Uno degli aspetti più mostruosi, al punto da sembrare inverosimile, è l’odissea delle centinaia di comunisti italiani che emigrarono nell’URSS sia per sfuggire al fascismo che per ragioni ideali negli anni tra i due conflitti mondiali del secolo scorso, e si trovarono vittime inconsapevoli e dimenticate del sistema di terrore scatenato da Stalin, con la complicità di quei dirigenti del PCI, il Partito Comunista Italiano, che facevano parte del Comintern, l’organizzazione internazionale dei partiti comunisti, come Palmiro Togliatti. Togliatti era arrivato a Mosca nel 1926 come capo-delegazione del PCI per il IV Plenum dell’internazionale Comunista. In questa occasione si era affiancato, seppure con vari distinguo, alla politica di Stalin che era stata criticata anche duramente da Trotzskij, Zinoviev, Kamenev e dall’italiano Amadeo Bordiga. Alla fine del Plenum Togliatti fu eletto nell’Esecutivo dell’Internazionale come dirigente della sezione italiana del Comintern. In questa veste, come accertato dalle ricerche storiografiche condotte in massima parte oltre 40 anni dopo la fine della seconda guerra mondiale grazie all’apertura degli archivi di stato dell’ex Unione Sovietica dopo la caduta del muro di Berlino, le responsabilità di Togliatti e della sua cerchia nelle purghe staliniste degli anni del “grande terrore” a partire dalla metà degli anni trenta, nei confronti dei comunisti italiani deportati nei gulag o fucilati, appaiono inconfutabili. Per un giudizio equanime occorre però riportarsi al clima pesantissimo di quel periodo storico dove, tra sospetti e delazioni, anche sollevare un dito per difendere un innocente accusato di “deviazionismo” poteva causare il rischio di essere coinvolto nella medesima accusa con conseguenze inimmaginabili. Basti pensare che gli stessi capi della polizia politica sovietica negli anni della grande purga, Genrich Jagoda e, dopo di lui, lo spietato Nikolaj Ezov, responsabile di oltre un milione e mezzo di arresti e di oltre mezzo milione di fucilazioni, furono anch’essi fucilati nel 1938 e nel 1940 rispettivamente. Fine che, molto più tardi, nel 1954, toccherà anche a Laurentij Berija, successore di Ezov. Antonio Roasio, che a Mosca fu accanto a Togliatti per molti anni, scriverà che: “Nessuno di noi credeva che i compagni arrestati fossero colpevoli: si pensava piuttosto ad errori giudiziari o che qualcuno fosse diventato vittima di una difficile realtà. Se una colpa ricade sui responsabili del nostro partito, sui compagni che avrebbero potuto fare qualcosa, è ch’essi accettarono questi fatti come una fatalità, che non ci fosse nessuna reazione, nemmeno quella, certamente non rischiosa, di inviare all’estero una buona parte dei compagni in pericolo….” (1). Nel giudicare l’operato di Togliatti in quegli anni terribili Paolo Spriano commenta: “Nessuno saprà mai in che misura stile e sostanza dello zelo inquisitorio o dell’ubbidienza assoluta siano stati determinati in Togliatti dall’atmosfera di vero e proprio panico che avvolge il vertice dell’Internazionale (e provoca la decimazione dei quadri), e in che misura siano frutto di convinzione e persino di furore ideologico” (2).
Parecchi italiani, soprattutto iscritti al PCI, iniziarono a rifugiarsi nell’URSS dopo gli anni venti del secolo scorso per salvarsi dalle repressioni fasciste che erano diventate particolarmente violente. In genere espatriavano, spesso illegalmente, prima in Francia o in Belgio per poi, a causa di mancanza di lavoro o perché ricercati anche all’estero, con l’aiuto economico del PCI, emigravano nell’Unione Sovietica. Altri erano scappati perché responsabili di reati gravi come nel caso del militante comunista Dante Corneli, altri ancora, condannati dai Tribunali speciali per le loro idee antifasciste, una volta scontata la pena, avevano deciso di spostarsi in URSS data la difficoltà di trovare, dati i loro precedenti, un’occupazione in patria. Emigrarono clandestinamente anche alcuni italiani che avevano partecipato ad azioni antifasciste importanti come l’occupazione delle fabbriche a Torino nel 1920, o la difesa di Palazzo d’Accursio a Bologna dall’assalto fascista nel novembre dello stesso anno. Vi furono poi dei nostri connazionali, anche se in numero minore, che si trasferirono nell’URSS per motivi puramente ideologici, attratti dall’idea di partecipare all’edificazione di una società migliore nel quadro di un socialismo etico basato sulla giustizia e l’eguaglianza.
