La rivolta di Bar Kokheba, l’ultimo episodio della ribellione ebraica anti romana. Storia di un eroe. Di Tito Spina.

Simon Bar Kokheba raffigurato in un bassorilievo sul palazzo della Knesset (Gerusalemme).

Il quadro storico è la terza guerra giudaica, che si svolse dal 132 al 135 in quella parte di Israele che non era stata coinvolta nelle sommosse contro Traiano (53-117) e dove però i movimenti culturali a sfondo religioso che avevano fomentato la precedente rivolta, non si erano spenti. Nel frattempo, la popolazione era cresciuta, e vi era un notevole numero di proseliti pronti a impugnare le armi. 

Venne cercato ovviamente un pretesto, da accrescere fino a motivo di sommossa, e fu trovato nel divieto di circoncisione emesso con un decreto dell’imperatore Adriano (76-138), strumentalizzato a sfida ai costumi e alle tradizioni locali non solo giudaiche, perché considerato di natura troppo barbara rispetto ai canoni dell’educazione romana, che si intrometteva di prepotenza a volere interrompere il rapporto fra Dio e il popolo eletto. Da questo, le autorità locali furono abili a pilotare le proteste contro il progetto di edificare nuovi edifici a Gerusalemme, alcuni per il complesso del Tempio di Giove, vero e proprio insulto alla Città Santa per la religione ebraica. Fu organizzata una vasta campagna contro Adriano, presentato con i tratti dei padroni pre-messianici, una propaganda tale da determinare l’ascesa di un personaggio che la storia ha quasi dimenticato, e che invece fu uno di quelli che raccolse l’eredità nazionalista di molte tribù della regione, fra cui anche quella dell’attività di un combattente per la libertà chiamato Gesù di Nazareth. 

Uno dei leader della sommossa fu quindi Simon Bar Kokheba, che assunse la direzione della rivolta dal primo momento, segno che era stata predisposta con estrema cura, come confermato anche da altri ritrovamenti di testimonianze sull’attività contro l’occupazione romana. I resoconti parlano di un piano preparato per la rapida occupazione di presidi e posizioni romane, alcune delle quali erano fortificate con mura, camminamenti e palizzate. 

I ribelli esercitarono attività di guerriglia, evitando scontri in campo aperto con le forze nemiche, maggiori di numero, infliggendo però gravi danni. Si ritiene che, in questa prima fase, nella quale la preparazione dei ribelli, la sorpresa dei romani e le scarse capacità del governatore Rufo favorirono il successo dei Giudei, gli insorti abbiano anche cercato di riconquistare Gerusalemme. Il governatore Rufo mantenne abbastanza a lungo il comando, ma senza risultati di rilievo, finché l’imperatore Adriano lo sostituì con Giulio Severo, il quale affrontò i ribelli tagliando loro collegamenti, rifornimenti, e isolando le varie unità per affrontarle singolarmente. 

L’ultima decisiva battaglia si svolse nel 135 vicino a Gerusalemme, dove Simon Bar Kokheba fu ucciso, in mezzo a una strage di enormi dimensioni, secondo Cassio Dione, con quasi 600mila morti, compresa la caccia all’uomo che i Romani scatenarono contro i rabbini in territorio ribelle, che per altro era diviso in vari distretti, retti da capi militari e civili e tutti compresi nel deserto della Giudea. L’insurrezione non interessò le città ma solo le campagne, grazie anche al maggior controllo da parte dei romani oltre al minor coinvolgimento popolare, pur se lo scopo della rivolta era la libertà di Israele nell’attuazione delle disposizioni civili e religiose della Legge di Mosè, e nella ripresa della guerra all’idolatria che la rappresentava Roma. 

Con la sommossa, Simon Bar Kokheba venne nominato Nasi (principe), non tanto in senso messianico quanto politico, capace di guidare un popolo contro l’oppressore, ma un popolo inizialmente troppo ristretto a coloni e contadini, raccolti fra gli strati medio bassi della società, oltre a un limitato numero di Rabbi che lo appoggiavano, contro la maggioranza che non si schierò con lui, fino a definirlo “figlio della menzogna”. E contro il potere religioso, e quindi politico e pratico sulla popolazione, la rivolta nasceva sotto non buoni auspici. Lo sbaglio sul piano della “comunicazione”, da parte di Simon Bar, come si direbbe oggi, fu semmai il messaggio che lo presentava come “disceso dal cielo a illuminare il suo popolo”. Una figura che la gente del luogo aveva già visto, e che aveva già lasciato la sua impronta, per cui non vi era alcun bisogno pratico di un secondo Messia. 

Dopo la vittoria, Publio Elio Traiano Adriano trasformò Gerusalemme in una colonia, dove i coloni subentrarono ai Giudei, ai quali fu di fatto impedito di entrare in città, salvo personale autorizzazione del governatore, pena la morte. Antonino Pio (86-161) successore di Adriano, concesse di nuovo ai Giudei la libertà di circoncisione, e solo sotto Costantino (274-337) fu permesso ai Giudei di rientrare a Gerusalemme per pregare sul luogo del santuario. 

