Un fenomeno al quale telegiornali e quotidiani ci hanno abituati, quello del fondamentalista islamico che sceglie il martirio, equiparato per definizione al pilota suicida dell’impero giapponese che si immola contro una nave americana.
Per la maggior parte di noi occidentali, entrambi sono poco comprensibili dal punto di vista culturale e religioso, resta il fatto che il termine “Kamikaze” che li accomuna è usato in modo decisamente improprio, come impropriamente è usato il termine “Jihad”, che non significa guerra santa ma “la retta via di Allah e, dal punto di vista etimologico, non ha accezione negativa, oltre al fatto che il Corano condanna implicitamente il suicidio rituale.
E’ noto che, nel 1945, quando era ormai evidente che il Giappone non aveva scampo per quanto riguardava l’esito del secondo conflitto mondiale, piloti e marinai giapponesi ricorsero all’estremo sacrificio per tentare di fermare il nemico, lanciandosi con il proprio aereo, o con la nave, contro le portaerei americane, per causare più danno possibile. Secondo il rigido codice del “Bushido”, il riferimento richiamava la tentata invasione del re mongolo Kublai Khan contro il Giappone, fra il 1274 e il 1281, che fu fermata da una tempesta, battezzata appunto “Vento degli Dei”.
Nel corso della seconda guerra mondiale, precisamente nell’ottobre 1944, quando gli americani attaccarono Suluan (prima fase della battaglia di Leyte), l’ammiraglio Takijiro Onishi decise di formare una squadra di volontari della morte, non disponendo di altre risorse per contrastare il nemico. Nacque così la prima squadriglia di piloti suicidi, al comando del capitano Asaiki Tamai e del tenente Yukio Seki, che costituì una amara sorpresa per gli equipaggi della USS-Indiana e della USS-Reno, le prime navi americane attaccate, fino ai drammatici giorni di Okinawa, con l’operazione Kikusui (Crisantemi Galleggianti).
L’esercito giapponese non ebbe mai problemi nel reclutare volontari per le missioni kamikaze: ci fu il triplo di volontari rispetto agli aerei disponibili. In conseguenza di ciò i piloti esperti venivano scartati, in quanto si decise di utilizzarli in ruoli difensivi e di insegnamento. Le motivazioni nell’offrirsi volontario andavano dal patriottismo, al desiderio di portare onore alle proprie famiglie, al mettersi alla prova in maniera estrema. Venivano tenute cerimonie speciali, immediatamente prima della partenza, nelle quali ai piloti che portavano le preghiere delle famiglie venivano conferiti onori e riconoscimenti imperiali, e la “Hachimaki”, la fascia bianca ornata di motivi e scritte inneggianti all’imperatore e alla patria.
Anche gli estremisti islamici (uomini e donne, e questa è già una differenza non da poco), i militanti di Al-Qaeda, Daesh, Hayat Tahrir Al-Sham e delle altre formazioni fondamentaliste, concepiscono il sacrificio come martirio in nome di una ideologia; anche loro, prima di immolarsi, recitano preghiere di buon auspicio ad Allah perché li accolga in paradiso, ma il farsi saltare in aria in un mercato pubblico affollato di donne e bambini, anziché contro soldati nemici, non può certo essere considerato atto di estremo sacrificio in una guerra disperata, in nome della propria patria e dell’imperatore, ma è di per sé un atto terroristico.
Bushido e Jihad
Non si parla quindi di atto di onore, ma di terrorismo di matrice islamica, che negli ultimi anni si è per altro intensificato, anche nella ricerca della spettacolarità dell’impatto mediatico con lo scopo di raccogliere consensi.
Le differenze, quindi, sono numerose, a partire dal fatto di considerare il kamikaze islamico protagonista non di un atto d’onore ma di un’azione criminale, che comunque non è nato recentemente, ma ha origine a circa un secolo fa, nel primo movimento islamico che ha teorizzato l’uso della violenza per affermare il fondamentalismo ortodosso, ovvero la Fratellanza Musulmana, nata in Egitto nel 1928, su ispirazione (finanziamento e regia) delle autorità coloniali britanniche.
Nell’ideologia dell’onore giapponese, un ruolo determinante aveva il codice Bushido, al quale i piloti kamikaze facevano riferimento e pestavano giuramento.
