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Lentamente, ma inesorabilmente, la storiografia va avanti: potremmo dire, a un dipresso, che essa segue la storia a prudente distanza. Così, un poco alla volta, agli occhi del lettore si sdipanano i complicati intrecci di eventi, periodi, correnti di pensiero a lungo ignorati o dimenticati: temi che non emergevano alla ribalta della storiografia, quasi fossero dormienti, in un destino carsico, sono, in altre epoche, prepotentemente venuti alla luce. Fasi intere della storia dell’umanità hanno sofferto di un oscuramento secolare, per poi trovarsi, d’un tratto, al centro dell’attenzione di studiosi e pubblico. In Italia, ad esempio, la storiografia è stata a lungo decisamente provinciale: per moltissimo tempo, le fonti dello storico sono state le opere di altri storici più o meno a lui sodali, quasi che raccontare il passato (questo, in sostanza, è il senso della storia) rappresentasse il doveroso procedere nel solco di una tradizione fortemente autoconservativa. Un sistema che, purtroppo, si è travasato nella scuola, con la pessima abitudine di antologizzare la storia, trasmettendone soltanto dei luoghi comuni: quello che potremmo definire un “dogmatismo di comodo”. Sicché, in definitiva, la gran parte delle opere saggistiche e manualistiche, nel nostro Paese, ha finito per rappresentare un quadro storico molto limitato e, in qualche modo, autoreferenziale. Una storia europea, anzi: prevalentemente in chiave italiana. Nelle nostre scuole e nelle nostre università ci si è concentrati, caparbiamente, sugli avvenimenti del Vecchio Continente, cercando, attraverso quelli, di spiegare la ricaduta che i fenomeni europei ebbero sulla storia patria. Oggi, in quest’epoca a mezzo tra l’ecumenismo ed il globalismo, forse chi ci ha guadagnato, in mezzo a tante preoccupanti decadenze, è stata proprio la storiografia: si è iniziato a capire che esistono momenti chiave, in cui gli eventi smettono di interessare una singola comunità e si fanno mondiali. Per la verità, i nostri progenitori romani c’erano arrivati due millenni fa, ma essere ottimisti, nel campo della storiografia, significa, molto spesso, prendere lucciole per lanterne: la cultura italiana, rispetto a quella di Orazio e Virgilio, rappresenta, ancora oggi, un evidente regresso, in molti campi. La visione storica è, probabilmente, uno di questi. Alberto Rosselli, tra i pochi storici nostrani, possiede, da un lato, un senso limpidissimo della storia come meccanismo complesso, formato da miriadi di altri meccanismi, minori ma altrettanto complessi, e regolato da una sua logica, potentemente matematica. Dall’altro, egli gode di quella sindrome che si chiama “curiosità”, e che trasforma un banale ricercatore in storico di rango. Perché Rosselli si domanda sempre il perché delle cose, e non si accontenta mai della tradizione scolastica: anzi, ne esce volentieri, cercando tra le pieghe più nascoste il fossile prezioso, il piccolo segreto da svelare. Talvolta, si tratta di pure curiosità: vaghi uzzoli dell’intellettuale attento e divertito. Altre volte, invece ( e questo volume è uno di quei casi), Rosselli va al centro del problema e diviene, proprio per questo, tradizione lui pure: tradizione eretica, apocrifa, ma certamente tradizione. La sua opera alterna indagini su fenomeni rimossi o dimenticati della nostra storia (la resistenza dei Baltici, l’olocausto armeno, la decadenza dell’Impero ottomano) a lavori di maggior ampiezza e di maggior ricaduta, come questo, sulla guerra franco-inglese del Nordamerica. Insomma, Rosselli oscilla sempre tra una “storia altra” e un’altra storia: è uno che non si accontenta e che non beve mai del vino di cui non conosca l’origine. Non si fida delle etichette e, men che meno, degli esperti di enologia. Per la verità, come la ponderosa bibliografia che accompagna questo