1. Il contesto storico.
Una caratteristica che di fatto accomuna i quattro grandi che vollero l’Italia – come dice il compianto Giovanni Spadolini – cioè Mazzini, Garibaldi, Vittorio Emanuele II e Cavour, é quella di avere passato tante notti insonni nel prendere una decisione esiziale per la politica unitaria che ciascuno perseguiva. Mazzini, per esempio, quando non andarono a segno le insurrezioni democratiche del 1833 e il 1834, cadde in una profonda crisi personale di angoscia, assumendo su di sé le sofferenze e i dolori che la repressione austriaca adottò a danno delle persone e delle famiglie dei patrioti, ponendosi il grave quesito della efficacia del nuovo movimento, la Giovane Italia. Egli vedeva in sogno il fantasma dell’amico Jacopo Ruffini e poi il volto dei fratelli Bandiera. Garibaldi nondimeno restò spesso preoccupato, per non dire sull’orlo dell’infarto, quando seppe della tragica morte di Pisacane, suo grande discepolo, quando già ipotizzava di sbarcare in Sicilia con 1000 volontari di fronte all’esercito borbonico riconosciuto come uno dei migliori d’Europa. E poi Vittorio Emanuele II non passò giorni felici quando dopo la sconfitta definitiva di Novara del 24.3.1849, non solo fu costretto a reprimere in aprile una violenta rivolta popolare a Genova che lo voleva escludere dalla successione al Re Carlo Alberto; ma anche nel momento in cui decise nel maggio dello stesso anno di conferire a Massimo D’Azeglio la guida del nuovo Governo in armonia allo Statuto Liberale, concesso dal padre Carlo Alberto, malgrado le pressioni interne conservatrici che addirittura speravano in ulteriori restrizioni dei diritti civili e parlamentari, come stava accadendo negli altri Stati d’Italia. Infine Cavour: dopo un quinquennio di governo votato ad introdurre notevoli riforme economiche su modello belga e inglese finalizzate alla libertà di circolazione e di concorrenza nel piccolo stato piemontese, ivi compresa una legislazione in materia di libertà religiosa e di politica ecclesiastica di tolleranza per le religioni protestanti ed ebree.
Il memoriale Ricci.
Cavour cominciò allora a guardare alla vicina Francia di Napoleone III che voleva spezzare la rinnovata alleanza fra Nicola I di Russia e Francesco Giuseppe d’Austria – Ungheria, senza svalutare i primi vagiti di nazionalità germanica, dove l’Unione doganale (lo Zollverein) stava preparando quell’unione politica dell’intera Germania propagandata dal giovane Bismarck a guida prussiana, che già intravvedeva come un modello da perseguire. Del resto, la politica di progressiva industrializzazione di cui si disse era pure largamente già operativa in Inghilterra, nella misura in cui il Palmerston – Ministro degli Esteri e capo di Governo liberale negli anni ’40 – si era legato alle teorie di Ricardo, economista liberale classico, fautore del commercio internazionale quale fonte primaria della crescita nazionale. L’antisocialismo derivato dagli insuccessi del 1848; lo sviluppo della borghesia della città industriale a Parigi e a Londra, alleata alla borghesia agraria delle campagne e il nazionalismo imperialista e colonialista fecero la fortuna politica di Napoleone III e ottennero l’adesione politica di Cavour che da tali intese poteva ottenere l’obiettivo unitario dell’Italia al di là delle inadeguate alleanze interne fra liberali e democratici falliti nella Prima Guerra di Indipendenza. Insomma, un’unità di azione interna ed estera, che avrebbe disorientato la ormai statica politica del Metternich e dei suoi epigoni austriaci piuttosto allarmati dall’espansionismo verso il Mar Nero e i Balcani dell’Orso Russo Romanov.
Mappa Guerra di Crimea.