“La Via del Guerriero Samurai”, che nella cultura occidentale può essere paragonata al “Mos Maiorum” dell’antica Roma o al concetto di “Casta della Cavalleria” medievale, risale all’epoca Koyo Gunkan (660 a.C.), con rinascite verso la fine del XII secolo (codici di Kamakura) e in epoca più tarda, del periodo Tokugawa (1600-1870) quando furono scritti per la prima volta dal monaco-samurai Yamamoto Tsunetomo nell’Hagakure, e basato sui principi di onestà, lealtà, giustizia, compassione, dovese, coraggio e onore. Elementi che in tutta onestà, è difficile affiancare al fondamentalista islamico, in particolare se si pensa che l’ultimo kamikaze giapponese fu Kazuo Odachi, quando fu arruolato nella squadriglia degli Yokaren (gruppo di èlite dei piloti destinati al sacrificio) aveva solo 17 anni, ed è miracolosamente sopravvissuto fino alla venerabile età di 93 anni, solo perché quando venne il suo momento, fu fermato via radio quando era in vista del proprio obiettivo, perché la guerra era finita e nessuno doveva più morire. Un’altra differenza non trascurabile nella situazione attuale, in una guerra condotta nell’ombra, con l’inganno, contro obiettivi non solo militari e non solo legati alla lotta di liberazione, come potrebbe essere per le rivendicazioni palestinesi, e non solo contro un nemico dichiarato, derivato dalla guerra russo-afghana, che ha determinato l’allargamento degli obiettivi in senso globale.
Gli attentati effettuati dai militanti di Al-Qaeda (uno per tutti le Torri Gemelle), o del sedicente Stato Islamico (Isis o Daesh) hanno manifestato al mondo la assoluta avversione del fondamentalismo per la modernità civile, e hanno mostrato i mezzi per conseguire gli obiettivi prefissati.
Dal 2014, la crisi politica e morale delle vecchie classi dirigenti in Iraq e Siria, e la conseguente intromissione degli Stati Uniti e della coalizione alleata, ha prodotto una radicalizzazione di quelle classi sociali estromesse dall’amministrazione e dalla gestione dei due Paesi. Da queste classi sociali sono fuoriusciti gruppi che si sono sempre più avvicinati all’ideologia religiosa integralista, ad esempio Salafiti, Wahabaiti, discepoli della Jihad, nonché nostalgici del panislamismo finché, nel 2013, gli estremisti iracheni si sono uniti con quelli siriani e con le frange fuoriuscite da Al-Qaeda e, dichiarando Raqqa “Città Santa”, hanno ufficializzato la nascita dello Stato Islamico dell’Iraq e della Siria, basato sulla rigida dottrina del Salafismo e del Wahabismo.
Definito nelle maniere più diverse “ortodosso”, “ultraconservatore”, “austero”, il wahabismo costituisce una forma estremamente rigida dell’Islam sunnita, che insiste su un’interpretazione ultraletterale del Corano. I Wahabiti credono che tutti coloro che non praticano l’Islam secondo le modalità da essi indicate siano comunque e dovunque pagani, infedeli e quindi nemici, in forma più rigida del Salafismo, giudicato fin troppo tollerante.
Fu in quel contesto che il Salafismo venne permeato da uno spirito wahhabita che, facendo piazza pulita del millenario retaggio culturale islamico, mise l’accento contro i vizi e la corruzione spirituale importati dall’Occidente, e sulla necessità di decretare l’ostracismo contro le missioni cristiane e le loro attività di proselitismo.
Il sacrificio del martirio
La guerra santa non tradizionale, che comprende il sacrificio del martirio, richiama il termine convenzionale arabo di “Shahid (testimone), quello che più si avvicina al concetto occidentale di “martire”, nel senso che testimonia la propria fede e la riafferma con l’estremo sacrificio della vita stessa.
