Per dare una dimensione storica degli eventi non si può fare a meno di una riproduzione per immagini che imprime qualitativamente e più realmente ciò che qualsiasi altro documento potrebbe dissolvere o quanto una narrazione di per sé non “emancipa”. In ultima analisi: la fotografia cristallizza la Storia di un evento.
L’analisi della scena del crimine è una tappa fondamentale delle indagini che nella maggior parte dei casi diventa determinante per la risoluzione del caso stesso e per concederne la giusta punibilità all’autore o agli autori-esecutori di esso, in stretta connessione sempre della ricerca della verità storica tendente ad una verità poi processuale. Molto spesso viene denunciata l’impreparazione del personale nel portare avanti questa attività e principalmente degli ufficiali di polizia giudiziaria che per primi giungono sulla scena del crimine: è d’importanza fondamentale riuscire ad isolarla e non intaccare alcuna prova. Proprio per questa sua rilevanza occorre adottare tutta una serie di regole per un corretto intervento sulla scena del crimine, e sulla sua analisi, poiché si commettono ancora oggi errori marchiani, per la frettolosità, a volte l’inesperienza, o una finta intuizione. Cadaveri spostati, impronte sovrapposte, nodi sciolti, mozziconi di sigarette abbandonati. Trattasi di errori dovuti prevalentemente all’inesperienza, ma basterebbe studiare in merito o leggersi un buon giallo per saperli evitare». Oggi la legge in Italia non prevede l’individuazione del cosiddetto “Responsabile della scena del crimine”: ossia di una figura istituzionale che si faccia carico di conservare il più intatto ed incontaminato possibile l’ambiente interessato da un delitto. Eppure la conservazione ottimale del luogo del delitto è una componente indispensabile per raccogliere prove non “corrotte o inquinate”, utili ai fini delle indagini. Un reperto degradato, mal conservato, contaminato da agenti esterni non potrà mai rivelarsi decisivo in sede dibattimentale come anche un ricordo non impresso può tracciare segni sulla difficoltà o le anomalie trovate o intervenute; il sopralluogo sul posto in cui si è verificato il fatto oggetto dell’indagine, rappresenta, per il suo carattere di immediatezza, una delle fasi più importanti per indagini preliminari, in cui è possibile acquisire elementi spesso risolutivi la ricostruzione precisa e le modalità in cui un determinato accadimento di interesse giudiziario si è svolto. La scena del crimine è l’insieme dei luoghi dove si è consumato un reato e/o dove è possibile repertare tracce a fini probatori. La ricostruzione di una “scena” per arrivare a stabilire cosa vi sia successo e chi sia la persona responsabile, si caratterizza come un’attività di tipo diretto, sul luogo attraverso riprese, foto durante la fase di sopralluogo, e come una attività di tipo indiretto che si basa su un processo di analisi critica finalizzato alla ricerca di tracce tipiche e particolari della scena del crimine. È, quindi, quell’area all’interno della quale si è mosso e ha agito il criminale nel momento dell’esecuzione del crimine. La sfida è trovare le tracce che ha lasciato e poter così ricostruire gli eventi cercando di trarre indizi utili all’indagine. Investigatori e consulenti-periti e personale qualificato cercano di conoscere: Where and what, dove e cosa è successo, e una risposta è possibile arrivando sul luogo del delitto, documentando ogni cosa con apparecchi da ripresa sempre più sofisticati, raccogliendo tutte le informazioni e le tracce lasciate dall’omicida. Prima di ogni altra cosa occorre però conoscere (Who) l’identità della vittima, poiché é da qui che scattano le indagini che porteranno poi a scoprire “chi” è il criminale che ha colpito. – Where, quando. Se non ci sono testimoni diretti, allora sarà il cadavere ad essere interrogato. E racconterà, attraverso le sue trasformazioni, a quando risale il momento del decesso. Il modo in cui la vittima è morta, i mezzi che l’assassino ha utilizzato. Armi