Il decennale contenzioso tra armeni e azeri sembra arrivato a un punto di svolta. Nelle ultime settimane si sono intensificate le iniziative finalizzate a un definitivo accordo di pace tra Armenia e Azerbaigian. Questa accelerazione negoziale è dipesa sostanzialmente da quattro motivi: in primo luogo, la guerra (cosiddetta “dei 44 giorni” per via della sua durata) scoppiata con l’attacco azero del 27 settembre 2020 alla repubblica armena de facto dell’Artsakh (Nagorno Karabakh) si è conclusa con una netta vittoria delle forze armate dell’Azerbaigian che si sono avvalse dell’aiuto formidabile dei famosi droni turchi Bayraktar TB2 ma anche di mercenari jihadisti turcomanni provenienti dalla Siria. Dopo trent’anni di un conflitto congelato, vissuto sul reciproco posizionamento in trincea come nella Prima guerra mondiale, la difesa armena è stata spazzata via dall’azione combinata turco-azera che soprattutto dal cielo ha mietuto vittime e distruzioni anche sugli insediamenti civili armeni. Il risultato della (ennesima) campagna militare di Aliyev è stata la conquista di ampie porzioni del territorio a suo tempo ricompreso nell’oblast autonoma del Nagorno Karabakh (nkao, di epoca sovietica) e la (ri)occupazione dei distretti extra oblast che gli armeni avevano conquistato durante la prima guerra del Karabakh negli anni Novanta. In un mio recente lavoro, “Pallottole e petrolio”, ho analizzato le cause di questa sconfitta militare armena fondamentalmente basata su errori tattici, di comunicazione tra istituzione politica e Comando militare nonché sulla errata convinzione che l’aggressiva politica armenofoba dell’Azerbaigian non sarebbe mai sfociata in un nuovo attacco militare.
Il secondo motivo che sta portando a una accelerazione del processo negoziale è legato proprio alla conclusione della guerra di due anni fa. L’Armenia è uscita a pezzi dal conflitto, privata di gran parte del suo armamento difensivo distrutto dai droni turchi e israeliani (Israele è il principale fornitore di armi all’Azerbaigian anche, e non solo, in chiave anti-iraniana), umiliata da un accordo di tregua (9 novembre 2020) che ha di fatto annullato tre decenni di autodeterminazione del Nagorno Karabakh e che ha avuto conseguenze negative anche per la stessa Armenia: si pensi al fondamentale corridoio stradale verso l’Iran che è finito per qualche chilometro in territorio controllato dagli azeri e quindi di fatto è divenuto inutilizzabile costringendo le autorità ad organizzare un difficile percorso alternativo tra le montagne del Syunik. O anche alla perdita dell’importante miniera d’oro di Sotk che sorgeva proprio sul confine tra i due Paesi ma con l’accesso rivolto alla parte orientale: in un colpo solo Yerevan ha perso un migliaio di posti di lavoro e il principale contribuente fiscale. La leadership del premier armeno Pashinyan è apparsa indebolita e sono stati evidenti gli errori sia prima che durante e dopo la guerra. Tuttavia, nonostante una parte dell’opinione pubblica lo appelli come “traditore” per via della firma alla tregua, il primo ministro ha rivinto le elezioni politiche del 2021 anche per l’incapacità dell’opposizione politica di presentare un nome nuovo e un candidato unitario. Il che denota anche una certa rassegnazione della popolazione dell’Armenia, fiaccata da due anni di Covid e da una guerra sanguinosa che ha mietuto migliaia di giovani vittime. Questa debolezza di Yerevan si manifesta nell’incapacità di riportare a casa le decine di prigionieri di guerra armeni che ancora sono detenuti (in violazione delle convenzioni internazionali) nelle prigioni di Baku e nella quasi passiva accettazione di occupazioni del territorio da parte delle forze armate dell’Azerbaigian che, a più riprese, hanno invaso il Paese confinante impossessandosi di una cinquantina di chilometri quadrati del territorio nemico; si badi bene che stiamo parlando non della regione contesa del Nagorno Karabakh ma del territorio sovrano di una nazione membro delle Nazioni unite e del Consiglio d’Europa. Aliyev ha dichiarato che non si tratta di invasione perché l’Armenia non aveva predisposto alcuna linea difensiva lungo il confine (dato che fino alla guerra del 2020 dall’altra parte c’erano gli armeni dell’Artsakh) e quindi si è sentito autorizzato a riprendersi le “terre storiche azerbaigiane”. Su cosa intenda per tali non è mai stato chiaro dal momento che a più riprese ha fatto riferimento a tutto il Zangezur (l’armeno Syunik, ovvero la parte meridionale dell’Armenia), alle sponde orientali del lago Sevan e addirittura alla stessa capitale Yerevan. Considerato che la repubblica dell’Azerbaigian è nata nel 1918 tali proclami appaiono solo finalizzati a forzare la parte armena a chiudere una pace che – secondo quanto trapelato informalmente – appare più una resa incondizionata che un vero e proprio accordo negoziale.