Lo “Shahid”, nella interpretazione strettamente letterale del Corano, si riferisce alla Sura di Al-Fatiha (“Colui che apre”), nella quale di legge “…Secondo quanto afferma il saggio Ibn Abbas (che Allah sia soddisfatto di lui), coloro che hanno colmato dei Tuoi doni sono i Sinceri e quelli che hanno avuto il martirio, testimoniando la fede e i Devoti tutti”. Va unito al concetto del paradiso, riferito alla Sura di An-Nisa (Le Donne): “Combattano dunque su sentieri di Allah coloro che barattano la vita terrena con l’altra vita. A chi combatte per la causa di Allah, sia ucciso che vittorioso, verrà data la giusta immensa ricompensa”. Di fatto, non si fa alcuna menzione a proposito del suicidio, che infatti il Corano proibisce. Il combattente di Allah non deve suicidarsi (lo stesso per il martire cristiano) ma cade in battaglia o subisce la condanna a morte. Quello che è in aperto contrasto con la dottrina e la sensibilità sia cristiana che dell’Islam moderato, fa apparire il combattente come privo di scrupoli anche nell’uccidere la sua stessa gente per perseguire il proprio scopo, mentre il martire cristiano professa la non violenza e comunque accetta le conseguenze del proprio gesto.
Molto si deve inoltre a una distorta interpretazione nello stesso Islam, fra il concetto “Dar Al-Islam (Regno dell’Islam) con “Dar Al-Harb” (Regno della Guerra), unita all’ideologia, altrettanto distorta, della Jihad come Guerra Santa, i cui combattenti hanno diritto al paradiso.
Fin dal Medioevo, l’Islam si è comunque espanso tramite la guerra, come è avvenuto per tutte le iniziative del genere, a prescindere dalla ideologia religiosa o politica. Il Profeta Maometto ha sempre predicato seguito dalla guerra, ma è necessario contestualizzare e storicizzare i concetti espressi dal Profeta, e spiegare inoltre il perché, dopo la sua morte, i fedeli si siano gettati armi in pugno contro tutti coloro giudicati infedeli. Tuttavia, l’Islam non stabisce la forzata conversione della fede, tanto che nel mondo arabo hanno continuato a esistere comunità di Cristiani Copti, Maroniti, Melkiti, Caldei, mentre nella Cristianità non si ammetteva il culto islamico.
In ogni caso, oltre alle definizioni, oggi il termine “Kamikaze” nell’immaginario collettivo, è associato al guerriero suicida, ma molto al di là della strategia limitata alla guerra convenzionale, e almeno due sono i punti di vista dell’esperienza del martire che si immola per il proprio ideale, sia esso distorto o meno, perché “Kamikaze” oggi può essere considerato anche colui che, comprato in un qualsiasi centro commerciale, un fucile automatico da guerra, entra in un cinema, in una discoteca, o in una scuola, e fa strage di uomini, donne e bambini indistintamente, con ben poche speranze di non venire ucciso a sua volta.
Esiste quindi un piano esterno e uno interno. Il primo è legato all’apparenza, e infatti l’aspetto estetico dell’immolarsi è una componente molto importante, poiché l’atto in sé stesso richiede spettacolarità (“Teoria del Kamikaze”, Laurent De Sutter 2017), deve impressionare, intimorire, suscitare massimo rispetto. L’attenzione mediatica che ne deriva non fa altro che sottolineare lo scopo di questa dimensione. Il risultato è un’immagine forte al punto di paralizzare l’avversario con un atto che è avvolto dall’atmosfera del sublime, inteso (secondo i principi filosofici di Kant) come ciò che è eccessivo e che superi l’ordinaria bellezza, raggiungendo una dimensione estetica dove la paura del non ordinario, sia contenuta nel proprio piacere. Un qualcosa che tende alla sfera del divino. In questo caso, nella sfera degli attacchi suicidi, invece, il sublime è l’esperienza della catastrofe dell’essere nella sua totalità.
Dal punto di vista interno, ovvero quello soggettivo, dello stesso guerriero-kamikaze, il sublime si riferisce solo allo straordinario, alla possibilità di essere attraversato da quest’ultimo, arrivando così a identificarsi in un divino entusiasmo. Il fanatico kamikaze che si fa saltare in aria, esiste nella propria essenza solo in quel preciso istante, perché è un gesto unico e irripetibile, in cui prende forma il senso di tutte le cose.
Il passaggio da Kant a Cartesio è quasi immediato perché, secondo la dottrina del fondamentalista votato al martirio, tutta la sua esistenza è esistita per quel momento, e quindi da “Cogito Ergo Sum”, il significato si fonda sul concetto “Uccido Ergo Sum”.
