Anche le più evolute democrazie liberali, a volte devono piegarsi alla machiavellica “ragion di Stato”, nonostante i molti profeti dei supremi valori gridino allo scandalo, perché proprio quei valori, soprattutto nel contesto della politica estera, incorrono in radicali ridimensionamenti. Precedenti storici ce ne sono, uno per tutti il caso dell’Egitto; oggi invece il fenomeno che desta attenzione internazionale è la Turchia.
Questa disfunzione fra realtà e concetto idealizzato, è in parte comprensibile, anche se non giustificabile, ma la comprensione stessa perde di significato se lo scenario è la geopolitica internazionale, e ancor più nel caso della diplomazia italiana, che volta pagina dopo le veementi dichiarazioni del premier Mario Draghi, il quale definiva il presidente turco “dittatore”, e torna a elemosinare nuove occasioni per rinsaldare i legami bilaterali.
Flussi migratori, energia e armamenti
Uno dei principali motivi è l’accresciuta influenza della Turchia nella questione libica (a scapito di quella italiana), con conseguenze dirette sul contenimento dei flussi migratori, ma vi è anche l’importante affare che ruota intorno al gasdotto TAP, che amplia in modo non indifferente la dipendenza dell’Italia dalla Turchia, e da diversi Paesi africani e mediorientali, perché il governo italiano, nonostante le evidenti prove a sostegno della scelta opposta, ha da tempo rinunciato a una politica energetica autonoma.
Altro anello della catena sono le forniture di armamenti, dove l’Italia mira a consolidare le cooperazioni già esistenti, offrendo tacito appoggio, senza troppo clamore, alla politica turca nei confronti del Kurdistan. In sostanza, in cambio all’approvazione di Ankara per l’ingresso di Finlandia e Svezia nella NATO, I governi europei, compreso quindi quello italiano, si sono impegnati a insistere perché Washington riduca sensibilmente l’appoggio ai leader curdi che, com’è noto, sono considerati “terroristi” dalla legge turca.
Un vero e proprio baratto, sulla pelle di centinaia di migliaia di persone, che fa risultare le encomiabili definizioni dei trattati di diritto internazionale sulla democrazia, come parole prive di ogni senso. Una via di mezzo fra dramma e farsa.
Emerge da questo contesto il ruolo di un Erdogan più forte e in posizione di netto vantaggio, un attore protagonista della scena diplomatica internazionale, non solo nel conflitto fra Ucraina e Russia, ma soprattutto nello scacchiere strategico che lega Mar Nero e Mediterraneo.
La guerra del grano
Le mosse di Erdogan sembrano focalizzarsi principalmente sul conflitto derivato dalla situazione bellica, cioè la questione del grano ucraino, dal momento che la Turchia pare non avere problemi per quanto riguarda le questioni, altrettanto essenziali, di gas e petrolio.
La cosiddetta guerra del grano è un elemento determinante nella rivalità fra Kiev e Mosca, ed è un problema che necessita di una soluzione a breve termine, che porti alla rimozione del blocco della flotta russa al porto di Odessa, l’unico rimasto sotto controllo ucraino, e la sola possibilità, per Kiev, di sboccare gli oltre 20 milioni di tonnellate di grano, destinati ai paesi del Medio Oriente e dell’Africa, attraverso il Bosforo. Ed è qui che Erdogan gioca un ruolo predominante, ben sapendo che il problema, di competenza dell’ONU, è bloccato all’interno del Consiglio di Sicurezza, dove la Russia, membro permanente, esercita oltremodo il proprio diritto di veto, dimostrando appieno la totale impotenza dell’organizzazione internazionale.
Erdogan si propone quindi come “deus ex machina”, l’elemento catalizzatore, o meglio, facilitatore, che impone una politica di “egoistico equilibrio” fra i contendenti Putin e Zelensky, giostrando abilmente fra diversi ostacoli: ha condannato l’invasione russa, ma ha rifiutato si allinearsi alle sanzioni contro Mosca, e al tempo stesso ha fornito all’Ucraina i ben noti droni tecnologici Bayraktar, che sono stati decisivi nella mancata conquista di Kiev da parte delle truppe russe.
Evidente è poi la ragione strategica, per la posizione geografica della Turchia, che ha il totale controllo del Bosforo, cn diritto di impedirne il passaggio alle navi militari di Paesi in guerra, secondo i termini della Convenzione di Montreux, firmata nel lontano luglio 1936 e attualmente valida. In poche parole, la situazione è la seguente: se Erdogan non concede il permesso, la situazione non si risolve.