Sui confini va detto che è stata attivata su input della Russia una commissione ad hoc che partendo dalle mappe di epoca sovietica dovrebbe stabilire esattamente la linea di separazione tra Armenia e Azerbaigian. È innegabile che la politica di Baku sia quella della forza (l’ultimo attacco al territorio armeno a settembre 2022 ha causato 210 vittime tra soldati e civili armeni e la conquista di ulteriori posizioni strategiche), della minaccia (l’invasione del Syunik per riunire l’Azerbaigian all’exclave del Nakhijevan e quindi alla Turchia attuando di fatto il programma dei genocidiari ‘Giovani Turchi’ dell’impero ottomano) e del terrore (hanno destato scalpore i video in rete dell’esecuzione di soldati armeni prigionieri e le orribili immagini del corpo di una soldatessa armena catturata nell’attacco del settembre scorso. Difficilmente Aliyev si spingerà troppo in là, sapendo che c’è un punto di non ritorno oltre al quale non può andare; ma si fa forte dell’attuale posizione del suo Azerbaigian.
Ecco, dunque, che la terza
ragione che sta spingendo a una pace negoziata risiede proprio nel ruolo di
Baku quale importante produttore di idrocarburi. L’afflusso di gas attraverso
il tanap (Trans ANAtolian
Pipeline) e il tap (Trans Adriatic
Pipeline) fino alle italiche coste di Melendugno è in costante aumento dopo
l’inizio della guerra in Ucraina e la decisione dell’Europa di penalizzare l’approvvigionamento
dalla Russia.
Sicchè, all’improvviso, Aliyev si scopre il ‘salvatore della patria’ per gli
europei affamati di energia e, non a caso, dal febbraio 2022 si sono
intensificati i contatti fra Roma e Baku per aumentare le forniture. La stessa
Unione europea ha abbracciato la causa azera al punto che la presidente von der
Leyen nel corso di una visita nella capitale azera ha definito l’Azerbaigian “truthworth
partner” suscitando non poche polemiche sia per la politica recente di
Aliyev nel Caucaso meridionale, sia per il fatto che il Paese è agli
ultimissimi posti nelle classifiche mondiali sulla libertà di informazione e
indici di democrazia. E poco importa a Bruxelles che dalle condotte stia
transitando più gas di quel che l’Azerbaigian produce (fattore che lascerebbe
ipotizzare una triangolazione con altri…): sta di fatto che in questo momento
il peso politico di Baku è molto forte e l’Unione europea spinge per un accordo
con la parte armena
Da ultimo non possiamo non considerare il fatto che a seguito della guerra in Ucraina il ruolo politico e militare della Russia (storica garante della pax caucasica e tradizionale alleato di Yerevan) sia andato progressivamente diminuendo. Da un lato Mosca deve cercare di trattenere l’Armenia attratta dalle sirene di un Occidente sempre più vicino, dall’altro non può perdere la strategica partnership con l’Azerbaigian e, non a caso, il giorno prima della dichiarazione del riconoscimento delle repubbliche del Donbass Putin convocò a Mosca Aliyev e gli fece firmare un accordo di partenariato molto articolato e stringente. Così si spiega la strategia di apparente passiva attesa di Mosca di fronte a determinate iniziative azere sia nel territorio dell’Armenia sia nel Nagorno Karabakh dove un contingente di circa duemila uomini funge da forza di pace e garanzia della popolazione locale. Contemporaneamente, assistiamo a una sempre maggior attenzione dell’Europa e degli Stati Uniti nel quadrante sud caucasico volta a indebolire la Russia e a perseguire una politica di progressiva penetrazione.