Con l’avvento al potere di Hitler e dei suoi dichiarati progetti espansionistici, il flusso migratorio verso la Russia dall’Italia come dagli altri paesi europei andò diminuendo perché Stalin, dalla metà degli anni trenta, aveva deciso, per ragioni di sicurezza, di chiudere progressivamente le frontiere agli stranieri. I nostri emigrati erano affidati alle cure ed al controllo di particolari uffici del Comintern, come la sezione Quadri, supportata a sua volta dalla MOPR (Organizzazione internazionale di soccorso ai combattenti della rivoluzione). Della sezione Quadri aveva fatto parte anche Gramsci nei primi anni venti. Gli esuli politici italiani, dopo essersi registrati presso la MOPR, dovevano presentarsi presso il rappresentante del PCI a Mosca, compilare una dettagliata scheda autobiografica con i propri trascorsi politici che veniva archiviata nella sezione Quadri.
Gli emigrati che avevano un qualche rilievo nel partito venivano alloggiati a Mosca nell’Hotel Lux dove, dal 1921, era stata sistemata la foresteria dell’Internazionale Comunista, mentre gli altri trovavano posto in una casa d’accoglienza della MOPR da dove, dopo qualche mese, venivano spostati in altre città per lavorare nelle fabbriche o per la costruzione di nuovi impianti industriali. In queste destinazioni gli emigrati avevano come luogo di aggregazione e di discussione dei Club che dipendevano, ed erano strettamente controllati, dal Club di Mosca che ne assegnava i dirigenti. Il Club rivestiva “un ruolo centrale nei rapporti tra l’emigrazione ed il PCI, che si muoveva, a questo riguardo, con tre obiettivi di fondo: avere una panoramica la più completa possibile degli antifascisti che si recavano in URSS; controllare il loro comportamento politico; sottrarli all’influenza dei Consolati italiani che riaprirono dopo il 1923, anno del riconoscimento diplomatico tra Italia e Unione Sovietica” (3).
Fino al 1926 gli emigrati erano liberi di muoversi non solo in Russia ma anche in Europa e quindi di rientrare anche in Italia come tanti desideravano, ma dopo, con la promulgazione delle leggi fasciste, questa possibilità venne meno. Nel 1926 si ebbe il violento scontro tra Stalin e Bordiga che causò una grande lacerazione anche all’interno del PCI ed il conseguente asservimento di parte della sua dirigenza al Comintern di Stalin che includeva Togliatti come rappresentante italiano presso l’Internazionale. Togliatti, nel 1926, riferendo all’ufficio politico del PCI, esprime in modo circospetto ma chiaro il suo dissenso dal compagno Bordiga: “Degno di attenzione il contegno tenuto da Bordiga tra gli italiani residenti a Mosca. Posso affermare che egli ha svolto qui un’azione di frazione in modo abbastanza aperto./…./ Il partito dovrà tenere presente il pericolo di una attività frazionistica a Mosca “ (3). Molti emigrati politici manifestavano anche apertamente il loro dissenso per la piega che Stalin ed il Comintern stavano imprimendo al partito, senza rendersi conto che ogni loro affermazione veniva registrata e verrà in seguito usata per accusarli di deviazionismo e di tradimento degli ideali comunisti. Nel 1934, a seguito dell’assassinio di Kirov, importante membro del Politburo e Segretario della VKP(B), il partito comunista dei bolscevichi, Stalin, che pare ne sia stato il responsabile come adombrato da Kruscev al XX Congresso del PCUS, sfruttò l’occasione per epurare i quadri del partito, scatenare il terrore di massa, inasprire le leggi relative ai processi politici, portare a livelli disumani la politica repressiva. Kamenev e Zinoviev furono fucilati nel 1936 dopo un processo dove si erano dichiarati colpevoli nel tentativo di salvare la vita, Trotzkij fu assassinato in Messico da un agente sovietico nel 1940. Milioni di persone furono arrestate in base a semplici delazioni, senza avere commesso alcun reato e senza sapere il motivo del loro fermo. L’NKVD (Commissariato del Popolo per gli Affari Interni) operò arresti di gruppi dove i componenti venivano torturati separatamente per ottenerne denunce e delazioni reciproche e quindi prove di colpevolezza comuni. Il PCI controllava gli emigrati italiani accumulando su ciascuno faldoni