Occorreva dunque un pretesto, un’occasione per stare dalla parte dell’occidente contro l’aggressione del fratello russo all’oppresso ottomano, precedente essenziale per la successiva spallata all’Austria – Ungheria. In questo vortice diplomatico e geopolitico, ecco l’evento della guerra di Crimea (1853) che si presentava a tutela dei commerci internazionali e della libera navigazione, ma che nascondeva lo scontro tra gli imperialismi colonizzatori da occidente ad oriente a danno della Sublime Porta. Ma si poteva intervenire in quella guerra europea? Mentre Cavour tesseva una tela di ragno da Napoleone a Palmerston cercando di avere il loro consenso alla partecipazione alla guerra e poi a qualche promessa di loro intervento per acquisire il Lombardo-Veneto; Austria e Prussia remavano contro allo scopo di influenzare Cavour a restare neutrale, magari facendo leva su astratti compensi territoriali in caso di mancata adesione all’alleanza antirussa già operativa in Crimea. Un po’ quello che accadrà con Vienna nel 1914 e con Londra nel 1939, alla vigilia dei due grandi conflitti mondiali del ‘900. Le notti insonni di Cavour, passate col generale Lamarmora a vagliare la effettiva necessità e consistenza dell’intervento in quelle terre e la qualità dalla serietà delle controproposte in merito, generarono un tale logoramento dello spirito di Cavour da accelerarne la morte ne l861.
Il Generale Alfonso La Marmora.
Sappiamo che alla fine del 1854 la decisione di intervenire a Sebastopoli in Crimea dalla parte occidentale, generò a Parigi, in sede di Conferenza di Pace (1856), una storica partecipazione ai nuovi equilibri europei che preludevano all’Unità d’Italia, anche se il lungo assedio della famosa fortezza citata ebbe dai 30.000 ai 40.000 morti non solo per la guerra, ma anche per l’epidemia di colera lungo le trincee (la sequenza guerra, epidemia e inflazione con recessione economica fra il 1873 e il 1894, certificata dagli storici, dovrebbe oggi far riflettere politici e opinione pubblica sulla situazione attuale dopo il Covid e la guerra Russo-Ucraina, stranamente operativa proprio in quelle stesse aree territoriali). Il piccolo Regno di Sardegna comparve improvvisamente nel grande consesso delle più vecchie Nazioni Europee pretendendo ascolto e pari dignità. Fu un successo politico e Cavour ottenne il favore dalle Potenze vincitrici. Ma quale fu la realtà dei combattenti?
Bersaglieri italiani. Battaglia della Cernaia.
2. Le memorie di Crimea del tenente generale Alfredo Ricci.
Alfredo Ricci, volontario del 1848-1849, tornando dal disastro di Novara con altri commilitoni, rifletteva nella sua presentazione, sul dovere di servire la Patria e li spronava alla rivincita. Ecco, allora, cosa fu la spedizione in Crimea, la rivincita e il nuovo inizio. Una fede che poi si ripeterà nello stesso decennio con la Seconda Guerra di Indipendenza (1859 e con le altre guerre di annessione degli altri Stati italiani nel1860). Alfredo Ricci cominciò con gli altri piemontesi il viaggio dalla Savoia alla Crimea, la penisola del Mar Nero oggi di nuovo presente nei mezzi di comunicazione. Maggio, 1855, 15.000 uomini destinati alle trincee sotto Sebastopoli. Torino, Cavour e Lamarmora, la raccolta dei mezzi e degli uomini. In Savoia si ammassarono truppe. A Modane, a Marsiglia e poi ad Alessandria, Ricci ricorderà i particolari di contabilità per i rifornimenti, lenti ma apparentemente sufficienti. La parata di fronte al Re Vittorio. La presenza del generale Lamarmora davanti ai soldati, come un buon padre di famiglia. Poi l’imbarco a Genova ultimo porto italiano. Il tirreno, Messina non ancora sabauda e lo Stretto. Una domanda serpeggiava fra tutti i soldati: perché andare in quel remoto paese d’oriente? Perché non sbarchiamo e combattiamo invece in Sicilia? Quindi il Bosforo, Costantinopoli e la lontana Sebastopoli. Sulla costa il porto di Balaclava, circondato dagli attendamenti franco-inglesi e le trincee attorno alla fortezza. Stanchezza del viaggio, dubbi e timori. Era il 18 maggio e la prima