bianche, armi da fuoco, veleni o droghe. What. Ma perché si uccide?. Si uccide per passione, per denaro, per vendetta; talvolta per un banale litigio. In ogni caso un motivo c’è sempre, e quando il perché lascia una normalità anche drammatica e si insinua nelle pieghe della perversione, ecco che tocca agli psichiatri forensi, gli investigatori della follia omicida prendere in esame il caso. Un legame tra il criminale e la sua vittima esiste sempre, e proprio da questa semplice constatazione inizia il lavoro di un investigatore, un professionista che si muove applicando soprattutto i metodi delle scienze naturali che prevedono le fasi di analisi dell’elemento sconosciuto, di confronto con elementi già noti e di valutazione dei risultati in vista di un obiettivo. In particolar modo preme approfondire in tale scenario di conoscenza la fotografia giudiziaria: uno degli strumenti se vogliamo più affascinanti per il racconto che se ne trae dai soggetti e oggetti che parlano di un percorso di vita e disavventure che la riguardano. La fotografia ha una data di nascita ufficiale: il 9 luglio 1839, quando al procedimento fotografico di Louis Jacque Mandè Daguerre (1787-1851), scenografo e creatore di diorami, viene concesso il brevetto dall’Accademia delle Scienze di Parigi. Il suo socio (un autentico “scienziato”) Joseph Nicéphore Niepce (1765-1833), che già negli anni Venti aveva prodotto diverse eliografie, muore prima di vedere questo riconoscimento. Nasce così il ‘dagherrotipo’. Trattasi di una lastra rivestita d’argento che, esposta ai vapori dello iodio (ioduro d’argento), messa in camera oscura e posizionata davanti al soggetto da riprendere, dopo una posa decisamente lunga e un lavaggio in sale marino e mercurio (per eliminare ogni residuo di ioduro d’argento che potesse continuare a scurirsi), mostra un’immagine speculare dell’oggetto ripreso. Di una nitidezza e lucentezza sconvolgente per l’epoca, questa tecnica rivoluziona il mondo del ritratto, ora alla portata di tutti, e della memoria familiare e collettiva. Rivela inoltre all’uomo la sua pochezza nell’ osservazione diretta della natura, minando il suo senso di assoluto. Il dagherrotipo è un unicum, da cui è impossibile ricavare delle copie. Più o meno negli stessi anni, in Inghilterra, William Henry Fox Talbot (1801-1877) fa esperimenti trattando fogli di carta con nitrato d’argento e poi applicandoci sopra degli oggetti (foglie, pizzi, etc.) ed esponendoli alla luce; ne derivano immagini negative definite “disegni fotogenici” che vengono lavati in un bagno di fissaggio con sale da cucina. Questi sono poi usati come negativi, posti a contatto con altri fogli sensibilizzati ed esposti alla luce anche per un paio di ore. L’uso protratto, però, li rende illeggibili in breve tempo; si deve allo scienziato Sir John F.W. Herschel (1738-1822) l’invenzione del bagno di fissaggio definitivo: l’iposolfito di sodio, usato ancora oggi. Nel 1841 Talbot perfeziona la sua tecnica lasciando esposti alla luce i fogli per poco tempo e “sviluppando” poi, con bagni chimici, l’immagine latente creando i primi negativi su carta: i calotipi , che vengono usati per creare positivi per contatto. Tutta la stampa del periodo avviene per contatto e non per proiezione così il positivo ha sempre le stesse dimensioni del negativo. ll termine fotografia deriva quindi dalla congiunzione di due parole greche: luce (φῶς phôs) e grafia (γραφή| graphé), per cui Fotografia significa “scrittura di luce”. La fotografia è opera della luce e nasce infatti da un principio fisico chiamato diffrazione, che è una sua proprietà caratteristica. La camera oscura e l’obiettivo stenopeico formano il sistema più semplice ed elementare della macchina fotografica che racchiude in sé tutti i principi fisici coinvolti in questa tecnologia. Naturalmente sono stati necessari i risultati ottenuti sia nel campo dell’ottica, sia in quello della chimica e lo studio delle sostanze fotosensibili. La prima’camera oscura’ venne realizzata molto prima che si