La geopolitica non è scienza esatta né supposta “arte magica” che guida la condotta delle potenze come alcuni suoi teorici o critici ritengono. Per quanto si possa ritenere difficile supporre l’esistenza di una precisa “grammatica strategica”, è chiaro che la relazione tra dinamiche geografiche e costruzioni politiche è diretta e strategica. La geopolitica in un certo senso nasce con la stessa storia delle istituzioni politiche, di fronte alla necessità per sovrani e regni di mediare tra le ambizioni di grandezza, le necessità di provvedere alla sicurezza collettiva dei popoli e i limiti che, soprattutto nell’antichità imponevano le grandi strutture fisico-naturali.
Una potenza in particolar modo seppe veramente praticare vere e proprie dottrine geopolitiche in passato: Roma. Nel corso della sua ascesa da città isolata dell’Italia centrale a impero universale Roma seppe espandersi operando strategie in grado di conciliare la visione espansiva, missionaria e ideale con un pensiero strategico che non si esplicitava esclusivamente nella metodicità delle armate nel contesto delle campagne di conquista di nuovi territori e di ampliamento delle frontiere imperiali. Ma aveva il suo punto apicale nella chiara e precisa consapevolezza della valenza politici di temi come la costruzione di alleanze, la creazione di regni satelliti, la determinazione dei confini, lo schieramento delle legioni. A cui si aggiungeva una precisa capacità di cooptare gradualmente i popoli conquistati nel disegno imperiale dell’Urbe.
Yann Le Bohec, storico francese specializzato in questioni militari, ha pubblicato sul tema il saggio Geopolitica dell’Impero romano per sottolineare come la visione dell’Impero seppe seguire precisi canoni geopolitici e come la geopolitica stessa plasmò, a più riprese, i destini dell’Urbe mano a mano che Roma raggiungeva quelli che erano ritenuti essere i confini naturali del suo impero. Al suo apogeo Roma aveva confini pienamente naturali in larga parte dei suoi territori. Il Reno e il Danubio segnavano il limes orientale in Europa; in Britannia il Vallo di Adriano segnava la volontà di Roma di non interessarsi al dominio delle impervie vette dell’attuale Scozia. I deserti dell’Africa e dell’Arabia segnavano i confini oltre il Mediterraneo, spazio che al suo massimo livello di sviluppo Roma aveva trasformato in un lago interno. Dividendo la competenza alla sicurezza interna a una serie di flotte divise in maniera simile a quanto fatto oggigiorno dalla United States Navy con gli oceani del pianeta. Le ragioni sono le stesse: il dominio dei mari garantisce libertà di commercio, sicurezza di contatto tra i popoli, una precisa simbologia del dominio.
Laddove i confini si facevano più sfumati, nell’attuale Medio Oriente, arrivarono i principali punti d’attrito per Roma contro i Parti e i Sasanidi dominatori della Persia. Le frontiere mobili e la capacità del nemico di pensare la difesa dei propri territori in profondità con analoghi canoni geostrategici si unirono alle contese per le zone di confine come l’Armenia in una vera e propria rivalità degna di quanto oggigiorno tipico dei conflitti tra potenze nel quadro delle proxy wars.
Le Bohec aiuta a comprendere, inoltre, quanto questi fattori seppero condizionare profondamente Roma e i suoi destini nel momento in cui la concentrazione del potere militare, principale determinante dell’autorità imperiale, si muoveva simmetricamente alla concentrazione delle minacce nelle varie parti dell’impero. Le legioni del Danubio intente a comandare le operazioni contro i popoli nomadi dell’Europa orientale erano spesso a disposizione come massa di manovra da utilizzare nei vari conflitti civili che divampavano entro i confini imperiali e ebbero la possibilità di elevare alla massima autorità dell’Impero figure come Settimio Severo (193), Massimino il Trace (235), Decio (249). Invece Aureliano (270) che sconfisse le usurpazioni galliche e la sedizione della città di Palmira e Diocleziano (284) furono elevati al trono dai comitatenses, la massa di truppe di manovra a disposizione come riserva strategica i cui quartieri generali divennero vere e proprie capitali de facto. Diocleziano, in particolare, ideò il sistema della tetrarchia come prova generale di una spartizione dell’impero funzionale a rendere più strutturata e operativa la sua strategia di difesa.
Geografia fu comunque sinonimo di destino per l’Impero. Le debolezze strutturali, politiche e sociali dell’Urbe, nel lungo viale del tramonto durato dall’inizio del III alla fine del IV secolo, e la somma di guerre civili che lacerarono l’Impero per decenni non minarono la consistenza strutturale del potere di Roma fino a che l’impero fu in grado di mantenere saldo il controllo sulle sue frontiere naturali e a tutelare il cuore pulsante del potere nei pressi della Città Eterna, a mantenere i suoi retroterra strategici (dalla Gallia all’Egitto). Ma quando, dopo la rotta di Adrianopoli contro i Goti nel 378, Roma fu costretta a consentire l’esistenza di un potere allogeno entro le frontiere naturali dell’impero il crollo fu una logica conseguenza. Roma subì in tal senso le conseguenze della sovra estensione perdendo il punto di riferimento delle sue priorità strategiche e subendo una somma crescente di attacchi da diverse direzioni mano a mano che le frontiere si facevano più porose. La perdita dell’universalità della missione imperiale e lo sfaldamento del limes portò, in un secolo, alla dissoluzione della parte occidentale dell’Impero. Ma non alla fine della geopolitica imperiale, portata avanti per un millennio in quel mondo bizantino i cui tutelari non cessarono di definirsi Romanoi fino alla presa di Costantinopoli ad opera degli Ottomani nel 1453. La padronanza di una strategia realista sul versante geopolitico garantì lunga vita e prosperità alla prima e alla seconda Roma. Che non a caso sono i punti di riferimento per ogni dottrina politica che miri a fare propria la padronanza delle strategie di dominio dello spazio e, di conseguenza, del tempo.
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