Dunque, soffiano venti di una possibile pace a breve termine fra la parte armena e quella azera. Se così fosse non potremmo che rallegrarci per la fine di un conflitto che negli anni ha mietuto decine di migliaia di vittime attraverso tre guerre a partire dalla dissoluzione dell’Unione sovietica. Tuttavia, la questione è tutt’altro che risolta dal momento che le sorti della popolazione armena dell’Artsakh (Nagorno Karabakh) sono assolutamente incerte e appese a un filo. Il tavolo negoziale che è in corso negli ultimi mesi sembra aver rimosso la parola “Artsakh” o “Karabakh” dalle trattative. Per Aliyev il caso è chiuso, la regione contesa (assegnata da Stalin al turcofono e islamico Azerbaigian nonostante il 95% della popolazione fosse cristiana e armena) fa parte della repubblica azera e, come dichiarato più volte, gli armeni di Stepanakert (la capitale) potranno vivere nella cornice di quanto previsto dalla costituzione dell’Azerbaigian. Nessuno status speciale, nessuna autonomia, nessuna condizione di favore. Dopo trenta anni di odio istituzionale contro il nemico, la prospettiva che i 120.000 abitanti del territorio ancora sotto controllo armeno possano finire governati da una autocrazia familiare armenofoba (che ha esaltato e promosso al rango di eroi nazionale i decapitatori di armeni) è tutt’altro che favorevole.
E, non a caso, le autorità
dell’Artsakh (in primo luogo il presidente Harutyunyan e il ministro degli
Esteri Babayan) hanno ripetuto in molte dichiarazioni che è impensabile
qualsiasi futuro all’interno dell’Azerbaigian. Non è ipotizzabile che la
popolazione che anche in questi due anni di dopoguerra è stata ripetutamente
bersagliata dalle postazioni nemiche lungo la linea di contatto, che ha vissuto
per quasi un mese al gelo lo scorso inverno per via del taglio delle forniture
di gas (le condotte dall’Armenia passano in territori sotto controllo azero),
che ha dovuto constatare la distruzione di molti monumenti e chiese armene nei
territori ora occupati dall’Azerbaigian, possa vivere serenamente in un
contesto così ostile annullando, inoltre, il sacrificio di migliaia di
compatrioti caduti per la libertà e l’autodeterminazione della propria terra.
Né sarebbe giusto costringere un popolo che vive in uno Stato, ancorché de
facto, democratico a soggiacere a istituzioni tutt’altro che libere e
tolleranti.
Dunque, il problema finale rimane lo stesso: qualsiasi accordo tra Armenia e Azerbaigian non può prescindere da una soluzione per la popolazione armena del Nagorno Karabakh. Per la quale l’unica strada fattibile sembra essere quella del riconoscimento internazionale. Come accaduto ad esempio per il Kosovo o il Sudan del Sud. Qualsiasi altra opzione oltre a essere ingiusta prefigura il rischio di una pulizia etnica e di un nuovo bagno di sangue.
Ne consegue che la firma al buio di un trattato di pace potrebbe avere conseguenze molto pericolose.
Bibliografia:
E. Aliprandi, Pallottole e petrolio, Amazon libri (2021)
C. Ultimo, Il grande gioco del Caucaso, Passaggio al bosco (2020)
G. Bifolchi, Geopolitica del Caucaso russo, Sandro Teti editore (2020)
G. Zovighian, Storia del Karabagh, Nuova Phromos (2017)
S. Shahmuradian, La tragedia di Sumgait, Guerini (2013)
N. Hovhannisyan, Il problema del Karabakh, Edizioni Studio (2011)
E. Aliprandi, Le ragioni del Karabakh, Andmybook (2010)
A. Ferrari, Breve storia del Caucaso, Carocci (2007)
A. Ferrari, Il Caucaso, Edizioni Lavoro (2005)
P. Kuciukian, Il giardino di tenebra, Guerini (2003)
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