riuscissero a trovare sostanze chimiche utili per fissare l’immagine ottica in essa proiettata. Il primo ad utilizzarla in ambito fotografico fu il francese Joseph Nicéphore Niépce, cui convenzionalmente viene attribuita l’invenzione della fotografia, anche se studi recenti rivelano tentativi precedenti, come quello di Thomas Wedgwood. La fotografia, altro non è che un procedimento il quale, mediante processi chimico-fisici o digitali, permette di ottenere, servendosi di una macchina fotografica, l’immagine di persone, oggetti, strutture, situazioni su lastre, carte chimicamente preparate o su supporti magnetici. A seconda dei materiali impiegati e del risultato ottenuto, si distinguono la foto in bianco e nero, in cui le differenze di colore e di luminosità del soggetto ripreso sono rese con sfumature più o meno intense di grigio, e la foto. a colori, in cui l’immagine è riprodotta mantenendo anche le naturali differenze esistenti fra i colori del soggetto. Sia la f. a colori sia quella in bianco e nero trovano importanti applicazioni professionali nel reportage, nel giornalismo, nei campi della moda e della pubblicità, nel campo artistico per ritratti ecc., oltre che in numerose applicazioni scientifiche (in spettrografia, nella f. con raggi X, in astronomia ecc.) e tecniche (in fotogrammetria, in fotomeccanica ecc. (così in termine: Fotografia, in Treccani della lingua italiana, 2019) La fotografia ci parla allora del bisogno umano per eccellenza: il riconoscimento altrui, il bisogno dell’altro, il memorizzare un vissuto o quanto non si è potuto conoscere. Non a caso proprio la fotografia rappresenta anche uno degli strumenti più efficaci di comunicazione. Ed è una comunicazione particolare quella fotografica, fatta di simboli e metafore, e diretta alla sfera emotiva più che a quella razionale e verbale. Le fotografie possono così essere un trampolino di lancio per tutti coloro che attraverso le parole non riescono a entrare in rapporto con sé stessi e con l’altro. In medicina la fotografia è di supporto a soggetti con diagnosi di autismo, sindrome di Asperger, psicosi, disturbi psicosomatici, ma anche soggetti impegnati nell’elaborazione di un lutto, di un trauma, o più semplicemente tutti i bambini (che prediligono senza dubbio la comunicazione non verbale) e quegli adolescenti ed adulti inseriti in un percorso di conoscenza e crescita interiore, possono quindi decisamente utilizzare la fotografia come un canale privilegiato per comunicare a sé stessi e agli altri chi si è, quali emozioni si attraversano, quali pensieri, traendone importanti benefici. Si sostiene: “Ogni criminale lascia una traccia di sé sulla scena del crimine e porta via su di sé una traccia”
Criminologo francese, Edmond Locard (1877-1966) è stato il fondatore nel 1910 del primo laboratorio di medicina legale a Lione, nonché il padre delle scienze forensi di competenza della Polizia Francese (attuale Interpol). Assistente ed allievo di Alexandre Lacassagne introdusse le impronte digitali a Lione, collaborando con Alphonse Bertillon e creando le basi del laboratorio di Polizia. Scrisse il “Trattato della Polizia Scientifica” composto da 7 Volumi che rappresentano le fondamenta delle indagini scientifiche seguite ancora oggi. Alla base delle indagini sulla scena del crimine Locard ha racchiuso le sue ricerche nel principio dell’interscambio: “Ogni criminale lascia una traccia di se sulla scena del crimine e porta via su di se una traccia”
L’esempio che meglio fa chiarire il concetto è la classica impronta sulla sabbia.
Quando sulla sabbia viene lasciata un’impronta di una scarpa (spesso identificativa) sulla stessa scarpa rimango i granelli di quella sabbia. Tutte le procedure di analisi di una scena del crimine sono state elaborate per poter garantire la minore contaminazione della scena.
E’ importante che ciò non avvenga in quanto il principio dell’interscambio non è riservato solamente agli autori degli atti delittuosi, bensì ad ognuno che entra in una scena del crimine.