Un collegamento diretto
In un’epoca di individualismo come quella attuale, è difficile comprendere come si possa offrire la propria vita, tuttavia, in Giappone è ancora ben vivo il senso dell’onore, e la memoria dei piloti “Tokkotai” è tuttora molto rispettata. Quest’arma segreta, fatta solo di onore e coraggio, sortì i suoi effetti: oltre al terrore psicologico suscitato nel nemico, furono circa 550 le navi americane affondate o danneggiate da circa 2.000 piloti suicidi. Il loro esempio fu seguito anche dai soldati dell’esercito imperiale che, nella difesa di Iwo Jiima e Okinawa, spesso si facevano esplodere, carichi di bombe, sui carri armati nemici. In questo senso, bisogna ricordare però, che anche la nostra forza aerea, già nel 1940, e quindi prima ancora che in Giappone, ebbe i suoi piloti-kamikaze: il capitano Giorgio Graffer, medaglia d’oro al Valor Militare, aveva fatto del suo aereo e del suo corpo l’arma per distruggere il nemico (i bombardieri britannici). Graffer, tuttavia, si salvò all’ultimo lanciandosi col paracadute, mentre il tenente pilota Bruno Serotini che, il 19 luglio 1943, da solo si slanciò verso un gruppo di bombardieri americani nei cieli di Roma, fu abbattuto. Per quanto anche in Italia fosse stata proposta la creazione di un gruppo d’assalto suicida, il progetto non ebbe seguito.
La parola “martire” porta con sé il senso della difesa, ma viene usata spesso come sinonimo di “suicida” o “kamikaze”, il discorso è ben più complesso, come conferma Ejaz Ahmad, mediatore culturale e giornalista: “Kamikaze è una parola giapponese che significa vento di dio, i piloti giapponesi lo facevano nella seconda guerra mondiale, mentre per il mondo islamico è un suicidio, non un martirio, perché nel Corano il suicidio è proibito. L’attacco suicida al quale assistiamo oggi è unicamente un atto terroristico perché le vittime sono in maggior parte civili, e per l’Islam questa azione è considerata negativa, perché esiste la fondamentale differenza con chi è considerato “Shahid”, cioè chi muore per fede o ideale, ma in combattimento contro i non musulmani, o contro un regime, oppure, com’è il caso delle occupazioni in Palestina e in Iraq, sotto le macerie della propria abitazione bombardata dagli occupanti“.
Troppo spesso, i media identificano con il termine “Kamikaze” gli uomini e le donne del terrorismo islamico che, invece, si fanno esplodere procurando la morte di innocenti per guadagnare un paradiso di vergini e fiumi di lattemiele. Una differenza abissale.
Interessante quindi è scoprire quale filo lega i Kamikaze del Sol Levante ai volontari suicidi dell’estremismo islamico. Un collegamento diretto in effetti esiste: i primi volontari suicidi degli anni ’70, nel Libano occupato da Israele, erano addestrati da istruttori giapponesi, provenienti dal gruppo comunista Sekigun, capeggiato da una donna, Fusako Shigenobu. Il 30 maggio del ’72, all’aeroporto “Ben Gurion” di Tel Aviv, tre terroristi uccisero una ventina di persone e, per la prima volta non era prevista alcuna via di fuga: una volta accerchiati dalle forze israeliane due attentatori si fecero esplodere e un terzo (giapponese) venne ferito e catturato. Molto ampio è quindi il concetto di “missione suicida”, che contribuisce ad allargare il divario fra il fondamentalista islamico e il giapponese, e anche fra chi, nel recente passato, si è comunque votato al sacrificio anche estremo per il proprio Paese.
Il Giappone era in guerra contro gli Stati Uniti e i Kamikaze si sacrificavano per la distruzione di un obiettivo militare. Ma altri corpi speciali, anche nei Paesi democratici, sono utilizzati per azioni che comportano altissimi rischi e in cui la prospettiva della morte è accettata con un orgoglioso sentimento di superiorità morale: gli Arditi italiani nell’ultima fase della Grande guerra, i commandos britannici e quelli israeliani, i Seals americani. Non esistono soltanto le religioni rivelate, esiste anche la religione della patria con i suoi santi guerrieri, mausolei, sepolcri, parchi delle rimembranze e liturgie funebri. Anche lo stesso Mussolini, ormai al tramonto, nel famoso ultimo discorso pubblico al Teatro Lirico di Milano (giugno 1944), riconobbe il valore dei Kamikaze giapponesi: “Che cosa sia la volontà e l’anima del Giappone è dimostrato dai volontari della morte. Sono decine di migliaia i giovani che hanno come consegna “Ogni aereo per ogni nave”. E lo provano; davanti a questa sovrumanamente eroica decisione, si comprende l’atteggiamento di taluni circoli americani, che si domandano se non sarebbe stato meglio per gli statunitensi che Roosevelt avesse tenuto fede alla promessa da lui fatta alle donne americane, che non avrebbe mandato i loro figli a morire oltreoceano…“.