cosa che Ricci trascrisse fu il cannoneggiamento continuo dalla e verso la fortezza, ma anche il puzzo dei cadaveri che risaliva dalle trincee. I morti che giacevano decimati dal fuoco, dal tifo e dal colera. Lo spettacolo esterno viene descritto con vivacità: boschi, monti e mare. Ma la narrazione prosegue fra le tante difficoltà tecniche e per la riservatezza degli abitanti, una popolazione tartara che la colonizzazione russa aveva oppresso da 200 anni. I coloni tartari e quelli russi ci guardavano come nuovi oppressori; poi ci vennero vicino e il ghiaccio si ruppe. La fame era evidente e lo scenario di Ricci somiglia molto alle vicende dalla Seconda Guerra Mondiale degli Italiani in Grecia e in Russia. E la notte non si dormiva, perché il fuoco russo era continuo. In ogni angolo del campo, una domanda li assillava: quando finirà l’assedio? Correva alla mente del Ricci il paragone classico con l’assedio di Troia…. con quale cavallo si potrà entrare? Ma la certezza come sembrava essere quella di fare bene e di dimostrare che anche gli Italiani erano buoni a fare qualche cosa. Dopo qualche settimana però arrivò al reggimento l’ordine di smantellare il campo e di arrivare a Kamara di fronte all’esercito russo. Qui, Alfredo si dilunga a spiegare il sistema di difesa russo e il corpo di spedizione italiano che si è posto a nord delle linee occidentali sul fiume Cernaia. Poi il nostro cronista si dilunga sul progressivo aumento di casi di dianeropia bellica, cioè una malattia che colpisce la vista con l’abbassarsi della luce solare. Ricci rimase quindi molto turbato nel vedere i poveri soldati camminare come fantasmi al calar del sole. Di più: la strada era disseminata di erbacce che disturbavano la marcia. E novelli Sandokan, gli ufficiali le disboscavano a colpi di spada. E poi il colera che avanzava malgrado l’adozione delle comuni norme di igiene. Ricognizioni e scaramucce si susseguivano; animaletti e zanzare li perseguitavano e l’alimentazione scarseggiava. Gli ammalati aumentavano perché la sete era tremenda e bere acqua sospetta era l’anticamera del colera. Ricci calcolò così che su 500 uomini del battaglione al suo comando – dalla metà di giugno alla metà da agosto, dopo la battaglia della Cernaia (16.8.1855) – il più della metà ne morì. Il morale della truppe però manifestava un forte livello di preoccupazione, ma cominciò però a risalire anche per quella vittoria. Tuttavia i toni del Ricci sembrano ora giunti ad una fase dissimulazione che appunto maschera non poche perplessità sulla gestione della spedizione, soprattutto perché una eventuale relazione su quella spedizione di tenore negativo poteva ripercuotersi sulla spedizione italiana del 1896, anno di pubblicazione del suo diario, in quella Abissinia dove ad Adua si avrà la nota sconfitta. Giunsero dunque al campo di Kamara (luglio del 1855) e al capitolo quarto poi del Memoriale troviamo una poderosa filippica contro l’inazione in attesa della battaglia, una stasi che diminuiva il coraggio e aumentava la paura di morire. Interessante allora ci paiono le considerazioni dei soldati che ammiravano il loro Capo e il senso del dovere che costoro mostrarono in quei tristi momenti. Perfino Alfredo non nascondeva l’ansia, peraltro causata dalla carenze dell’ospedale da campo a Balaclava, del tutto carente di mezzi per un incendio che aveva distrutto durante il lungo viaggio i rifornimenti sanitari già nei pressi di Portofino. Un aneddoto terribile – fra i tanti spesso eroici o comici lì rievocati – riportava la fuga dei soldati ammalati di colera negli anfratti delle campagne e delle colline, pur di non restare senza cure in ospedale. Decotto di riso e bottiglie di rum erano le uniche medicine sicure. Caldo mattutino e freddo notturno facevano da cornice. Poi segue una nota di propaganda: la presenza di Lamarmora in ogni tenda del campo accanto ai malati; nonché le messe per i morti e per i tanti militari feriti, una singolare azione psicologica che alleviava la pena. Riunioni col generale aperte a tutti, specialmente sotto