Un carattere indomabile
Figlio di un notaio, nacque nel giugno 1743 in un piccolo centro del Monferrato, e fin dal adolescente fu caratterizzato da uno spirito irrequieto, tanto che, a soli 19 anni, era già stato protagonista di avventure non abituali per un giovane della sua età. Era infatti fuggito da casa e, con falsi documenti di identità, scappò prima a Milano e da lì a Ratisbona, Praga e fino a Strasburgo per poi rientrare in Italia fra mille peripezie. Poco tempo dopo, durante un pellegrinaggio a Loreto, manifestò l’intenzione di dedicarsi alla vita religiosa ed entrò nel convento dell’Ordine Domenicano di Ravenna, nel luglio 1963. L’anno successivo fu trasferito a Ferrara, dove per i seguenti cinque anni studiò appassionatamente teologia.
L’irrequietezza di carattere, tuttavia, non era del tutto sopita e per questo le autorità domenicane decisero di destinarlo all’attività di missionario.
La sua prima tappa fu in Iraq, a Mosul, nel 1769. Fu anche questa un’avventura rocambolesca fin dall’inizio: venne derubato dai marinai della nave sulla quale viaggiava poi, una volta in Medio Oriente, sedusse una nobildonna cattolica di Aleppo, in Siria, quindi una giovane ragazza musulmana. Ebbe diversi guai con le comunità locali, fino ad essere arrestato e minacciato di essere giustiziato tramite impalamento per avere bestemmiato il Profeta Maometto. Nel mentre, imparò arabo e greco, e finalmente giunse a Mosul alla fine del 1770.
Com’è immaginabile, i rapporti che si instaurarono con i confratelli furono a dir poco tempestosi ma, per sua fortuna, entrò nelle simpatie del locale Pascià, che lo scelse come medico personale e, grazie all’influenza che aveva, ottenne l’allontanamento del responsabile della missione domenicana, costringendolo a rientrare a Roma e prendendo il suo posto.
Fedele al proprio carattere, entrò in conflitto anche con il Pascià, che lo accusò di avere causato la morte di una persona affidata alle sue cure. Fu condannato a cinquanta bastonate ai piedi ed esiliato.
Iniziò quindi a viaggiare, giungendo ad Amadiyah, in Kurdistan, dove trovò ospitalità presso un nobile del luogo, il quale intervenne presso il Pascià per favorire il suo ritorno alla missione domenicana di Mosul ma, una volta rientrato, la situazione ben presto divenne nuovamente sfavorevole, perché i confratelli lo denunciarono sia al Pascià che alla Congregazione Propaganda Fide per condotta immorale nella direzione della missione.
Giovanni Battista Boetti venne nuovamente esiliato, poiché anche il prefetto responsabile di Propaganda Fide, cardinale Giuseppe Maria Castelli (1705-1780), gli fu ostile. Uno dei più accaniti delatori fu proprio colui che lui aveva fatto espellere da Mosul, padre Lanza.
Richiamato in Italia, giunse a Firenze, dove la sua richiesta di udienza presso il cardinale Castelli fu rifiutata, e costretto a rientrare nel convento di Ferrara.
Profondamente contrario a tale disposizione, non perse tempo e decise eludere i provvedimenti dell’Ordine, riprendendo la via dell’Oriente senza autorizzazione.
La rottura con l’autorità ecclesiastica
Quella di fuggire fu una decisione che ebbe gravi conseguenze, perché la disposizione dell’Ordine Domenicano venne trasmessa a tutte le sedi estere. Dovunque Boetti si fermasse, credendo di non incorrere in provvedimenti, trovava porte chiuse poiché la Congregazione aveva fatto recapitare dovunque lettere che denunciavano la sua condotta e lo definivano colpevole di apostasia. Ad Alessandretta, Urfa, Aleppo, la sua cattiva fama lo precedeva, ma Boetti non era tipo da arrendersi facilmente. Riuscì a entrare al servizio del Pascià di Urfa come medico di corte, fino a diventare tesoriere e consigliere particolare, senza rinunciare all’attività della predicazione, dimostrando un tale impegno che il Pascià gli concesse il controllo religioso e amministrativo di tutte le chiese cristiane dei propri domini, ottenendo anche il sostegno delle autorità turche, le quali volevano ottenere la fine dei contrasti interreligiosi nell’impero ottomano.
