Oltre settantacinque anni fa, quando nei teatri di guerra tutto andava storto per il nostro Paese, un ufficiale atipico degli alpini, Giovanni Corsini, discendente di una delle più antiche famiglie aristocratiche di Toscana, riuscì a beffare gli inglesi con una delle fughe più avventurose e spettacolari da un campo di concentramento situato nell’Etiopia appena conquistata dai britannici. Che il tenente Corsini fosse un personaggio particolare lo testimonia la sua biografia.
Scampato casualmente al titolo di principe perché non primogenito, si trovò libero di scegliersi la vita senza troppi condizionamenti e quindi fu fatalmente coinvolto nelle vicende dell’Impero, come accadde a tanti giovani nella seconda metà degli anni Trenta. Per uno come lui, pur sempre legato a tradizioni che lo imparentavano con Sant’Andrea, Marietta Machiavelli, papa Clemente XII e Bettino Ricasoli, un posticino da impiegato gli andava stretto.
Una borsa di studio che l’avrebbe portato per qualche tempo in Cina, vinta con regolare concorso, poteva andare bene, ma arriva la cartolina rosa e si trova militar soldato. Chiede di partecipare all’avventura etiopica e il sorteggio non gli è favorevole. Allora, tornato borghese, pensa ad Addis Abeba come luogo ideale per un’attività commerciale. Fonda una società, la SAILE, Società anonima italiana legnami, e in pochi anni diventa il più importante operatore del ramo. La guerra lo sorprende nel pieno dell’attività e richiamato, come tutti i maschi sotto i 55 anni, scopre con disappunto che, oltre ad una disorganizzazione impressionante, non ci sono divise e fucili. Il tutti a casa si trasforma in poco tempo tutti prigionieri di guerra . La moglie Olga è internata, i due figli in tenera età in viaggio per l’Italia e lui, dopo un avventuroso peregrinare per mare e per terra si trova al campo POW (Prisoner of war) di Eldored, in Kenia, a condurre un’esistenza immiserita dalle piccinerie di un’umanità frustrata e delusa. L’idea della fuga, per quanto impensabile, diventa ogni giorno più ossessiva e fantasiosa.
Trafugare un idrovolante sul lago Vittoria con un collega pilota? Ci pensano, ma non c’impiegano molto a rendersi conto che è pura follia. Uscire via terra dal centro Africa, in mano agli inglesi, significa percorrere almeno 2.800 chilometri prima di trovare un paese neutrale come il Mozambico, ai tempi colonia portoghese. Con la flemmatica determinazione di una partita a golf, assieme ad altri quattro compagni, studia carte, lavora a confezionare documenti falsi, si procura divise inglesi, fa una scorta di carburante, ricama personalmente le controspalline da capitano e comincia ad esercitarsi nell’imitazione, con scherzi ai danni dei commilitoni, dei modi e dei comportamenti degli ufficiali di Sua Maestà. Alto, dinoccolato, snob quel tanto che basta a toccare le corde sensibili dei figli della perfida Albione, infila in testa un cappellaccio boero, veste con noncuranza la divisa coloniale, maneggia il frustino con la naturalezza di chi, oltre all’attitudine, ha la consuetudine al comando ed ecco un impeccabile captain J.A. Dickson, che non avrà mai bisogno di esibire documenti per spostarsi a piacimento o per entrare al circolo ufficiali, tant’era inglese fino al midollo, grazie anche alla perfetta conoscenza della lingua di Shakespeare.
I protagonisti della grande fuga.
Ai posti di blocco al massimo chiedevano: captain you need something? E lui, con un cenno negativo della mano e l’aria schifata di chi mal sopporta l’imbarbarimento dell’idioma oxfordiano, passava oltre impettito e marziale. L’avventurosa fuga a bordo di un camion Chevrolet, preso in comodato gratuito temporaneo dagli inglesi, o se vogliamo preda bellica in perfetta linea con la convenzione di Ginevra e restituito a missione compiuta, è un susseguirsi di colpi di scena, esilaranti contrattempi, trucchi ingegnosi per procurarsi il carburante e qualche pezzo di ricambio indispensabile a far girare il motore di un riottoso automezzo non avvezzo ai lunghi percorsi.
Soldati italiani addetti ad una mitragliera da 20 mm. (Africa Orientale, 1941).
Per non essere importunati durante le soste per riparazioni, si mascherava il tutto come se si trattasse di impellenti bisogni fisici, soddisfatti secondo manuale lungo le scarpate delle strade. Ovviamente dovevano durare ore, se non mezze giornate. Solo la fantasia spregiudicata di giovani, sicuramente animati dal desiderio di tornare in patria, ma allo stesso tempo determinati ad ingaggiare una sfida beffarda nei confronti di avversari supponenti, poteva suggerire un’impresa che li avrebbe portati alla libertà attraversando il cuore del continente africano, con tutte le insidie immaginabili e per di più in stato di guerra. Questa straordinaria vicenda, che vide coinvolti anche i tenenti Franco Tonelli, Mario Bonioli, il capitano Amedeo Marsaglia e l’allievo ufficiale Girolamo Nucci, è raccontata in un libro edito dalla Mursia, oggi introvabile, dal titolo: Lunga fuga verso il sud . È un affresco di raffinata fattura, accattivante e distaccato di un senso cavalleresco ancora vivo tra uomini, che il caso ha voluto avversari senza renderli nemici accaniti. La guerra è bella ma scomoda ; per Corsini e i suoi amici, scomoda e divertente.
E così la loro avventura finì su tutti i giornali del mondo, deliziando perfino gli inglesi. Un po’ meno i comandanti dei Campi POW di Eldoret, Nairobi e giù fino a Tete, dove i fuggiaschi passarono accolti con gesti di cortesia e secchi colpi di tacco. (v.b.)
(*) Pubblicato sul numero di ottobre 2008 della Rivista L’Alpino.
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