Nel 132, l’imperatore aveva completato la costruzione del tempio pagano di Afrodite sopra la Basilica del Santo Sepolcro. Vespasiano (9-79) aveva fatto radere al suolo la Spianata del Tempio che comprendeva il Golgota e il Santo Sepolcro, non distante dalla Tomba degli altri Re d’Israele. L’atto segnò per i Giudei la fine del sogno di uno stato indipendente e il rinvio definitivo dell’arrivo di un Messia liberatore. 

La Giudea romana (I° Secolo D.C.).

Una sorta di Jihad 

E’ noto quindi che Bar Kokheba fu nominato capo fin dalle prime fasi della preparazione della rivolta, svolta poi secondo un preciso piano di guerriglia, tipo di scontro poco preferito dai romani, che prediligevano armature pesanti e campo aperto. Da considerare poi la limitata esperienza del governatore Rufo, e le troppo audaci intenzioni ribelli di conquistare Gerusalemme. Quando il comando venne assegnato a Giulio Severo, si scatenò la repressione e l’aperta reazione, ma nella fase di allestimento, venne curato in particolare il proselitismo, l’indottrinamento, la volontà e la fede nel premio finale che secondo l’ebraismo era ottenibile con un costante sforzo di volontà e una profonda e assoluta dedizione. Il concetto speculare di Jihad, che in più comprende il miglioramento del credente con lo studio e la comprensione dei testi sacri, e l’attivismo per conto di Dio, o espansione dell’Islam interiore oltre i confini del modo musulmano. Nel mondo occidentale il termine Jihad è stato però interpretato erroneamente come guerra santa contro gli infedeli, e strumento per la diffusione dell’Islam. 

Come distorta e quasi dimenticata fu la figura di Simon Bar Kokheba, anche perché la sua attività non diede i frutti sperati, finendo per essere accusato anziché accusatore, e gli stessi crimini della parte giudea contro i cristiani sarebbe stata una delle vere cause che scatenarono la rivolta in tutta la Palestina. 

Non era di per sé un’eccezione, visto che i Romani non andavano per il sottile in caso di ribellione in una delle provincie dell’impero, se i “ribelli” rifiutavano una prima offerta, motivata dal fatto che comunque in una rivolta sarebbero comunque morti dei soldati o dei cittadini romani, ed era un fatto molto considerato. Inoltre, era costume romano, e di Adriano in particolare, procedere ad abbellimenti e ingrandimenti delle principali città conquistate, costruendo anfiteatri, terme, strade e templi, per imporre il quotidiano vivere in stile romano. Tali opere, nel caso degli ebrei, erano considerate un calcolato tentativo di distogliere l’uomo da Dio. 

Eroe nell’oblio 

In questo contesto, Simon Kokheba (tradotto, Simone Figlio della Stella), arrivò a pretendere il trono di Giudea, come comandante della sommossa contro i Romani nella Terza Guerra Giudaica. Rabbi Akiva (Principe di Israele) come veniva chiamato dai seguaci, avviò la sommossa nel 132, per uscirne rovinosamente sconfitto e con lo spregiativo di “Bar” Kokheba, “figlio della menzogna”. Nei diversi scontro armati, che in una fase iniziale furono vittoriosi per i ribelli, numerosi cristiani furono catturati, fra cui anche molti che si erano rifiutati di combattere, e sottoposti a dure pene, a meno che negassero e maledicessero il nome di Cristo come Messia. 

I Romani decisero di soffocare brutalmente la sommossa con un intervento massiccio. Adriano affidò la gestione della repressione a Giulio Severo, veterano della campagna di Britannia, che basò la strategia sul temporeggiamento per sfiancare il nemico, e sull’esecuzione immediata di tutti i prigionieri. 

Nel 135 i rivoltosi furono definitivamente sconfitti dalla superiorità militare romana, nella battaglia di Bethar e Gerusalemme venne trasformata in un centro ellenistico, chiamato Aelia Capitolina. Iniziò un periodo di forte repressione religiosa sotto il dominio romano di Adriano, contro ogni forma di opposizione ebraica. 

La figura di Bar Kokheba venne definita dal ritrovamento di alcune lettere ai suoi comandanti subalterni, presso i Wadi Murabba’at e Nahal Hever, e monete con l’effige dello stesso Bar Kokheba, inneggianti alla libertà e raffiguranti il Tempio distrutto. E’ evidente che una moneta del genere, indica che esisteva un territorio clandestinamente controllato, nel quale di batteva conio, probabilmente con l’obiettivo di raccogliere abbastanza risorse da ricostruire il Tempio, cosa che non avvenne. 