Se Erdogan si limitasse a cercare di gestire al meglio tale compito, l’Europa gli sarebbe particolarmente riconoscente, anche perché uno spiraglio nella guerra del grano potrebbe costituire un segnale positivo per gli sforzi di pace, ma è solo una piccola parte, per quanto importante, delle ambizioni geopolitiche del presidente turco, che in un caso o in un altro riscuoterà il proprio tornaconto.
Europa e NATO
Come si è visto alla recente riunione NATO di Madrid, Erdoganha catturato l’attenzione dei riflettori, accettando l’allargamento dell’Alleanza Atlantica a Finlandia e Svezia, a patto che gli vengano restituiti alcuni rifugiati curdi o l’opposizione interna fuggiti in quei due Paesi. Un vero e proprio ricatto per concedere il proprio assenso alla loro adesione. Ricatto accolto dai 29 membri della NATO. Da parte loro, anche Finlandia e Svezia chinano il capo e, per ottenere l’adesione, si mostrano disposti alle richieste di Erdogan, pur essendo due Paesi che hanno fatto della protezione dei rifugiati un modello per l’intera Europa.
Non contento, il Sultano di Ankara è anche riuscito a ottenere la promessa del presidente americano Joe Biden di riattivare le procedure per la vendita di 40 caccia F16, bloccati dopo la decisione di Ankara (membro NATO) di rifornirsi di sistemi antimissile S 400 dal principale nemico di Washington, cioè la Russia di Putin. Non che Erdogan sia particolarmente tenero con Putin, anzi nei mesi passati lo ha contrastato militarmente in Azerbaigian, in lotta con l’Armenia alleata di Mosca, sulla eterna questione del Nagorno-Karabakh.
Che cosa vuole davvero Erdogan?
In Siria, Erdogan ha conteso a Mosca, che sostiene il presidente Bashar al Assad, l’area del confine settentrionale per cacciare i curdi siriani, e ora sembra volersi accordare con Putin per attaccare nuovamente quelle popolazioni, per altro determinanti nella vittoria sullo Stato Islamico. E c’è di più: in Libia Erdogan sostiene il governo di Tripoli, mentre Mosca appoggia il generale Haftar in Cirenaica, sull’orlo di una nuova e pericolosissima guerra civile, con un danno enorme proprio per l’Italia, che importa dalla Libia 1/4 del fabbisogno di gas. Come se non bastasse, Erdogan ha anche imposto la propria politica nei confronti della Grecia, minacciando interventi drastici se non vengono smilitarizzate le isole greche di fronte alle coste turche.
Il Sultano, quindi, agisce a tutto campo, dal Mar Nero all’Africa, e lo fa a ragion veduta e per motivi ben fondati, primo fra tutti la necessità di risollevare l’economia nazionale, che naviga in cattivissime acque, con l’inflazione salita al 7% e la valuta scesa a metà del suo valore rispetto al dollaro. Il programma, però, non è l’aumento dei tassi di interesse per ridurre l’inflazione, ma l’accentramento dei poteri anche economici, diventando arbitro unico anche della Banca Nazionale Turca, e per raggiungere tale obiettivo ha anche riallacciato le relazioni diplomatiche con l’Arabia Saudita, dopo l’interruzione dovuta all’assassinio del giornalista Jamal Khashoggi, nel 2018.
Non bisogna dimenticare che nel 2023 in Turchia ci saranno le elezioni presidenziali e parlamentari, quindi Erdogan deve mostrarsi forte abbastanza per assicurarsi la vittoria, contenendo il disagio economico e sociale con la tradizionale leva del nazionalismo. Di qui la ripresa della lotta contro i curdi e la riapertura del contenzioso con la Grecia. Nazionalismo che verrà celebrato, sempre nel 2023, anno del centesimo anniversario della nascita della Turchia moderna. Ciò che però vuole veramente Erdogan va oltre: restaurare il prestigio dell’impero ottomano, come Putin vorrebbe fare con quello degli Zar. Sia in un caso che nell’altro, in barba alle libertà fondamentali, e senza che nessuna delle democrazie occidentali riesca a contenere queste anacronistiche ambizioni.
La guerra ha quindi offerto ad Erdogan quello che sperava: diventare un jolly indispensabile in questa crisi e al contempo ridare al suo Paese lo status di grande potenza.
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