di informazioni che provenivano dai verbali delle riunioni nei Club, dai rapporti interni delle fabbriche dove erano impiegati, ma anche dalla registrazioni degli incontri fra amici, con l’intento di spiare ed avere precisa contezza dell’orientamento politico dell’intera comunità italiana in URSS. A partire dal 1936 “grazie sempre all’attività solerte dei dirigenti comunisti italiani, compreso Togliatti nei periodi che fu a Mosca, gli emigrati politici italiani vennero tutti schedati e con dovizia di particolari fu ricostruita la loro biografia politica con particolari attenzioni ad eventuali “debolezze” politiche espresse nel passato” (3). Scriverà a questo proposito Dante Corneli, ritornato in patria nel 1970 dopo 24 anni di Gulag: “ Gli inquirenti possedevano su ognuno di noi un voluminoso dossier sul nostro passato da cui risultava ampiamente cosa avevamo fatto, scritto, detto e la parte avuta nelle lotte interne al partito /…./. Un atteggiamento non confacente anche se commesso dieci, quindici e anche vent’anni prima, bastava per una dura condanna” (4).
Emblematico del sistema di terrore stalinista è il caso di otto emigrati italiani, tra loro amici: Emilio Guarnaschelli, un giovane comunista torinese giunto a Mosca nel 1933, Otello Gaggi, Luigi Calligaris, Gino Martelli, Giovanni Bellusich, Rodolfo Bernetich ed Ezio Biondini, arrestati a Mosca tra la fine del 1934 e l’inizio del 1935, con l’accusa di essere membri di un gruppo trotzkista. Risultavano responsabili, secondo la denuncia del PCI all’NKVD, di avere espresso sia nel Club che in privato, la loro delusione per la realtà sovietica per come si andava realizzando, con l’esibizione di un autoritarismo brutale ed una idea della società lontana dalle loro speranze. Il processo, iniziato il 5 gennaio del 1935, usando le torture per ottenere accuse e delazioni degli uni verso gli altri riguardanti partecipazioni mai verificate a cellule trotzkiste, si conclude con la condanna a tre anni di confino per attività controrivoluzionarie. Mentre ancora scontano la pena, sono soggetti a nuove accuse e processi. Guarnaschelli, Bellusich e Martelli sono condannati nel 1936 a cinque anni di lager; nuovamente processati nel 1937–1938, vengono condannati alla fucilazione ed uccisi nel 1938 nei campi di lavoro dove si trovavano. Anche Otello Gaggi, condannato nuovamente, morirà, nel 1945, in un lager non identificato; Carlo Saettone, dopo una condanna nel 1936 a cinque anni di lavori forzati per attività controrivoluzionaria, muore di tisi nel 1942. Ezio Biondini, condannato in Italia al confino e poi in carcere dal 1926 al 1931 per la sua militanza comunista, si rifugia in Francia e poi a Mosca inviato dal partito per frequentare la scuola leninista. Lavora come meccanico in fabbrica; viene arrestato, processato e condannato a 10 anni di lavori forzati. Scontata la pena nel 1946, si rivolge all’Ambasciata italiana a Mosca per potere essere rimpatriato e racconta la sua storia a Giancarlo Pajetta. Scoperto dalla polizia sovietica, è di nuovo arrestato e condannato a 25 anni nel lager di Krasnojarsk dove morirà, come racconterà Corneli, ucciso da un altro deportato, probabilmente un delinquente comune, a colpi di scure. Luigi Calligaris aveva criticato “l’industrializzazione forzata, il supersfruttamento degli operai, il paradosso della lotta di classe da cui scaturiva qualcosa di assai più arretrato ed ingiusto, cioè la formazione di una casta (la nomenklatura)” (3); viene processato per la seconda volta nel 1936 e condannato a 5 anni di lavori forzati nel lager di Severo-Vostokcnyj. Processato per la terza volta dalla NKVD, il 14 settembre 1937 è condannato alla pena di morte mediante fucilazione per attività trotzkista, partecipazione a sciopero della fame e organizzazione di sabotaggio controrivoluzionario. Rodolfo Bernetich, iscritto al PCI nel 1921, espatria clandestinamente in Francia nel 1929 per giungere in URSS nel 1931 come emigrato politico. Arrestato come gli altri amici con le medesime accuse, è condannato a tre anni di confino in Kazakistan. Arrestato nuovamente mentre sconta la pena è condannato a morte e fucilato il 25 novembre 1937.
