La bibliografia su Salvatore Giuliano è decisamente copiosa. Di lui si è scritto tutto e il contrario di tutto, fino a farlo diventare una sorta di Robin Hood nel celebre film diretto da Michael Cimino, in una versione un po’ troppo romanzata e romantica.
Giuliano, per gli amici intimi “Turiddu” (1922-1950), fu un prodotto tipico della Sicilia del dopoguerra, la cui figura va necessariamente inserita in un quadro di ben più ampio respiro, dove non mancano certo nomi importanti ed eccellenti. Una meravigliosa regione, dalle caratteristiche particolari, adatta a che le motivazioni sociopolitiche del banditismo attecchissero profondamente; terra di brava gente, ma anche di criminalità organizzata e “uomini d’onore”, dove le leggi più rispettate sono quelle non scritte.
Studiosi e storici hanno indagato a lungo sul banditismo, soprattutto su quello post-seconda guerra mondiale, arrivando a conclusioni, intuizioni e a nuove tracce, strappate a stento dal profondo sacco dell’omertà dei pochi testimoni dell’epoca ancora in vita, che portano a una rielaborazione del ruolo avuto da forze dell’ordine, cittadini, esponenti della mafia e della politica, spie e confidenti.
Quali sono, oggi, gli elementi per fare luce su questo periodo? La Sicilia del dopoguerra fu caratterizzata da un ritorno in grande stile della mafia, i cui principali esponenti si erano trasferiti negli Stati Uniti dopo “il ciclone Cesare Mori”, e rientrati in patria grazie alla operazione “Underworld” dei servizi segreti alleati per lo sbarco del 10 luglio ’43, detto in codice operazione “Husky”, e all’intelligenza di colui che ne era il vertice, Charlie “Lucky” Luciano e altri collaboratori del calibro di Vito Genovese, Charles Poletti, e a una compiacente amministrazione militare americana.
Salvatore Giuliano non aveva un buon rapporto con i “padrini”, in particolare perché si servivano di lui senza scrupolo alcuno, manovrandolo nello scenario dominato dalla lotta politica fra DC e PCI. Di elementi nuovi certo ne esistono, ma a monte di tutto, il problema è il Segreto di Stato sulla relativa documentazione, che ancora oggi è in vigore.
Segreto o non segreto, la vicenda Giuliano rimane decisamente molto articolata e complessa, ed è fin tropo facile esprimere giudizi superficiali.
I richiami sono numerosi. Nell’agosto 1996, su “Il Giornale di Sicilia” uscì un lungo articolo, a firma di Salvatore Pantaleone, sulla strage di Portella della Ginestra (1 maggio 1947), episodio strettamente collegato al bandito Giuliano, al quale ne venne addossata la responsabilità, e quindi la morte di 11 persone, ma l’analisi, per altro approfondita e professionale, si limitava a ipotesi e considerazioni.
Anche Giuseppe Mazzola (originario di Montelepre) scrisse di banditismo, mafia e politica: alla fine del secondo conflitto era appena adolescente, e il padre svolgeva la professione di amministratore delle tenute Zucco (appartenenti alla principessa Mantegna di Ganci). Mazzola è convinto che, ancora oggi, ci siano poche persone che hanno il quadro generale della vicenda, mentre la maggioranza ignora la realtà che sta dietro le quinte di quel giorno della Festa del Lavoro 1947.
Lo scenario del dramma
Nel presentare le ragioni per cui la fama di Salvatore Giuliano oltrepassò i confini nazionali, Mazzola offre se non altro una nuova chiave di lettura sui perché il banditismo della zona di Montelepre fu un fenomeno singolare, che si è sviluppato per diversi anni nonostante il predominio della mafia e degli intrecci fra mafia e politica, che trovavano terreno fertile nella diffusa ignoranza e buona fede della popolazione.
Nello stesso 1996, il professor Mazzola dichiarò a “Il Faro”, quotidiano di Trapani: “Salvatore Giuliano aveva stretto un’alleanza elettorale con il comunista Girolamo Li Causi, in sostegno di Nino Varvaro, esponente del MIS (Movimento Indipendentista Siciliano). I risultati evidenziarono la presa in giro, da parte di Li Causi nei confronti di Giuliano, il quale pensò di vendicarsi, che doveva servire anche agli altri dirigenti comunisti. Progettò un sequestro proprio il 1 Maggio, perché la notizia avrebbe avuto maggiore richiamo. Gli ordini che Giuliano impartì ai suoi furono molto chiari: sparare in aria, creare spavento e confusione, quindi approfittare di ciò per rapire Li Causi. Le cose andarono diversamente: sembra che Giuseppe Passatempo, maneggiando una mitragliatrice, sparò ad altezza uomo. A peggiorare la situazione, Girolamo Li Causi, avvertito in anticipo, non si trovava a Portella, né inviò alcun sostituto o portavoce. Allo stesso modo, i sindaci di S.Giuseppe Jato e Piana Albanesi avevano accuratamente evitato di presenziare”.
Naturalmente, la strage di Portella offrì un appetitoso strumento al quale i politici di allora, sia regionali che nazionali, non potevano rinunciare. Né è possibile ancora oggi affermare, con assoluta certezza, chi di questi esponenti politici fosse il mandante, o chi muoveva i fili. Un’analisi approfondita è comunque possibile, partendo dal canonico quesito “Cui Prodest?”, ma quasi certamente si finirebbe in mezzo a un labirinto pieno di vicoli ciechi e trabocchetti, in assenza di quelle tessere del mosaico che sono ancora coperte da “segreto”.