Operatori di primo intervento, Medici, addetti alla repertazione delle prove, investigatori, forze dell’ordine. Chiunque di questi prende qualcosa e lascia qualcosa dalla scena. Per questo è di fondamentale importanza il congelamento del luogo del delitto. Quale mezzo meglio di una immagine fedele può congelare un accaduto, un momento, un evento.
La fotografia, in sostanza, è entrata da oltre un secolo nelle attività di indagine e documentazione dei crimini (spesso utilizzata nei casi di omicidi). Reiss fu il primo grande studioso e docente universitario in grado di stabilire principi operativi e regole di elaborazione utili per poter poi sfruttare in un secondo momento (per scopi forensi) le immagini prodotte sui luoghi dei delitti.
Una figura maschile, ben vestita. Giacca, cravatta, calze di lana pesanti. Le braccia lungo il corpo, capelli in ordine, occhi chiusi. È il cadavere di un uomo o un individuo dormiente? Niente di tutto ciò. Si tratta di quella che può essere considerata una messa in scena a scopo scientifico-giudiziario, orchestrata per dimostrare l’efficacia del metodo della cosiddetta “fotografia metrica” di Bertillon. Autore dello scatto, realizzato nel 1925, è Rudolph A. Reiss, docente dell’Università di Losanna, caposcuola della disciplina denominata “scienze forensi”, criminologo e fotografo. La fotografia, in sostanza, è entrata da oltre un secolo nelle attività di indagine e documentazione dei crimini (spesso utilizzata nei casi di omicidi). Reiss fu il primo grande studioso e docente universitario in grado di stabilire principi operativi e regole di elaborazione utili per poter poi sfruttare in un secondo momento (per scopi forensi) le immagini prodotte sui luoghi dei delitti. Colpisce, a esempio, come Reiss avesse elaborato un sistema di riprese in successione, che possedeva le caratteristiche tipiche del cosiddetto “decoupage classico hollywoodiano”, secondo il quale fosse necessario procedere, al momento dei rilievi fotografici di un reato, in modo progressivo, e logico, da un piano ampio (in grado di descrivere la scena in modo compiuto) fino a inquadrature più strette sui dettagli, ovvero sulle tracce da esaminare.
Siamo nel 1839, ed è un dagherrotipo a riprodurre uno scorcio di Parigi: in basso a sinistra, quasi nell’angolo, appare un uomo. È un immagine fondamentale perché, per la prima volta, un nostro simile veniva fotografato. Forse, di lui, non si era neppure accorto il fotografo, Louis Daguerre, e di certo neanche il soggetto si rese conto di quanto accadeva intorno a lui o si potesse riprodurre della sua persona. Anonimo, con l’immagine del volto sfocato ed il corpo lievemente mosso. E così, in modo del tutto involontario, non cercato e forse senza interesse, l’uomo entrava nella storia della rappresentazione determinandone una nuova e rivoluzionaria fase. Il 9 agosto del 1839, lo scienziato Louis Arago comunicò all’Accademia della Scienza di Parigi, l’invenzione della tecnica messa a punto da Louis Daguerre. Arago, comprese immediatamente il ruolo decisivo che la tecnica fotografica, ancora arcaica, avrebbe avuto nelle scienze umane. Infatti, il fisiognomico Lombroso trovò nella fotografia un sistema identificativo che consentiva di raccogliere una galleria di ritratti destinati a diventare modelli di riferimento per gli studiosi di antropologia criminale, ma, allo stesso tempo, quelle immagini diedero inizio ad una schedatura dei soggetti considerati socialmente pericolosi. Chiarissima la precisazione del fondatore dell’antropologia criminale “Nessuno dovrebbe dimettersi dal carcere senza esser mai stato fotografato, e la sua fotografia insieme con la sua storia dovrebbe esser spedita alla questura del suo paese ed ad un ufficio centrale di questura nella capitale.” L’osservazione lombrosiana risulta in perfetta sintonia con i principi metodologici del positivismo, che trovò nella fotografia un utile strumento di ricerca, considerato fonte di inoppugnabile oggettività. Ed è su questa scia che si pone la schedatura proposta da Alphonse Bertillon (1853-1914), cancelliere di Parigi, che cercò di risolvere con metodo il problema dell’identificazione dei criminali recidivi. Spesso infatti, i delinquenti che evadevano di prigione o che si