libro testimonia a iosa, sul conflitto, il cui epilogo comunemente è noto come “Guerra dei sette anni”, esiste una vasta e consolidata tradizione storiografica. Qui da noi, però, di tutte le problematiche che accompagnano questa tradizione poco risulta: per solito, si tende a considerare la guerra combattuta nell’America settentrionale come un’appendice delle Guerre di Successione o alla stregua delle molte guericciole dinastiche combattute in Europa nel XVIII secolo, per il possesso di una piazzaforte o per ottenere migliori condizioni ereditarie. Laddove, invece, come ben emerge da quest’opera, quella guerra ebbe carattere affatto peculiare e conseguenze fondamentali per i destini del mondo. La nostra storiografia, come si diceva, è fortemente conservatrice, e tende a riassumere l’andamento della storia secondo schemi statici: l’ancien règime fu una sorta di guazzabuglio diplomatico e dinastico, poiché la società che lo rappresentava era una società corrotta e confusa sul piano morale. Poi, venne la Rivoluzione, che rappresentò la sintesi di ogni umana meraviglia e che spazzò via, con la forza della giustizia, della fratellanza e della libertà, quell’universo effimero e decadente. Questa, in soldoni, la storia dell’umanità tra il 1713 ed il 1796. Del resto pare non valga la pena di discutere. Viceversa, moltissime di quelle questioni storiografiche, che appassionano i contemporaneisti più accademicamente corretti, si delinearono e, di più, emersero nettamente, proprio in quegli anni cruciali, tra il 1755 ed il 1765: nell’era di Pitt il Vecchio. Leggere il libro di Rosselli significa anche individuare la matrice da cui provengono numerosissimi aspetti della modernità: aspetti che, altrimenti, resterebbero lì, appesi all’albero della storia, senza ragion d’essere. Senza logica, per dirla alla Rosselli. Primo esempio fra tutti, il concetto planetario di politica, che l’Inghilterra di Pitt stava cominciando ad elaborare, e che la portò a combattere nei quattro continenti un’unica guerra. Le giubbe rosse che combattevano in Africa, le milizie di Clive e i trappers di Washington rappresentano il primo esempio di esercito globale: ancora meglio, essi sono un’armata multietnica, antesignana dell’esercito imperiale vittoriano. Nativi americani e sikh rappresentarono i corpi speciali britannici, fin dal Settecento: e il modo di combattere di questo esercito fu, forse, il primo esempio di tecnica ibrida. I reggimenti inquadrati e i commandos dietro le linee nemiche. Se a ciò aggiungiamo il fatto che, probabilmente, si trattò anche della prima guerra a tattica composita (azioni terrestri e navali coordinate), possiamo facilmente comprendere quale fu il peso di questo conflitto nella strategia militare futura. Ma tutto questo significò anche la nascita di una diplomazia assai duttile e di un tipo del tutto nuovo: la capacità di rapportarsi con le varie comunità indigene, tendendo conto di differenze, di atavismi, di alleanze ed odi tribali. Il sistema inglese, Britannia rules, si formò nelle jungle del Pradesh e nelle foreste boreali d’America: ed è un sistema che sarebbe durato per secoli. Un secondo tema ineludibile, che il libro di Rosselli porta alla luce, è che la guerra di Conquista fu l’inevitabile premessa all’indipendenza statunitense: fu lì che si formò la coscienza militare dei coloni e, con quella, la loro volontà di contare di più e di ottenere maggiori autonomie dalla Madrepatria. Non a caso, molti dei futuri padri della Nazione americana si fecero le ossa nel duro conflitto franco-inglese, a partire dal colonnello Washington. Il terzo aspetto fondamentale di questa guerra fu l’apporto che ad essa diedero le grandi tribù indiane del nord (le prime a scomparire, proprio per questo, dalla ribalta della storia): Uroni e Irochesi, Pawnee e Nasi forati si schierarono con i due contendenti bianchi, talvolta