Grazie al lavoro di molti ricercatori ed in particolare al fondamentale volume degli Annali Feltrinelli a cura di Elena Dundovich, Francesca Goro ed Emanuela Guercetti, “Reflections on the Gulag” del 2003, è stato chiarito anche l’iter della tecnica repressiva. Tutto si originava dai dossier compilati dal PCI per ogni emigrato, “Tali biografie venivano smistate all’NKVD, che vi trovava tutti gli spunti necessari per accusare, condannare, deportare o fucilare il più leale dei comunisti, degradato a spia, fascista, eretico, deviato, sabotatore, terrorista, nemico del popolo” (3). In alcuni casi l’NKVD rimandava le sue conclusioni ai dirigenti del PCI, e quindi anche a Togliatti, “che, di suo pugno le vistava di nuovo, approvava il tipo di repressione proposta, rimandando il tutto per l’esecuzione ai funzionari del Comintern” (3). Dalla documentazione riportata negli studi citati appare provato che il PCI ebbe delle precise e gravi responsabilità nell’immane bagno di sangue scatenato da Stalin. Ne fa testo il comportamento di Paolo Robotti, cognato di Togliatti, stabilitosi nell’URSS nel 1931 con la moglie Elena Montagnana, con l’incarico di presidente del circolo degli emigrati politici italiani. Tale circolo doveva costituire un punto di ritrovo e di confidenze degli esuli italiani convenuti dall’Italia o dagli altri stati europei in cerca di una democrazia ideale, ma era stato trasformato da Robotti “su ordine di Togliatti, in una trappola mortale a uso e consumo di vigilanti e delatori” (3). Il controllo e la schedatura erano infatti il primo passo verso il meccanismo giuridico e poi operativo della repressione. La “macchina della delazione” finirà per colpire anche Robotti che nel marzo del 1938 fu arrestato dall’NKVD e liberato dopo 16 mesi di detenzione, nel 1939, solo grazie all’intervento diretto di Georgi Dimitrov, capo dell’esecutivo del Comintern. Secondo Corneli, il 28 dicembre 1934 il Partito Comunista Italiano denunciò, servendosi di diversi giornali europei, 501 antifascisti italiani esuli o latitanti come elementi “sospetti”; non per caso quindi a partire da tale data iniziano le retate dei comunisti italiani in Russia come Guarnaschelli e gli altri di cui si è già accennato.
Le donne arrestate subiscono la stessa sorte degli uomini, e spesso anche peggiore per gli abusi e le violenze sessuali, anche di gruppo, che devono subire. In una relazione del 1941 del responsabile della Sezione Operativa del lager di Sredne-Belskij si legge: “Il 40% dei detenuti dorme su nudi tavolacci, non avendo materassi. Nel campo, fra i detenuti sono diffusi l’ubriachezza, il gioco delle carte, la convivenza con donne detenute. Solo nel primo trimestre del 1941 sono nati in questo lager 34 bambini” (1).