Giovanni Battista Boetti era evidentemente dotato di una viva e fertile intelligenza che, se da una parte, gli fece guadagnare l’aperta ostilità della comunità cattolica, dall’altra gli fece ottenere il titolo di vescovo di quella giacobita. Con questa autorità, Boetti riuscì a trovare un accordo che conciliasse le due parti. Ma questa posizione politica e religiosa non durò a lungo: deposto il Pascià di Urfa dalle autorità di Costantinopoli, ne seguì le disgrazie, segno evidente che il suo prestigio si basava essenzialmente sui rapporti con il Pascià. Abbandonata Urfa, si rifugiò a Costantinopoli, dove ottenne la protezione del console francese, del vescovo latino e degli stessi frati domenicani.
Secondo diverse testimonianze dell’epoca, pare che Boetti avesse prospettato al diplomatico francese, e ad altri rappresentanti ed esponenti cattolici, un vero e proprio progetto di riconquista cristiana dei territori mediorientali, approfittando della difficile situazione interna dell’impero ottomano. Fatto sta che il console, il vescovo e i domenicani di Costantinopoli, si rivolsero alla Congregazione di Propaganda Fide perché Boetti avesse l’opportunità di essere riabilitato. Al rifiuto del cardinale Castelli, che intimava il rientro a Ferrara, Boetti decise di rimanere a Costantinopoli, dove per altro, svolgendo la professione medica, aveva conquistato una clientela discretamente facoltosa.
Nei due anni di soggiorno a Costantinopoli, oltre che ad apprendere il persiano e il turco, accumulò una discreta fortuna, derivata dalle parcelle come medico e dalle donazioni di una misteriosa nobildonna della corte del sultano. Dopo poco tempo riprese a viaggiare, e si dice che entrò in rapporti con il Pascià di trebisonda, ostile al sultano turco, o che prese contatti con emissari russi
Certo è che viaggiò a Cipro, in Georgia, Siria e Persia, sotto le mentite spoglie di un cittadino armeno, finché fu sorpreso a copiare in un suo taccuino il piano delle fortificazioni di Damasco. Accusato di essere una spia del governo russo, fu arrestato e ricondotto a Costantinopoli, dove poté tornare in libertà soltanto corrompendo i giudici.
Quest’ultima disavventura indusse Boetti a un nuovo tentativo di rientrare nelle file del suo Ordine. Tornò in Italia, chiese e ottenne una udienza dal papa Pio VI ma poi, con un brusco cambiamento, rinunciò, partì per Napoli dove si fermò cinque mesi, quindi fu a Trieste e quindi a Vienna, dovelo raggiunse una lettera del generale dei domenicani, che gli prometteva il perdono se fosse tornato in convento. Boetti accettò e, rivestito l’abito, nel 1782 fu accolto nel convento di Trino Vercellese. Pare che, durante questo soggiorno, avesse reso anche qualche importante servigio al governo di Vittorio Amedeo III (1726-1796), sulla cui natura però non si hanno notizie, ma nemmeno questa volta durò a lungo.