sottraevano alla giustizia, tentavano di mascherare la propria identità cambiando nome e praticando mutilazioni sul proprio corpo, tali da confondere gli inquirenti. Per cercare di opporsi a tale problematica, già nel 1874, Parigi si dotò di un servizio fotografico che condusse così alla realizzazione del primo schedario segnaletico della storia dell’investigazione criminale. Umberto Ellero, invece, che ebbe un ruolo primario nell’affermazione della Polizia scientifica italiana, va soprattutto ricordato come il maggiore sostenitore e studioso della fotografia giudiziaria, nel periodo compreso tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Ricordiamo, che, la prima fotografia segnaletica italiana fu probabilmente quella raffigurante Giuseppe Garibaldi, diffusa dalla polizia del Regno di Napoli nei porti e posti di polizia il 3 maggio 1860, nei giorni antecedenti la spedizione dei Mille. La fiducia, dimostrata da Ellero per il suo sistema di identificazione, si evince nel libro “La fotografia nelle funzioni di polizia e processuali”, in cui si propone un metodo fotografico multiplo. Gli strumenti che permettevano la ripresa totale erano le cosiddette “Gemelle di Ellero”: due macchine fotografiche sincronizzate per la posa contemporanea del soggetto di fronte e di profilo ( in casi in cui non si disponeva di due macchine si poneva uno specchio a 45 gradi sulla spalla del soggetto). All’inizio del XX secolo, le “Gemelle di Ellero” entrarono a far parte del corredo giudiziario della Polizia italiana e furono applicate, certamente sulla spinta dell’antropologia criminale lombrosiana, anche in numerosi manicomi. In una causa, civile o penale che sia, non conta chi ha ragione, ma chi riesce a dimostrare la propria ragione. “Carta canta” recita un detto popolare che riassume, con incredibile precisione, l’essenza stessa dei processi: ogni procedimento davanti a un giudice non può che essere fondato sulla prova e non sulle dichiarazioni delle parti. Se c’è la prova di un diritto, quel diritto esiste; se invece non c’è, quel diritto è come se non esistesse e, di conseguenza, non può neanche essere tutelato (nonostante il magistrato lo ritenga ingiusto). Per vincere un processo, quindi, non è necessario affannarsi a convincere “a parole” il tribunale, ma bisogna andare “ai fatti-evento”. Ma quali sono le prove? Indubbiamente la prova regina del processo sono i documenti. I contratti, le fatture, lo scambio di corrispondenza, la documentazione medica, le dichiarazioni sottoscritte dal debitore rappresentano, spesso e volentieri, fatti oggettivi non legati a ricordi o valutazioni di tipo personale.
Facciamo un esempio pratico: un conto è dimostrare attraverso testimoni che in un incidente stradale l’urto dei veicoli è avvenuto a causa dell’invasione di corsia da parte di una vettura proveniente dal senso opposto, un altro è invece dimostrare l’accaduto attraverso alcune foto effettuate con il proprio smartphone nell’immediatezza dei fatti in base alla posizione dei veicoli dopo la collisione. La fotografia si presta a ben poche incertezze, mentre la testimonianza, soprattutto se sono trascorsi molti anni dai fatti, può essere sempre imprecisa e offuscata dal passare del tempo. Tuttavia, c’è anche un discorso pratico: la fotografia è una prova che viene acquisita non in presenza del giudice (quindi senza alcuna garanzia legale); peraltro, rimanendo nella disponibilità di chi l’ha eseguita, essa si può prestare ad alterazioni o “falsificazioni”. Non è solo il caso del photoediting che, con l’ausilio di particolari software, oggi può essere riconosciuto, ma del fatto che la foto non dice con esattezza il momento o il luogo in cui è stata scattata. Per esempio: se una foto vuol dimostrare l’avvio di alcuni lavori edili non è in grado di consegnare la prova del giorno esatto in cui questi sono partiti; se un datore di lavoro ha scattato le foto di un dipendente che, durante la malattia, è uscito con gli amici come può provare che dette foto si riferiscono proprio a quel periodo e non a un altro? Proprio per questo le fotografie, al pari dei testimoni, vengono guardate con una certa prudenza. Prudenza che, tuttavia, è differente a seconda che si tratti di una causa civile o penale.