Elodia Manservigi, nata a Pontelagoscuro (Ferrara) nel 1893, si iscrive nel 1921 al PCI insieme al fratello Lino ed al marito Angelo e partecipa al movimento socialista torinese. Il marito espatria clandestinamente in URSS e così il fratello. Arrestata nel 1922 e rilasciata poco dopo, Elodia col figlio Sergio raggiunge i suoi parenti a Mosca nel 1923 dove impara il russo, si iscrive al partito comunista sovietico, studia, lavora, ed entra nel Comitato direttivo della sezione italiana del Club degli emigrati. Morto il marito nel 1927 di tifo, trova impiego come dattilografa ed annunciatrice alla sezione italiana di radio Mosca. Elodia è entusiasta della vita e del benessere che si respira nella Russia comunista, e ne scrive ai parenti nel 1935. Ma dopo l’assassinio di Kirov il tono delle sue missive cambia, forse per l’arresto dei suoi amici italiani, sicuramente per le critiche al fratello Lino che ha ricevuto un biasimo ufficiale nella fabbrica in cui lavora. I membri del PCI della sezione Quadri del Comintern scrivono nel 1937 a proposito di Lino: “nonostante i 14 anni di permanenza in URSS non è forte, politicamente passivo”; verrà arrestato a novembre del 1937. Elodia, saputo che il fratello si trova nel carcere di Taganka tenta invano di incontrarlo e di portargli dei pacchi mai recapitati. Lino sarà fucilato il 14 marzo del 1938 senza che la sorella sappia nulla né della sua fine né del perché dell’uccisione. Elodia è parente di un “nemico del popolo”, e come tale, secondo il decreto dell’NKVD del 15 agosto 1937, è punibile con l’arresto che viene eseguito il 31 ottobre 1940, quando già l’ondata repressiva nell’URSS era rallentata, con l’accusa di propaganda e calunnie antisovietiche. Paolo Robotti e la moglie Elena Montagnana il 28 dicembre del 1940 rincarano la dose delle accuse con le loro deposizioni. La Montagnana scrive: “La Manservigi faceva discorsi antisovietici, affermando che l’NKVD arrestava persone innocenti e anche quando se ne accorgeva, le rilasciava col contagocce nella paura che avrebbero rivelato il trattamento a furia di botte subite negli interrogatori” (3). Nel corso degli interrogatori Elodia respinge decisamente ogni accusa “sino a dichiarare in tono sprezzante di sfida: tutto questo mi fa schifo. Non voglio rispondere….” (4). Elodia viene condannata a 5 anni di detenzione nel lager di Karaganda. Il figlio Sergio, si arruola nell’Armata Rossa e malgrado venga proposto per una decorazione, sarà espulso dall’esercito e poi arrestato come figlio di una nemica del popolo, condannato e inviato nella colonia dell’NKVD di Celjabinsk dove muore il 6 maggio del 1943 non si sa se per malattia o fucilazione. Elodia, scontati i 5 anni di pena, rimane a Karaganda e nel 1954 inoltra la richiesta di riabilitazione dove dichiara senza remore che nell’istruttoria del processo “mi furono contestate accuse molto serie e gravi, che non avevano alcuna prova, infondate” (1). Il certificato di riabilitazione le viene rilasciato nel 1955 e solo allora verrà a conoscenza della sorte del figlio. Rientrata in Italia nel 1956 si rifiuta di raccontare le sue tragiche vicende nella Russia di Stalin, ma forse è convinta a tacere dal PCI che celebra proprio in quell’anno l’entrata dei carri armati sovietici a Budapest. Si spegne nel 1968, il silenzio fu per lei in ogni caso un rifugio psicologico per dimenticare un’esistenza in cui le speranze ed i sogni giovanili erano stati distrutti senza riscatto da una realtà assurda, incomprensibile e spietata.