Acquistò grande fama di predicatore, sostenuta delle numerose esperienze di viaggio, ma d’altra non nascondeva una non indifferente dose di ortodossia, che gli causò un’accusa di eresia da parte dei confratelli. Ancora una volta depose la tonaca e riprese a viaggiare, questa volta verso ovest. Giunse a Nizza, proseguì per Alicante, raggiunse Cadice, da dove proseguì per Londra e infine San Pietroburgo, dove si trattenne per diversi mesi, scrivendo diverse lettere a Roma, per ottenere l’autorizzazione ad entrare nel clero secolare, ma inutilmente. Tentò, ugualmente senza esito, di entrare al servizio del potente principe Grogij Alexandoviç Potemkin (1739-1791) quindi riprese a viaggiare. Dopo essere stato a Mosca, giunse in Kazakistan, Persia, Georgia, Crimea, fu nuovamente a Costantinopoli, poi in Polonia e, nel 1784, ancora a Costantinopoli, da dove avrebbe dato inizio alla sua più esaltante e clamorosa avventura.
Mansur, il nuovo profeta
Le testimonianze su questo periodo sono purtroppo scarse. Si sa che viaggiò con una carovana di un ricco mercante persiano fino a Erzurum e Amadiyah, dove soggiornò per alcuni mesi, si dice in assoluta meditazione e isolamento, poi riprese a predicare i suoi principi, in un misto di Cristianesimo, Islam, deismo e concetti permeati di illuminismo utopico, scagliandosi contro la corruzione e l’ipocrisia dell’alto clero, di cui denunciava l’abbandono della vera fede in un Dio unico e indivisibile, nella divina trinità, nelle forme evidenti della preghiera, secondo il concetto del timore di Dio che può concedere eterna beatitudine o dannazione, inserendo nei concetti esposti anche la celebrazione del battesimo e della circoncisione. parimenti, esaltava la natura umana di Cristo e il principio del paradiso come assenza di dolore, aggiungendo inoltre norme morali quali la legittimità della fornicazione, la tolleranza dell’incesto e perfino del suicidio, e considerando peccati gravissimi l’adulterio, l’omicidio, il furto se non per necessità, i voti religiosi e il tradimento.
Una notevole mistura ideologica di principi fin troppo contrastanti gli uni con gli altri.
Grazie alla perfetta conoscenza delle diverse lingue, alla diretta e veemente eloquenza, unita a un indiscutibile carisma e a una fertile intelligenza, si dedicò all’obiettivo di imporre in modo risoluto il proprio credo, anche eliminando chiunque lo rifiutasse, guadagnandosi da parte dei seguaci l’appellativo di “Profeta Mansur, il vittorioso”, conquistando anche l’adesione del Gran Khan di Amadiyah e raccogliendo attorno a sé oltre un centinaio di fedelissimi, con i quali decise di intraprendere la conquista ideologica dell’impero turco.
Le autorità turche naturalmente non rimasero a guardare, e gli inviarono contro alcuni reparti armati, che però furono sconfitti e anzi, diversi soldati si unirono alle schiere di “Mansur il Vittorioso”, spinti dalle vessazioni e dal malcontento.
Boetti giunse a raggruppare oltre tremila uomini fedeli e marciò su Erzurum, entrando nella città e imponendo pesanti tributi, poi marciò verso la Georgia, continuando a predicare e a raccogliere adepti, fino a destare profonda preoccupazione nel sovrano Eraclio II (1720-1798), alleato dell’impero russo, poiché oltrepassò il confine alla testa di circa 40mila uomini armati (in gran parte nomadi guerrieri tartari, circassi e disertori delle truppe zariste), comandati con feroce disciplina. Si dice infatti che Boetti usasse eseguire personalmente le condanne a morte. Nella sanguinosa battaglia che ne seguì, fra le truppe di Eraclio cu furono oltre 20mila morti e 10mila prigionieri, che furono venduti come schiavi a Costantinopoli.