Ricordiamo inoltre, che per mezzo della fotografia si possono carpire un certo numero di informazioni inerenti persone e diritti gravitanti sulle persone che, possono condizionare tutta una serie di scelte professionali, comportamentali, economiche, sociali che avrebbero preso altre pieghe se mantenute nel giusto “appezzamento” del riserbo privato con il conseguente ed inevitabile diritto postumo all’oblio. Ed in questi termini è bene ricordare una norma specifica di carattere e natura penalistica ma di indubbio valore sociale che rimane valevole nella sua portata e vigenza finanche sulle persone defunte. Recita infatti il seguente articolo penale:
“Art. 615 bis del codice penale. Interferenze illecite nella vita privata”. Chiunque mediante l’uso di strumenti di ripresa visiva o sonora, si procura indebitamente notizie o immagini attinenti alla vita privata svolgentesi nei luoghi indicati nell’articolo 614 (domicilio privato), è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni.Alla stessa pena soggiace, salvo che il fatto costituisca più grave reato, chi rivela o diffonde, mediante qualsiasi mezzo di informazione al pubblico, le notizie o le immagini ottenute nei modi indicati nella prima parte di questo articolo. I delitti sono punibili a querela della persona offesa; tuttavia si procede d’ufficio e la pena è della reclusione da uno a cinque anni se il fatto è commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio, con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti alla funzione o servizio, o da chi esercita anche abusivamente la professione di investigatore privato.
In riferimento ai dati sensibili possiamo rilevare che:
Il diritto alla riservatezza si estingue con la morte del titolare. Sopravvive comunque una forma di tutela dei dati sensibili – come altre forme di tutela – anche dopo la morte, ma nelle forme specifiche previste dall’art. 9, Cod. Privacy, che individua puntualmente gli interessi che possono bilanciare gli interessi di terzi ad accedere ai dati personali: la tutela del defunto e ragioni familiari meritevoli di protezione (così come afferma il Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 12/06/2012 n° 3459). In particolare – alla stregua della disciplina generale del diritto di accesso con particolare riferimento alla qualificazione dell’interesse secondo la precisa definizione dell’art. 22, co. 1, lett. b), della L. n. 241/1990 – la richiesta di accesso avanzata dai beneficiari del testamento olografo redatto dal defunto e successivamente revocato è legittima. Infatti l’interesse sottostante risulta un interesse diretto, qualificato, concreto e attuale, in quanto rivolto ad ottenere informazioni utili ad agire in giudizio a tutela di loro diritti, la cui fondatezza non deve essere valutata ai fini dell’accesso e di conseguenza, esso costituisce interesse proprio tutelabile ai sensi dell’art. 9 del codice per la protezione dei dati personali. (*) Scattata una “panoramica” sulla fotografia in ambito giudiziario è bene concludere con un focus di quanto sia permettibile nell’ambito trattato, e questo è consolidato sempre in ambito legislativo. La legislazione in tema di privacy permette di prescindere dal consenso dell’interessato quando il trattamento dei dati sia necessario per far valere o difendere un diritto in giudizio, pur se tali dati non riguardino una parte del giudizio in cui la produzione viene eseguita: unica condizione richiesta è che la produzione sia pertinente alla tesi difensiva e non eccedente le sue finalità; che sia cioè utilizzata esclusivamente nei limiti di quanto necessario al legittimo ed equilibrato esercizio della propria difesa. (1)
Bibliografia e Riferimenti:
(*) Riferimenti normativi: art. 9, D. Lgs. 30 giugno 2003, n. 196; art. 22, co. 1, lett. b), L. 7 agosto 1990, n. 241.
(Fonte: Massimario.it – 40/2012. Cfr. nota su Altalex Mese – Schede di Giurisprudenza)
(1)Corte di Cassazione,sez. III Civile, sentenza 25 febbraio 4 aprile 2014, n. 7783.
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