Emilio Guarnaschelli nasce a Torino nel 1911 in una famiglia di operai comunisti; il fratello maggiore Mario, molto colto e fervente militante, influenzerà decisamente Emilio che si confronterà con lui per tutta la sua breve vita in un epistolario che rimarrà una testimonianza di valore inestimabile. Emilio, a vent’anni, nel 1931, emigra in Belgio, per sfuggire alla dittatura fascista e cercare un lavoro. Legge moltissimo, oltre a Lenin e Marx, anche autori come Anatole France, Puskin, Lermontov, diventando padrone di ben cinque lingue. In Belgio si impegna a soccorrere le vittime del fascismo, ma la sua aspirazione è trasferirsi in URSS, il “paese dove si costruisce il socialismo” per frequentare la scuola leninista e diventare un quadro rivoluzionario. Nel marzo del 1933 Emilio è espulso dal Belgio ed allora, con un biglietto turistico, arriva a Mosca e ne scrive al fratello Mario, rimasto in Italia, con toni entusiasti. Nella prefazione al volume che raccoglie la corrispondenza tra i due fratelli e di Emilio con la giovane moglie Nella Masutti, conosciuta diciassettenne alla fine del 1934, che insieme con Mario salverà perigliosamente tutte le lettere e ne curerà la pubblicazione in Francia nel 1979 e in Italia nel 1982 (6), Alfonso Leonetti scrive che, all’inizio, e precisamente dal 3 maggio 1933 al 26 marzo 1934, per Emilio “è tutto un canto di gioia” e di ammirazione per la nuova patria e per gli slogan della propaganda staliniana sia nei confronti dell’URSS ma più in generale dell’Internazionale Comunista nei paesi europei. Leonetti rileva: “E’, credo, un esempio tipico di come l’inganno può trasformarsi in verità e coinvolgere in tutta onestà se stessi e gli altri”. Ma, a partire dalla lettera del 6 aprile 1934, appare chiaro che Emilio comincia a dubitare del “grande faro del socialismo” che dovrebbe essere la Russia di Stalin, analizzando con estrema lucidità e vis polemica il sistema dispotico instaurato dal dittatore con una serie di critiche che sfociano, nelle ultime lettera da Mosca, prima dell’arresto avvenuto il 2 gennaio del 1935, in aperta e leale opposizione basata su una limpida onestà interiore e quegli ideali di libertà e giustizia per i quali sognava di contribuire con “una piccola pietra”. La lettera successiva all’arresto è datata 6 aprile 1935 ed è spedita da Pinega, uno sperduto villaggio vicino al circolo polare con temperature che scendono fino a 50 gradi sottozero, dove Emilio è confinato con la sua compagna Nella, sposata in cattività, dopo essere stato condannato a tre anni di deportazione “per agitazione e trotzkismo” con un processo che così descrive al fratello Mario nella lettera del 29 maggio 1935: ”Le mie deposizioni furono contraffatte. La mia difesa impedita. Nell’impossibilità assoluta di difendermi. Sentenza senza processo. Ecco la giustizia “di classe”. Ecco il tribunale “proletario” della Russia. Vera concorrenza alle bande di Al Capone” (6). A denunciare per primo Guarnaschelli fu probabilmente il cognato di Togliatti, Mario Montagnana, allora rappresentante del partito presso il comitato esecutivo del Comintern, che nel dicembre del 1934, in un elenco di “controrivoluzionari italiani” da consegnare all’NKVD, definisce Emilio “elemento sospetto”. Il fratello di Emilio, Mario, scrive direttamente al compagno Ercoli, Togliatti, da Torino pregandolo di seguire il caso del fratello in stato di arresto: “…ti prego di interporre i tuoi buoni uffici presso le persone a ciò competenti affinché venga esaminata meglio la questione. Egli, essendo giovane, può essere stato influenzato da qualcuno che ha agito in malafede /…./ Essendo doppiamente interessato come fratello e come compagno, alla buona soluzione di questa faccenda che mi tiene ora in ansia estrema, io mi raccomando vivamente a te d’interessarti di questo e comunque di rispondermi al più presto dicendomi tutta la verità” (6). La lettera non avrà risposta. Emilio è posto in isolamento, calunniato ed oltraggiato, ma non demorde dalle sue critiche anche quando un atto di pentimento ed assunzione di colpe, pur se inesistenti, o di delazioni di potenziali complici, potrebbe alleviare la sua situazione; dice chiaramente che non è disposto “ad andare a Canossa” ed aggiunge “Non mi piego davanti a nessun dio rosso”. Le lettere di questo periodo dimostrano una tensione morale altissima, nonostante i patimenti e la consapevolezza di essere stato abbandonato dai dirigenti del PCI, ed allo stesso tempo evidenziano, in modo inoppugnabile trattandosi di una testimonianza diretta, come tanti politici e letterati “cresciuti all’ombra dello stalinismo, hanno preteso di ignorare tutto fino al momento della denuncia “ufficiale” pronunciata da Kruscev” (Leonetti (6)). La moglie Nella resta con Emilio fino alla nuova condanna del 1936 da parte della commissione straordinaria dell’NKVD a 5 anni di campo di rieducazione alla Kolyma, nell’estremo nord siberiano, poi è trasferita a Mosca e riesce