Prima l’impero ottomano, poi quello russo
Al tempo stesso, Boetti impose pesanti tasse ai nobili georgiani e continuò ad ammassare forze fino a comandare un esercito di 80mila uomini, conquistando anche la città di Tiflis, sottoposta a feroce saccheggio. Il re Eraclio, in assenza di aiuti da parte russa, fu costretto a venire a patti e a riconoscere l’autorità di “Monsul il Vittorioso”, il quale volse la propria attenzione a Costantinopoli che, secondo lui, era governata dal debole e poco illuminato sultano Selim III (1761-1808).
Le intenzioni di Boetti apparvero oltremodo evidenti quando accettò di ricevere un messaggero del sultano, solamente per rimandarne indietro la testa e annunciando di essere disposto a sospendere la marcia su Costantinopoli solo in cambio di cannoni e munizioni.
Nell’ottobre 1876, dopo avere sfidato l’impero ottomano, volse le proprie mire a quello russo, vendendo la sua protezione al principe Gori, protettore di alcuni territori caucasici, ma trovando opposizione nel Khan di Bitlis, le cui truppe furono sbaragliate. A questo punto, lo zar mosse il proprio esercito al comando del generale Stepan Stepanoviç Apraksin (1757-1827), che venne respinto.
La fama del Profeta Vittorioso giunse alla corte di San Pietroburgo e anche nelle corti europee si cominciò a parlare di Giovanni Battista Boetti, ormai avvolto in un alone di fantastico mistero, fino a credere si trattasse di un inviato del Gran Lama del Tibet o di un bramino rinnegato, o di un non meglio identificato granatiere piemontese che aveva tradito la fede cristiana e avesse messo insieme un esercito nella Kasbah di Algeri. Vi erano però altre voci che parlavano di un frate domenicano, precedentemente inviato in missione in Persia, che avesse perso la fede, ma che comunque non destava particolari timori, visto che agiva in terre lontane. Semmai era lo Zar di Russia che cominciava a preoccuparsi, dal mento che il misterioso profeta-guerriero, creduto iinviato dalla corte turca, saccheggiava la regione fra Mar Nero e Mar Caspio, notoriamente fonte di sostentamento dell’impero.
Contro le orde di Mansur fu inviato un nuovo esercito, al comando del principe Potekmin, che finalmente riesce a sconfiggerlo, ma non in modo definitivo, tanto che Boetti riesce a fuggire e rifugiarsi sulle montagne del Caucaso, dove inizia una guerriglia contro le forze russe, e dando manforte ai turchi quando scoppia la guerra fra Russia e impero ottomano.
Deciso a non essere relegato a ruoli secondari, Mansur attacca ed espugna Anapa, ne fa la propria base operativa. Nel 1791, dopo una disperata resistenza e sanguinosi scontri in cui i suoi seguaci furono massacrati dalle artiglierie russe, Mansur-Boetti venne infine catturato e portato a San Pietroburgo, dove la zarina Caterina II ne ordina la “detenzione con dignitoso trattamento”, sull’isola Solovietskij, nel Mar Bianco. Le ultime notizie del terribile profeta-guerriero, risalgono a una lettera del 1798, destinata al parroco della stessa isola, nella quale chiede di pregare per i suoi familiari.
Nell’immaginario popolare
Giovanni Battista Boetti è certo ben più noto nei Paesi Orientali che in Occidente, prova ne sia che a Grozny, durante la terribile guerra russo-cecena, nel 1991 i guerriglieri di Dzochar Dudaev hanno coluto dare un segnale preciso circa le intenzioni indipendentiste, cambiando il nome della principale piazza di Grozny da piazza Lenin a piazza Shaikh Mansur Usurma. Nella regione, il frate domenicano originario del Monferrato, è infatti considerato un eroe simbolo di libertà e indipendenza, un leader politico e religioso capace di oltrepassare le barriere tribali e ideologiche, fra i pochi ad avere avuto il coraggio di sfidare il grande impero zarista.
