelosia, quindi in ultima analisi desiderio di possesso di qualcosa o di qualcuno, al contrario il desiderio che non… si origina dalla paura che accada qualcosa, di perdere ciò che si ha, di essere preda di eventi incontrollabili. Questi due desideri, che sono uno la faccia dell’altro, debbono essere regolati, perché si deve riuscire a raggiungere quell’equilibrio, rappresentato dall’ultimo pilastro, Moksha, che rappresenta la possibilità di liberarsi della dualità, raggiungere la serena pacificazione oltre il flusso della trasmigrazione. La salute è questo equilibrio che deriva dall’assenza delle malattie, allo scopo di liberarsi dalla pena della corporeità. Tuttavia, c’è qualcosa d’altro, che va individuato: la salute consente di essere in armonia con l’Universo, così da poter elevare all’Universo stesso e alle sue divine presenze gli Inni di lode, che sono, di fatto, il contenuto dei Veda. Il punto di partenza è la conoscenza di sé stessi, come funziona il corpo, quali caratteristiche di ognuno sono manifestate nella complessa funzionalità del corpo; nosce te ipsum, prima dei greci, Aria e Hindi affermano che la salute del corpo della mente e dello spirito si fonda sulla conoscenza di sé. L’Ayurveda da una parte diviene così un catalogo complesso e particolareggiato per la conoscenza dell’individuo, della sua provenienza familiare, del suo essere collocato in un contesto ambientale, fatto di cultura credenze clima, dotato di alcune opportunità, che sono il censo e la capacità di educazione da parte della famiglia e del gruppo di appartenenza; da un’altra parte costruisce un sistema di terapia corporale, costituito da una particolare attenzione alla dieta alimentare, dall’assunzione di rimedi a base di erbe o di minerali, da un complesso catalogo di manipolazioni e massaggi. Il viaggio dell’Ayurveda è durato millenni nella sua culla originaria, l’India, perseverando nella ricerca per il suo obiettivo primario, la salute, aprendosi ad altre culture e alla loro medicina, soprattutto quella araba, mantenendo sempre una attenzione al nuovo, ma senza mai perdere la sua specifica identità. In quella che fu la sua culla, fu poi duramente avversato dal colonialismo inglese, che giunse a proibirla e perseguirla, quasi a farla scomparire, ritenendola praticamente una superstiziosa forma di magia. Rinasce, seppure con una certa faticosità iniziale, dopo l’indipendenza, e ha contribuito a ricostruire la nuova identità dell’India, ma si afferma ormai quasi esclusivamente come medicina del corpo, alternativa alla medicina considerata ufficiale, scientifica. Il profondo valore spirituale si è attenuato fino a scomparire quasi del tutto in Occidente, dove dell’Ayurveda si consuma soprattutto la tecnica per il benessere, inteso come un essere bene nel e del corpo da esibire.
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