ad espatriare in Francia dove si adopera invano per il rilascio del marito. Il 7 aprile 1938 Emilio subisce un nuovo processo. I capi d’accusa vanno da “membro attivo di organizzazione trotzkista”, ad “azioni di sabotaggio”, “propaganda fascista”, “calunnie nei confronti dei dirigenti della VKP(B) e del governo dell’URSS”, “agente dei servizi segreti”. Per il 27enne torinese, ridotto dagli stenti in condizioni precarie e come tale “inutile” nell’ideologia sovietica anche come semplice forza lavoro, la sentenza è di fucilazione; sarà eseguita il 28 aprile 1938. Alle reiterate richieste di Nella sulla sorte del marito all’ambasciata sovietica, le arriva, nel 1942, la seguente comunicazione: “….le comunichiamo che il cittadino Emilio Guarnaschelli, suddito italiano, è deceduto il 14 aprile 1939 nell’ospedale di Kazan per una peritonite” (7). La solita menzogna; nel 1976 Nella Masutti scrive una dura lettera di accuse al PCI ma non ottiene risposta, riproverà nel 1983 con una richiesta ad Enrico Berlinguer in cui chiede “di fare tutto quello che potete per riabilitare haut e fort mio marito Emilio Guarnaschelli e, con lui, tutti i compagni italiani che sono morti in URSS per colpa dei dirigenti comunisti dell’epoca….” (8). Ma il segretario del PCI non le risponde. Nel 1991, quattro anni prima di morire, Nella si reca a Mosca dove ha modo di consultare gli incartamenti degli archivi del KGB relativi alla fine del marito e verrà finalmente a sapere la verità sulla morte di Emilio e la data ed il luogo dell’esecuzione. Dopo il XX Congresso del PCUS, nel corso del processo di destalinizzazione, Emilio Guarnaschelli verrà riconosciuto innocente e riabilitato.
Il caso di Dante Corneli è simile a quelli di altri comunisti italiani che abbiamo descritto. Lasciata clandestinamente l’Italia a seguito di un conflitto a fuoco dove era rimasto ucciso il segretario del fascio di Tivoli, sua città natale, condannato in contumacia a 20 anni di carcere, giunge in URSS nel 1923 ed a Mosca frequenta la scuola leninista. Finito il corso è inviato a lavorare in una fabbrica a Rostov dove prende la tessera del Partito Comunista Sovietico e viene eletto deputato del Soviet cittadino. Espulso dal partito per simpatie trotzkiste, ne viene riammesso nel 1929 senza però dimenticare la sua “deviazione” politica che gli costerà l’arresto nel 1936. Deportato nel campo di Vorkuta, oltre il circolo polare artico, é liberato il 12 aprile 1946 e assegnato al confino nella città di Kanin Nos. Arrestato nuovamente il 23 febbraio 1949, per appartenenza ad un gruppo trotzkista, è condannato al soggiorno obbligato in Siberia nella regione di Igarka fino al 1956. Desidera tornare in Italia e dopo immani peripezie burocratiche e dinieghi da parte delle autorità sovietiche e italiane, nel maggio del 1965, grazie all’aiuto del senatore Umberto Terracini, riesce a rientrare in Italia dove si stabilirà definitivamente a partire dal 1970. Terracini esorta Corneli a dimenticare il passato per rientrare nel partito, ma riceve un netto rifiuto perché, dice, è tornato per raccontare la vera realtà dell’URSS. Nel 1970 scrive a Rizzoli proponendo un estratto delle sue memorie; come scrive Carioti sul Corriere, “una simile testimonianza diretta sul sistema concentrazionario staliniani e le sue vittime italiane avrebbe avuto un impatto enorme (Arcipelago Gulag di Solgenitsin non era ancora uscito), se adeguatamente valorizzata” (9), ma la lettera non riceve risposta. Ad un successivo tentativo con Mondadori, l’editore risponde che non può, per ragioni editoriali, procedere alla pubblicazione del diario. Deluso ma non domo Corneli rimette mano al suo testo arricchendolo e lo presente nel 1973 a Rusconi, senza però ricevere alcun riscontro. A questo punto, malgrado le sue difficoltà finanziarie, pubblica in proprio quattro libriccini finché, grazie a Terracini , le edizioni La Pietra accettano di editare le memorie riservandosi “aggiustamenti di stile e di esposizione”. Vengono censurate le parti che riguardano le vittime italiane dello stalinismo e le connesse responsabilità dei capi del PCI. Infine, nel 1977, a sue spese, Corneli stampa degli opuscoli in cui vengono chiaramente accusati di complicità nel terrore staliniano diversi dirigenti del PCI tra cui Togliatti, ma questi scritti saranno, nell’indifferenza assoluta, praticamente ignorati dai mass media. D’altra parte, come nota acutamente Gabriele Nissim, in quegli anni “E’ ancora diffusa l’idea che il male prodotto in URSS sia avvenuto in un grande esperimento di bene, volto a portare giustizia ed eguaglianza su questa terra; e questo impedisce di riconoscere come esempio morale chi vi ha resistito” (10) ed infatti, negli anni sessanta del secolo scorso, un filosofo di grande rilievo come Jean Paul Sartre, raccomandava all’intellighenzia comunista di tacere sugli orrori del Gulag per non turbare le speranze progressiste dei lavoratori nella lotta contro il capitalismo.