Come già accennato, Bar Kokheba morì nella battaglia di Bethar, e la sua morte decretò il rapido declino di quella nazione ebraica che sarebbe nata solo nel 1948. I seguaci rimasti si dispersero fra piccole comunità isolate intorno a Gerusalemme e ai samaritani di Sichem. 

Un personaggio controverso, quindi, Simon Bar Kokheba, tuttavia una delle figure storiche di provata importanza, che secondo diversi analisti è alla base del personaggio evangelico raffigurato in Barabba, e secondo altri ipotesi insostenibile per la datazione dei testi evangelici alla seconda metà del 1° secolo, quindi prima della rivolta in questione. 

Tracce di Bar Kokheba si trovano anche nella Torah, dove si legge che Rabbi Akiva aveva un asino, divorato da una beva selvatica; poi ebbe un gallo che però fuggì; in seguito ebbe un lume e delle pergamene ma il vento spense la fiamma. Nonostante questo mantenne salda la propria fede nella Provvidenza divina individuale, secondo la quale per quanto sembra che ogni cosa vada per il verso sbagliato, “c’è sempre un insegnamento benefico in ciò che accade, chiaro solo a Dio”. 

Un personaggio che ricorda il paziente Giobbe, il quale loda e prega Dio nonostante gli si siano inariditi i campi, morti gli animali e i figli sotto il crollo della casa, malattie infettive e quant’altro, di fronte alla promessa di nuove ricchezze e nuovi figli.

Un eroe “recente” quindi, questo Simon Bar Kokheba, nonostante la strenua lotta contro i Romani durante la terza e ultima guerra giudaica, che si conclude con la sconfitta degli ebrei nel 135. Su di lui ci sono in effetti pochissime notizie, e le fonti ebraiche dell’epoca quasi non lo menzionano. Eppure Simon si conquista il nome di “Figlio della Stella” in riferimento a una citazione biblica dove il Messia viene indicato come una stella, oltre ad appartenere alla stirpe di David, dalla quale sarebbe nato il Messia. 

Il nemico però, si celava fra la sua stessa gente. Le varie tribù erano divise in schieramenti, nono di rado in conflitto anche fra loro. Le scuole di pensiero, di ideologia e di interpretazione delle Scritture erano varie, e soprattutto, i responsabili, i vari Rabbi, non trovavano un accordo di maggioranza, e ancor meno di unanimità. Vi era fazione favorevole a Ben Kokheba, e quella opposta guidata dal Rabbi Yochanan Ben Tornata, reciprocamente sostenuti da altre tribù in conflitto, finché l’autorità romana, nel 131, scatenò una prima pressione, che sfociò poi nella rivolta e nella battaglia finale di Betar, o Khirbet al-Yahud in ebraico, quando i romani assediarono la cittadella, dove si erano rifugiate migliaia di persone, che le truppe romane attaccarono in forze non a caso nel giorno della ricorrenza ebraica per la distruzione del Tempio, compiendo un autentico massacro. Per ordine dell’imperatore, i corpi rimasero senza sepoltura e i reparti romani si scatenarono in una feroce repressione in tutta la Giudea, in una pulizia etnica che aveva lo scopo di cancellare politicamente il territorio, per ribattezzarlo Syria Palestina, con Gerusalemme nuova Colonia Aelia Capitolina, la distruzione di oltre mille villaggi, una cinquantina di centri maggiori e più di mezzo milione di morti. 

La disorganizzazione interna, causò la formazione di diverse bande di predoni, e altre destinate esplicitamente alle “eliminazioni politiche” mirate, cercando di evitare accuratamente la provocazione in campo aperto. 

Secondo le testimonianze a disposizione, di fatto pare che Bar Kokheba sia stato scelto al comando della sommossa quando era già capo di una di queste bande organizzate, noto per essere un combattente senza paura, con un coraggio sempre ai limiti, e con le idee ben chiare e determinate, ma alla testa di un insieme di contadini, agricoltori e pastori, che non di rado uccidevano anche i cristiani che rifiutavano di unirsi alla lotta. Non deve stupire se veniva praticata la tortura su chi rifiutava di abiurare la propria fede. 

Bibliografia 

Corrado Martone, “Il giudaismo antico”. Carocci, 2008; 

Corrado Martone. “Lettere di Bar Kokheba”. Paideia, 2012; 

Yigael Yadin, “Bar-Kokheba. Rediscovery of the legendary hero of the last Jewish revolt against Imperial Rome”, London 1971. 

Vittorio Messori. “Ipotesi su Gesù”, 1976. 

Edward Gibbon. “On the Triumphs of the Romans”, 1764; 

Giulio Firpo. “Le rivolte giudaiche “Laterza 1999; 

Piganiol André. “Le conquiste dei romani”. Il Saggiatore, 1989;  Martin Goodman. “Roma e Gerusalemme. Scontro delle civiltà antiche”, Laterza

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