il sole mediterraneo dalla spianata di Jalta, spesso anche in piena notte, dove risuonava la fanfara dei Bersaglieri che rincuorava i soldati ancora in forza. E lo stesso Alfonso piangeva il fratello Alessandro, morto lì di dissenteria reduce da una ricognizione la sera del 7 di giugno. Annota Ricci che il 4 giugno gli ammalati di colera erano 550 ed i morti ben 226. Infine, il soliloquio del Ricci alla fine di quel nero capitolo non mancava di richiedere a chi avrebbe letto quelle parole un semplice segnale di sostegno alla stampa, cui rimproverava la continua conflittualità fra chi era ancora contrario a quella spedizione e chi ne era convinto al contrario. Il 17 agosto Ricci sicuramente approvava che il telegrafo aveva dato notizia in Patria della vittoria sul fiume Cernaia. E il 15 si era comunque festeggiato la nascita di Napoleone III. Si dormiva stanchi e un po’ brilli, quando i Russi attaccarono i Francesi. Ma i Piemontesi resistettero e li contrattaccarono ai fianchi respingendoli. Ora l’episodio tanto gustoso quanto forse di propaganda: l’assalto a cavallo di una bella ragazza, Miss Campbell, figlia del comandante degli Scozzesi, che abbandonò il campo inglese e si accodò ai francesi e del pari spronò gli artiglieri ad accelerare il tiro. Purtroppo, l’ardire dell’amazzone fu ricompensato dall’essere colpita dai fucilieri finlandesi, malgrado Lamarmora, forse colpito da un dardo d’amore, avesse tentato di strapparla alle granate nemiche. Una scena romantica che fa il paio con l’altra scena eroica di fine battaglia, quando perfino i feriti a mala pena imbracciarono i fucili per dar man forte ai compagni. La vittoria costò circa 1700 morti alle forze alleate, ma sembra che le forze russe contassero 4.000 morti. Era il duro inverno del 1856 trascorso, dentro inospitali trincee che faranno da precedente per la guerra del ’15-’18. E la neve colpì i combattenti già nelle tende, mentre le casematte non riuscivano a riscaldarli. Molti si rifugiarono nei villaggi tartari vicini e peraltro a febbraio la loro definitiva sistemazione riuscì ad impedire ulteriori lutti, visto che ormai era chiaro che i morti per malattia e per stenti superava i morti in battaglia (ma Ricci copre queste mancanze citando poesie che i soldati componevano durante la lunga attesa, anticipando l’ambiente di guerra che sarà ripreso dal de Amicis nel Cuore). Musica, filosofia e preghiera si alternavano in quelle giornate, infiorettate da quadretti ad olio che davano l’impressione che si vivesse in un albergo di montagna in vacanza…. Poi nell’aprile del 1856 la notizia della fine della guerra, il ritorno a casa dopo un armistizio coi russi da Balaclava, lo sbarco a Genova (11.5.1956). Alla fine della cronaca – alquanto intrisa di propaganda ma non priva di evidenti critiche alla gestione di una spedizione di mero alleggerimento delle forze franco e inglese – due domande essenziali: quali vantaggi erano pervenuti al Piemonte? I sacrifici sostenuti meritavano qualche concreta apertura delle Nazioni occidentali a favore del progetto di Unità d’Italia? Ricci così rispondeva in una conferenza che tenne ad Alessandria sua città d’origine nel 1861: Se dunque la spedizione di Crimea portò seco dei sacrifici, non li dimentichiamo, malgrado gli onori, li ricorderemo sempre, ma non rimpiangiamoli mai, perché dobbiamo in buona parte a quei sacrifici se possiamo dire oggi che abbiamo una Patria ….. Conclusione degna per chi crede nella libertà e nel sacrificio di chi muore per essa ieri, oggi e domani.
Bibliografia:
1. Le memorie di Alfredo Ricci furono stampate nel 1896 da Roux Frassati e C. Editori di Torino nel 1896 e si trovano per esteso sul sito archive.org.
2. Su Cavour e l’impresa di Crimea, vd. DENISE MACK SMITH, Cavour, ed. speciale del Il giornale, Milano, 1985 e LUCIO VILLARI, Bella e perduta: L’Italia del Risorgimento, ed. Laterza, 2009.
3. Sulla guerra di Crimea, cfr. Balaclava. La carica dei 600, di CECIL WOOODHAM SMITH, ed. del Il giornale, 2002.
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