Già Giulio Cesare nella sua opera De Bello Gallico fa alcuni riferimenti all’ Equus Magnus, un tipo di grande cavallo nero. Questi nel Medioevo furono ampiamente utilizzati come destrieri da battaglia.
La simbologia mitologica che avvolge e permea la storia del cavallo presenta un’ambivalenza di fondo che vede questo animale da un lato come un essere nobile ed intelligente e carico di sensualità, dall’altro come un concentrato di forza istintuale capace di incutere angoscia e turbamenti. Fino dall’antichità il cavallo fu considerato venerabile e sacro: Poseidone, Demetra e Artemide erano detti hippios, ed il nome di altre divinità era preceduto dal prefisso Ippo. Nell’iconografia religiosa ebraico-cristiana, il quadrupede divenne, tuttavia, annunciatore di disgrazia, come nell’Apocalisse, dove il cavallo bianco sta ad indicare il nemico, quello fulvo la guerra, il nero la carestia e il verde la peste. Nel II° secondo avanti Cristo, in Medio Oriente, diversi popoli iniziarono ad utilizzare il cavallo appaiato al carro leggero, falcato (cioè dotato di ruote munite di lunghe lame), sul quale trovavano posto l’auriga e un milite armato solitamente di lancia e/o arco. Solitamente, questi carri venivano adoperati in battaglia – soprattutto in spazi molto ampi – in formazioni serrate e scagliati contro i concentramenti di truppe nemiche (i persiani utilizzarono diffusamente il carro falcato prima contro i macedoni e i greci e, successivamente, contro le legioni romane). Nel XIX° secolo a.C., in Egitto, il popolo semita Hiksos travolse con questi mezzi le pur organizzate forze del faraone che, da quella data, iniziarono a perfezionare e selezionare l’allevamento dei cavalli da carro. Fu dunque sull’onda amara dell’invasione Hiksos che gli egiziani incominciarono anch’essi ad utilizzare ampiamente i reparti carrati e a farne bella mostra, anche per incutere rispetto negli avversari. Secondo quanto riporta Manetone (sacerdote egiziano del culto Serapide, del III secolo a. C.), ogni anno, nella città fortificata di Avaris, gli egiziani erano soliti allestire grandiose parate militari a scopo addestrativo e propagandistico. Fu grazie al cavallo e ai carri che le armate egiziane dilagheranno in Medio Oriente, scontrandosi con la potenza ittita, e raggiungendo, alla guida del faraone Thutmosi III (1500 a.C.), l’apice della loro potenza militare. Fino dagli albori della storia, il cavallo è servito dunque a scopi bellici. Fu però necessario attendere l’invenzione della staffa (finimento inventato in India nel II secolo d.C. ed introdotto in Europa dagli Avari nell’Alto Medioevo) che consentì al cavaliere una posizione più stabile, per ottenere il massimo risultato in combattimento. La cavalleria, impiegata come formazione compatta e come unità tattica, fece invece la sua comparsa nel corso del primo millennio a. C.. Gli Assiri, grande popolo combattente, introdussero il cavallo nell’esercito regolare non come forza d’urto, ma per inseguire il nemico in rotta o per effettuare operazioni di aggiramento di masse armate avversarie. L’utilizzo, sempre da parte assira, degli arcieri a cavallo non rappresentò tuttavia una manifestazione della loro specifica scienza militare (più avanti, saranno i Parti – nemici feroci di Roma – a perfezionare questo corpo, assieme a quello della cavalleria pesante, corazzata e dotata di spade e lance). La sistemazione tattica – attuata dagli assiri – della cavalleria ai lati delle formazioni dei carri da combattimento divenne con il tempo una necessità, in quanto ci si accorse che tale soluzione era in grado di garantire una maggiore forza e mobilità alle ali degli eserciti impegnati contro le mobilissime armate dei popoli barbari provenienti dalla Mesopotamia settentrionale e dalla Persia. Tutti gli Stati dell’antichità che tentarono di conquistare le aree mediorientali, a cominciare dalla Persia degli Achemenidi, possedevano una cavalleria ‘corazzata’, come pure essa venne mutuata e poi utilizzata dallo stesso ‘invasore’ Alessandro il Grande in Battriana e nella Chorezme. Sempre in epoca antica, accanto ai carri e alla cavalleria ‘corazzata’ si diffuse la cavalleria ‘leggera’ dotata di archi. Questo tipo di formazione, introdotta sempre dagli assiri, era caratteristica dei popoli nomadi. La cavalleria ‘leggera’ (spesso composta da elementi appartenenti a popolazioni nomadi nord e centro asiatiche) venne poi utilizzata da tutti gli eserciti orientali, a partire da quello degli Achemenidi (VI-IV secolo a.C.). In epoca greca, l’arte della guerra a cavallo venne notevolmente approfondita e perfezionata, anche attraverso studi specifici. “Sull’ equitazione”, scritto nel360 a.C. da Senofonte è probabilmente uno dei primi trattati sull’equitazione comparsi in Occidente. Egli descrive l’equipaggiamento sia del cavallo che del cavaliere che si avviano in battaglia: l’armatura del cavallo comprende una protezione per la fronte, un pettorale e protezioni per le cosce, viene anche raccomandato di proteggere il ventre con un panno da sella, panno, da mettere sui reni sia per scaldarlo sia per rassicurarlo.