ribaltando le alleanze, seguendo una propria linea diplomatica e politica, determinata da interessi commerciali e dai rapporti pregressi con i coloni. In un certo senso, l’idea illuminista del “buon selvaggio” trovò la propria applicazione utilitaristica proprio nella guerra franco-inglese; così come l’immagine truce e terribile dell’indigeno sanguinario: su queste due mitologie complementari si sarebbe, in seguito, innestata la rapsodia, un po’ ipocrita, di Nathan “Bumpo” e del suo padre adottivo, ultimo della sua tribù. Allora, però, i nativi americani stavano già diventando un’attrazione da circo: una curiosità per piccoli lettori. Nasceva l’America selvaggia e pittoresca della letteratura. I veri Mohicani, Uroni, Shoshones, giacevano sotto terra, stroncati dall’alcool e dai fucili dei coloni e delle truppe regolari. Rimane un ultimo argomento forte del libro di Rosselli: quello, per così dire, definitivo. Esso è rappresentato dal solido impianto narrativo e storiografico che lo scrittore genovese dà sempre ai propri lavori. Rosselli parte di lontano: non si limita ad indicare la strada e non suggerisce semplicemente le implicazioni della storia che racconta, ma la sostiene con robuste pezze d’appoggio. Egli introduce l’argomento clou del suo libro muovendo dalle origini: la diffusione coloniale nell’America settentrionale, a partire dal secolo XVI, le spedizioni religiose, il diffondersi progressivo delle basi commerciali, l’incremento della presenza militare e i primi attriti in Canada e nel New England. Poi, delinea esattamente il panorama dei rapporti diplomatici tra le due superpotenze europee, negli anni difficili e convulsi della Rivoluzione inglese e del Re Sole, procedendo spedito lungo un sentiero che mostra l’ineluttabilità, prima o poi, di una resa dei conti nelle terre d’oltremare. La Spagna, autentica dominatrice del colonialismo delle origini, stava entrando, insieme al succedaneo Portogallo, in una crisi da cui non sarebbe più uscita. Ma Francia e Gran Bretagna erano Stati molto diversi dalla poco dinamica Spagna borbonica: avevano fiorenti commerci, una potente flotta, una borghesia attiva e spregiudicata. Il futuro coloniale era evidentemente loro. Mentre, sui campi di Fiandre e di Germania, le armate europee si scontravano a scadenze esatte, nelle guerre di Devoluzione, del Nord, di Successione, in America le colonie prosperavano e si combattevano, con piccoli scontri, incursioni, massacri. Inevitabilmente, quel ‘conflitto asimmetrico’ avrebbe dovuto diventare, in qualche modo, simmetrico: i due giganti, prima o poi, sarebbero venuti alla guerra, lasciando da parte le semplici scaramucce. La guerra venne e, per la prima volta nella storia, un trattato di pace europeo, quello di Parigi del 1763, fu deciso da battaglie combattute oltre oceano. Il mondo stava cambiando, anche se, probabilmente, allora nessuno se ne rese ben conto. D’altronde, neppure in tempi più recenti e meno confusi pare che molti storici si siano accorti di questo clamoroso incipit. A differenza di Rosselli, che, invece, come un viandante, risale passo dopo passo la collina della Storia, e si ritrova in una vasta prateria, dove vede grandi gonfaloni gigliati e sgargianti union jack sventolare al vento atlantico: vede giubbe rosse e giacche bianche, coloni vestiti come quaccheri ed indiani, ricoperti di pelli, che si combattono. Rosselli osserva questa scena, annota, segna le proprie considerazioni: poi, rimette in tasca il taccuino e, senza fretta, discende il colle, sui propri passi. Lo immaginiamo, con la sua faccia da genovese, triste e allegra al contempo, che sorride a mezza bocca. Perché sa che quello cui ha appena assistito è, insieme, una fine ed un inizio. Sa che è così che nasce la Storia. Ed è così che è nato questo libro.
Marco Cimmino
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