Il martire contemporaneo
Il suicidio quale arma di guerra comincia a essere praticato nel 20° secolo e continua nel 21°, diffondendosi in contesti radicalmente diversi per cultura, religione, strutture sociali, condizioni economiche. Soli denominatori comuni sembrano essere la valutazione che non esistono altri mezzi per colpire, e la decisione di dare testimonianza estrema della propria fede, non necessariamente religiosa.
Oggi sono soprattutto i fondamentalisti islamici a uccidersi per uccidere, ma si contano anche indù, scintoisti e militanti di altre fedi. Certamente, combattere senza avere paura della morte, anzi scegliendola, sconvolge tutti i canoni di guerra così come li conosciamo, perché l’obiettivo non è più la salvezza e la salvaguardia di un ideale o di una patria, ma la vendetta per avere umiliato i principi dell’Islam, promuovere l’immoralità e l’ateismo, essere complici dello sterminio dei palestinesi, depredare le risorse naturali dei Paesi musulmani. Altrettanto grande è l’odio verso i regimi musulmani moderni e riformisti, considerati conniventi con l’Occidente.
Il fatto che i guerriglieri ceceni abbiano scelto di colpire anche in luoghi-simbolo e affollati, è poi particolarmente preoccupante, in quanto indica la crescita, all’interno della resistenza, di gruppi radicali islamici armati, che sembrano impegnati più in una strategia di contrapposizione globale, che nella causa dell’indipendenza nazionale.
Nello stesso periodo, in Sri-Lanka, il suicidio come arma di guerra è stato praticato dagli indipendentisti Tamil, in maggioranza di religione Indù, ma l’elemento religioso era in secondo piano rispetto all’estremismo nazionalista, e comunque, l’epilogo non ha visto vincitori o vinti: la guerra civile si prolungò per oltre un decennio, e i Tamil non l’anno vinta, ma neppure persa. In quell’atmosfera cadde il leader Rajiv Gandhi, dilaniato dall’esplosivo che una giovane donna teneva nascosto fra le vesti. Così gli indipendentisti si vendicarono di colui che, dopo averli per un certo periodo appoggiati, aveva troncato i rapporti, e anzi, aveva poi mandato truppe indiane contro di loro.
Il ruolo della donna
Fra articoli di giornali, servizi televisivi e libri, si è detto molto sul ruolo del Kamikaze islamico, cercando una motivazione plausibile. Ancora di più nel caso che il martire volontario sia una donna, che per definizione dovrebbe conoscere maggiormente il valore della vita, soprattutto di giovani o bambini innocenti, dal momento che ne è principio generante e quindi si presume dotata di un innato senso di protezione. Eppure il fenomeno delle donne kamikaze è in espansione. Le formazioni islamiche, in genere, proibiscono alle donne di accedere all’Intifada. Lo sceicco Ahmad Labous Yassin (1937-2004, fondatore del movimento Hamas ucciso da un missile israeliano) avanzava perplessità sull’uso delle donne nella Jihad anche se, in realtà, non esiste alcuna fatwa che proibisca espressamente ad una donna di immolarsi.
La scelta di diventare “Shahida” (testimone martire per Allah) per la donna sembra incontrare il favore dell’opinione pubblica: un sondaggio condotto a Nablus ha rivelato che oltre il 60% degli intervistati la approva. Si potrebbe a questo punto pensare che l’adesione ad una cultura del martirio e del sacrificio nasca in un ambiente di profonda ignoranza, ma non è così: nei campus universitari di Gerusalemme, studentesse colte e di ottima famiglia affermano di essere pronte a morire, e si dicono orgogliose di coloro che già lo hanno fatto.