In epoca romana, il cavallo perse, tuttavia, molto del suo ruolo in battaglia, in quanto i capitolini, come del resto i greci e i macedoni, preferirono elaborare e adottare tecniche di guerra incentrate sull’ ordine chiuso e compatto della fanteria dotata di lunghe lance o di gladio e scudo (si veda la falange tebana, quella di Alessandro Magno o lo schieramento ‘corazzato’ delle coorti latine). Secondo i primi ordinamenti risalenti al monarca Servio Tullio, la componente a cavallo era esclusivamente composta da cittadini provenienti dai ceti più elevati, gli unici a potersi permettere il mantenimento degli animali. Successivamente, venne costituito l’ordine sociale degli “equites” (formato da nobili e proprietari terrieri) che andò poi a formare il ceto dirigente capitolino. In epoca imperiale, Roma – spesso impegnata contro i forti esercito barbarici germanici, traci e persiani – dovette giocoforza incrementare i reparti a cavallo, che nelle legioni repubblicane rappresentavano la porzione minore rispetto alla componente appiedata, anche se, in epoca imperiale e tardo imperiale la componente di cavalleria delle legioni venne notevolmente irrobustita per controbattere la cavalleria di talune popolazioni barbare, come ad esempio gli Unni. Questi ultimi, provenienti dalle steppe slave, disponevano, infatti, di una cavalleria eccezionalmente forte e numerosa, composta soprattutto da reparti ‘leggeri’ dotati archi corti. Tatticamente parlando, la cavalleria unna veniva adoperata per effettuare fulminei attacchi a sorpresa. Gli unni caricavano e poi, con una finta mossa, ripiegavano improvvisamente, inducendo la fanteria nemica a rompere le formazioni e ad avanzare. A quel punto, gli unni ricaricavano l’avversario, annientandolo. Nell’ Alto Medioevo, i Visigoti utilizzarono anch’essi la cavalleria ‘leggera’, armata di arco, ma gli Alani e i Sarmati preferirono affidarsi a quella ‘corazzata’ e dotata di lancia. Per quanto concerne un’altra famosa cavalleria asiatica leggera (e dotata di piccoli destrieri), cioè quella mongola, essa – un po’ al pari di quella unna – vantava una straordinaria mobilità e velocità. Chi, a partire dal XIV secolo d.C., fece largo uso di cavalleria ‘pesante’ furono invece gli Ottomani, che poi la affiancarono in appoggio, sulle ali, ai loro reparti di fanteria, come quello, scelto, dei ‘giannizzeri’: corpo creato dal sultano Orkhân. Sempre in epoca medioevale, nell’Europa cristiana, conobbe una nuova epoca di splendore. Il cavaliere medioevale non era solo un combattente. Egli doveva sottostare a tutta una serie di obblighi morali e religiosi assai onerosi. Combattere a cavallo con il corredo dell’armatura, richiedeva poi una forza fisica e un’abilità fuori dal comune. L’addestramento aveva inizio in giovanissima età sotto l’occhio attento di un cavaliere anziano ed esperto che fungeva da mentore. Da paggio egli diventava scudiero (cominciando l’addestramento militare vero e proprio al seguito del suo mentore) per poi trasformarsi in cavaliere attraverso una vera e propria cerimonia con tanto di giuramento dinnanzi a Dio. Nel XIV secolo, con l’avvento delle armi da fuoco l’efficacia della cavalleria ‘pesante’ iniziò, però, a diminuire. Nel corso della Guerra dei Cento Anni tra