Degli emigrati o esuli italiani in Russia, su una comunità stimabile al massimo a 4000 persone, circa un migliaio dovettero sopportare, tra il 1920 ed il 1950, qualche forma di repressione, dal confino, alla deportazione fino alla fucilazione che coinvolse circa 200 persone (4). Una cifra esigua rispetto alle vittime del grande terrore soprattutto sovietiche ma anche di altre comunità straniere che ammonterebbero ad almeno un milione di morti, ma una stima precisa di questa strage silenziosa è tuttora mancante; alcuni dati parlano di stime fra i 10 e i 20 milioni di individui nell’era di Stalin, includendo però anche le vittime della collettivizzazione coatta dell’agricoltura, i massacri di contadini ed operai antibolscevichi, le deportazioni forzate etc, come cifra finale delle cosiddette “politiche genocidiarie” del sistema sovietico. Le ricerche continuano particolarmente ad opera del Centro Studi Memorial di Mosca con la pubblicazione dei cosiddetti “libri della memoria” che riportano i profili biografici delle vittime, di cui sono stati già editi 100 volumi. Ancora recentemente, nel 2002, è stata scoperta a Leningrado una delle più grandi fosse comuni dove, tra i circa 30.000 corpi di persone fucilate nel 1937, potrebbero essere sepolti alcuni italiani che vivevano in quella città e di cui si è persa ogni traccia.
Osip Mandelstam, il grande poeta russo morto nel 1938 in un gulag presso Vladivostok, aveva esclamato “Secolo mio, mia belva, chi saprà fissare lo sguardo nelle tue pupille?”, e la sua amica, anche lei perseguitata, Anna Achmatova, autrice della celebre lirica Requiem, darà voce ai deportati: “Per loro ho intessuto un’ampia coltre / Di povere parole, che ho inteso da loro”. E dirà ancora, in un altro verso: “Mi piacerebbe chiamarli tutti per nome”.
(1) R. Caccavale: “Comunisti italiani in Unione Sovietica”. Mursia, 1995
(2) P. Spriano: “ Il compagno Ercoli”. Editori Riuniti, 1980
(3) E. Dundovich, F. Gori: “Italiani nei lager di Stalin”. Laterza, 2006
(4) D. Corneli: “Vorkuta. Un mondo esecrato da Dio e dagli uomini” Tivoli, 1975
(5) G. Lehner, F. Bigazzi: “ Carnefici e vittime. I crimini del PCI in Unione Sovietica”. Oscar Mondadori, 2006
(6) E. Guarnaschelli: “Una piccola pietra”. Garzanti, 1982
(7) F. Bigazzi, G Lehner (a cura di): “Dialoghi del terrore”. Ponte alle Grazie, Firenze, 1991
(8) G. Loteta: “Valeva la pena di conoscerli. Nella Masutti”. Notizie Radicali, 18/03/2014
(9) A. Carioti: “Il testimone (rifiutato) del Gulag”. Corriere della Sera, 14/06/2008
(10) Autori Vari: “Storie di uomini giusti nel Gulag”, introduzione di G.Nissim. Bruno Mondadori, 2004
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