Per plagiare la volontà di donne e uomini colti in favore del terrorismo suicida, vengono utilizzate svariate forme di propaganda le quali danno alle missioni di martirio un valore di affrancamento dalla ghettizzazione cui sono da sempre relegate le donne, nella mentalità islamica. E’ così che le donne kamikaze diventano icone di un movimento sociale di matrice quasi femminista. Nei territori palestinesi, ad esempio, vengono diffusi opuscoli con l’obiettivo di arruolare donne, vengono organizzate riunioni, fatte circolare testimonianze che raccontano di come le martiri dell’Intifada non fossero affatto ignoranti o sfortunate, ma donne di profonda cultura e buona famiglia. È così che ragazze appena adolescenti si dichiarano pronte a morire.
Ed è ancora sorprendentemente radicata la credenza espressa nel Corano: al martire maschio si promettono settantadue splendide vergini in paradiso, mentre la “Shahida” avrà come premio di diventare la responsabile delle settantadue vergini, la più bella fra loro. Le cronache sulle prime donne kamikaze in Medio Oriente risalgono al 4 aprile 1985. La prima è la diciassettenne libanese Saana Muhaidily che si fece esplodere gettandosi in macchina contro un posto di blocco israeliano a Batr Shaouf, uccidendo due soldati e ferendone altri due. Prima di morire, secondo un tragico rituale divenuto ormai classico, la ragazza aveva registrato un videomessaggio in cui si dichiarava pronta a morire per cacciare gli Israeliani dal Libano. Fino a quel momento le donne, per motivi di ordine religioso e sociale, erano escluse da azioni di questo genere, ma l’azione della giovane libanese ha costituito un precedente. Il suo gesto fu interpretato come monito alla coscienza di milioni di uomini arabi, ma soprattutto scatenò un pericoloso spirito di emulazione. Nel luglio dello stesso anno un’altra donna, sempre al volante di una vettura imbottita di esplosivo, si lanciò contro un posto di blocco a Ras Bayada nel Libano meridionale, uccidendo due soldati. Nel gennaio 2002 Wafa Idris, infermiera 28enne, arrivò a Gerusalemme probabilmente a bordo di un’ambulanza della Mezzaluna Rossa e si fece esplodere insieme a 10 kg di esplosivo.
Al di là delle suggestioni, la vicenda di Wafa Idris lascia ancora qualche dubbio: è stato impossibile stabilire se fosse sua volontà morire o se la sua tragica fine fosse determinata da un innesco anzitempo che non le aveva lasciato scampo.
Il gesto venne imitato da altre ragazze. Un tentativo maldestro fu quello di Moura Shaloub, di religione cristiana, che si lanciò contro un posto di blocco israeliano di Tulkasem in Cisgiordania armata solo di un coltello da cucina, venendo uccisa dai soldati. Nel febbraio 2002 si fa saltare in aria ad un posto di blocco nei pressi di Maccabim la 21enne Darin Abu Aishe, studentessa all’università Al-Najah di Nablus, considerata vera e propria base di reclutamento, dove il consiglio studentesco è controllato da Hamas. Nell’aprile successivo si uccide Andaleeh Takatka, nei pressi di un mercato nella tristemente famosa via Jaffa.
La prima donna-bomba fondamentalista islamica giunta dal movimento Hamas è stata Reem al-Reyashi, giovane mamma di due bambini. Il videomessagio che ha lasciato è una dichiarazione d’amore per loro, prima di farsi esplodere al valico di Erez, uccidendo quattro soldati israeliani.
Non si può dimenticare la tragedia della scuola di Beslan, in Ossezia, quando un commando terrorista sequestrò numerosi bambini minacciando di ucciderne cinquanta per ogni componente del commando ucciso e venti per ogni ferito. Ancora oggi non si conosce il bilancio definitivo, ma si parla di più di trecento vittime.
In comune con la causa palestinese, si può individuare in Cecenia l’effetto di una religiosità incomprensibile agli occhi dell’Occidente, capace di forgiare giovani pronti a morire per vendetta. Insomma, se esiste un unico punto in comune fra il kamikaze giapponese e il fondamentalista islamico, è unicamente l’immolarsi per una causa o una ideologia ma, come diceva William Shakespeare, “Il fine può giustificare i mezzi, ma ci deve essere qualcosa che giustifichi il fine…”.
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