Inghilterra e Francia, quest’ultima Potenza, il cui esercito disponeva di una notevole cavalleria su base ‘censitaria’ (cioè aristocratica), subì’ pesanti sconfitte ad opera della fanteria plebea inglese, affiancata da forti contingenti di arcieri (il 26 agosto 1346, aCrècy, l’arco inglese in olmo fece strage di cavalieri francesi). Il tramonto definitivo della cavalleria pesante giunse però il 24 febbraio 1525, con la battaglia di Pavia, scontro in cui i cavalieri francesi vennero decimati dal fuoco degli archibugieri spagnoli, dotati di armi in grado di forare le pesanti armature gigliate. Da Pavia in poi, la cavalleria iniziò ad essere utilizzata con criteri diversi e più consoni alla nuova arte della guerra dell’Evo Moderno. Essa, divenuta ‘leggera’, sopravvisse – nonostante l’avvento di artiglierie sempre più rapide ed efficienti e della mitragliatrice – fino a tutto il XIX secolo e parte del XX, come arma di movimento e non più come mezzo di sfondamento, ma in missioni di ricognizione, di copertura e alleggerimento della pressione avversaria; come strumento atto a sedare rivolte, e nel corso delle missioni coloniali. Durante la Prima Guerra Mondiale, dopo aver ricevuto un breve periodo di addestramento specifico, diversi reparti di cavalleria (anche italiani) vennero impiegati in trincea, insieme o in sostituzione della fanteria. I cavalleggeri lasciarono dunque i loro destrieri, trasferendosi nella neonata arma aeronautica. Tra questi ricordiamo Francesco Baracca, il ‘cavaliere alato’ (34 vittorie) e i pluridecorati Folco Ruffo di Calabria, Gabriele D’annunzio e Camillo De Carlo. “Soit à pied soit à Cheval, mon honneur est sans égal“. Detto questo, tra il 1914 e il 1918, la cavalleria venne egualmente impiegata da tutti gli eserciti, soprattutto quello zarista. L’8 agosto del 1916, furono i reparti a cavallo italiani a conquistare Gorizia e ad incalzare le forze austroungariche in rotta. E nell’inverno del 1917, fu ancora la cavalleria a coprire la ritirata sul Piave, dopo la sconfitta di Caporetto. Nel primo dopoguerra, nonostante il processo di meccanizzazione in atto in tutti gli eserciti, gli Stati Uniti ritennero opportuno affidarsi ancora ai destrieri, istituendo, per compiti speciali, la Prima Divisione di Cavalleria. Nata ufficialmente nel 1921, questa unità venne, infatti, addestrata e impiegata in missioni di ricognizione. Ma i tempi ormai si evolvevano, e il cavallo, schiacciato dalla potenza delle nuove armi moderne (artiglierie a tiro rapido, mitragliatrici, mezzi blindati e corazzati, aerei) incominciò ad essere utilizzato sempre meno, anche se, ancora nel corso della Seconda Guerra Mondiale, i reparti montati ebbero modo di scrivere pagine di gloria. Ricordiamo le disperate cariche condotte, nel settembre del 1939, dalla cavalleria polacca contro le forze tedesche, o quelle del Reggimento Savoia Cavalleria in Russia, a Isbuscenzkij, il 24 agosto 1942,. Secondo alcuni storici, questa fu in assoluto l’ultima importante azione condotta da un reparto montato regolare nella storia militare, anche se, il 17 ottobre dello stesso anno, a Poloj, il reggimento Cavalleggeri di Alessandria caricò un grosso nucleo di partigiani comunisti titini.
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