Per molti, Mansur era un pastore ceceno, ma già alla fine del Settecento circolavano voci secondo le quali il famoso profeta Mansur era per certo un rinnegato italiano, alla fine identificato come Giovan Battista Boetti. La fama rimase comunque immutata, e da pastore ceceno, Boetti divenne “l’eroe venuto dall’Italia per aiutare i ceceni, che usava portare una corda bianca stretta ai fianchi”.
Come le vicende del tempo presente ci insegnano, la Storia è piena di condottieri ambiziosi, riformatori intransigenti, trascinatori di folle, re profeti ispirati e dalla parola infuocata. Personaggi certo fuori dal comune, dall’esistenza straordinaria (e spesso breve), destinati a cavalcare gli eventi per poi esserne travolti.
È difficile condensare in poche righe la biografia, per altro poco conosciuta, di Giovanni Battista Boetti le cui vicissitudini, ai limiti dell’incredibile, sembrano derivare da un romanzo d’altri tempi, dove la realtà si confonde con la leggenda a tal punto da rasentare il mito, superando le invenzioni del più fantasioso romanziere.
Avventuriero, viaggiatore, predicatore, missionario e monaco ribelle, brigante e capo-guerrigliero, Boetti è uno di quei moltissimi italiani nei quali ti imbatti sfogliando vecchie pagine di cronache dimenticate, giocando un ruolo di primo piano nei luoghi più improbabili e nelle circostanze più inaspettate.
E’ quindi giunta fino ai giorni nostri la sua fama di fanatico esaltato, eretico, inventore di una nuova religione, opportunista senza scrupoli, dalle ambizioni smisurate, tuttavia dotato di fervida intelligenza, che lo portò a comandare una banda di briganti curdi e armeni, che in poco tempo fu capace di trasformare in un esercito agguerrito.
Nelle biografie a lui dedicate, Giambattista Boetti sembra viaggiare senza tregua, dall’Andalusia alle coste del Mar Caspio, a Costantinopoli, in Kurdistan e Caucaso, protagonista delle più mirabolanti avventure.
Tutto ciò che è storicamente provato, si ricava da un libretto di una sessantina di pagine, redatto in un francese non troppo corretto e in forma anonima, privo di titolo, data e firma, senza alcuna indicazione che possa confermarne provenienza e veridicità. Il libricino è comunemente conosciuto come “Relazione”.
La narrazione si interrompe nel 1786, e questa è la datazione unanimemente attribuita allo scritto, custodito in originale presso l’Archivio di Stato di Torino.
Un’altra fonte, indiretta, è Francesco Becattini (1743-1813), prolifico autore fiorentino che, senza mai citarlo per nome, ne parla indistintamente in “Vita e fasti di Giuseppe II imperatore de’ Romani”, e in “Istoria politica ecclesiastica e militare del secolo XVIII dall’anno 1750 in poi”.
BIBLIOGRAFIA
Francesco Becattini: “Istoria politica ecclesiastica e militare del secolo XVIII”. Vol.VII, Milano 1798, pp. 68 s., 75, 227 s.; “Vita e fasti di Giuseppe II d’Austria”, Lugano 1829, III, pp. 173 s.
M. le comte de Ségur: “Mémoires ou souvenirs”, V, Turin 1829, pp. 129 s., 152.
E. Ottino: “Curiosità e ricerche di storia subalpina”,Torino 1876, pp. 329 ss.
A. D’Ancona: “Viaggiatori e avventurieri”, Firenze 1911-1912, pp. 433-450.
P.Dionigi Damonte: “Il profeta Mansur”, Moncalvo 1882.
A.G. Cagna: “Mansùr”, Casale 1897.
Francesco Picco: “Un avventuriero monferrino del secolo XVIII (Padre G. B. B. detto il Profeta Mansur)”, in “Rivista di storia, arte, archeologia della prov. di Alessandria”, numero X (1901), pp.23-107 (ristampato a parte: “Il Profeta Mansur”, Genova 1915).
L. Gabotto: “Una singolare figura di Monferrino”, (1938).
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