Gli elementi certi, comunque, ci sono, a cominciare da una Democrazia Cristiana che aveva in mano saldamente il governo del Paese, con la presidenza del Consiglio e diversi ministri ai posti chiave, in particolare al controllo dei servizi d’informazione, a loro volta collegati alla CIA e non solo, nonché a diverse aziende, industrie, e associazioni di categoria (soprattutto gli Agrari, che in Sicilia erano spesso il tramite con la mafia). Questa prima traccia fa comprendere che, vista la situazione, i vertici della mafia erano ben informati sulle attività della DC in Sicilia e, naturalmente, sui movimenti di Giuliano.
A questo punto, può apparire un controsenso il fatto che la mafia, da un lato, avesse avvallato, il rapimento Li Causi e la successiva strage, mentre al tempo stesso, avesse avvertito i principali dirigenti del PCI, i quali non si presentarono, ma lasciarono che a Portella si riunisse molta gente, nonostante i propositi criminali.
La mafia, dopo avere appoggiato le forze antifasciste, fra cui i comunisti, nella lotta di liberazione dell’Isola dai nazifascisti e nello sforzo di riorganizzarsi per riprendere il pieno controllo sul territorio, doveva necessariamente apparire disponibile a collaborare con le forze che sarebbero andate al potere. Nel 1947 nessuno, infatti, avrebbe scommesso su una sconfitta dei comunisti del Blocco del Popolo, e allora fu necessario preparare il terreno in tempo utile per non inimicarsi i probabili vincitori.
Ancora oggi, date le limitate informazioni, pubblico e lettori sono divisi fra colpevolisti e innocentisti: Salvatore Giuliano fu o no responsabile della strage di Portella? Dati storici e deduzioni logiche porterebbero alla assoluzione, poiché pare che la strage sia stata voluta e decisa molto “in alto”, ed ebbe l’effetto sperato. Salvatore Giuliano incarnava l’ideale capro espiatorio. Le indagini furono pilotate fin dai primi momenti, da quando i carabinieri, intervenuti sul luogo, raccolsero circa 800 bossoli di arma da fuoco automatica, mentre sembra che diverse altre centinaia furono fatti sparire, perché alcune testimonianze affermano che gli spari provenivano da più direzioni, e non solo da quella dove si trovava la banda di “Turiddu”.
Da quel giorno, ovviamente, i rapporti tra Giuliano e Giuseppe Passatempo si guastarono irrimediabilmente. Giuliano lo rimproverò energicamente, perché sentì tutta la responsabilità di un atto che neanche lontanamente aveva pensato. Passatempo, da parte sua, mal sopportò la reazione di Giuliano, il quale avrebbe voluto punire con la morte la disobbedienza. Fu per l’intervento del fratello Salvatore Passatempo, e di altri, che “Turiddu” alla fine cambiò idra, e per intercessione di Antonino Terranova, la storia non finì lì. Da questo traspare un’immagine di Giuliano non così cavalleresca come quella voluta dalla propaganda, e anzi, addirittura un uomo facilmente influenzabile, per non dire “debole”, ma con un carattere che lo faceva reagire ai soprusi e alle ingiustizie in modo inusuale, ma da riconsiderare attentamente per il periodo in questione. Purtroppo per lui, Giuliano (come la maggiore parte dei ragazzi della sua età) non aveva ricevuto istruzione, né aveva accumulato sufficiente esperienza, e in sostanza non aveva gli strumenti per capire di essere stato strumentalizzato da “quelli che contavano”, i cui nomi non sarebbero stati rivelati neanche dal cugino, Gaspare Pisciotta (1924-1954), passato alla cronaca come traditore di “Turiddu”, morto avvelenato in carcere e che in verità non era neppure cugino. Di certo la reputazione di inafferrabile bandito, mosso da desiderio di vendetta per essere stato ingannato da un colonnello dell’esercito americano (che lo aveva illuso sulla certa separazione della Sicilia dall’Italia, secondo accordi presi dai governi alleati) ha giocato a suo sfavore, come la incolmabile mancanza di cultura politica, nel comprendere l’atteggiamento dello Stato, da molti considerato non solo “assente” ma addirittura nemico di tanta povera gente, che in gran parte vedeva nel programma del Movimento Indipendentista un’occasione di rivalsa.
Alcuni storici parlano anche di una alleanza segreta fra i vertici del MIS e la mafia, ma anche questo è uno degli aspetti ancora coperti dal mistero. Si in effetti ci fu questa alleanza, perché i vertici dl Cosa Nostra, interessati e ben disposti a un eventuale distacco dell’isola dal resto del Paese, voltarono la faccia al MIS e si riavvicinarono allo Stato?
A questa domanda, è possibile rispondere: il MIS si era rivelato per ciò che era realmente, ovvero nulla di più che apparenza senza fondamento. Alla mafia non serviva più, dal momento che erano necessari alleati più forti e influenti. Se poi si considera che gli Agrari erano classe dirigente e, al tempo stesso, esponenti mafiosi, è facile intuire come sia stato naturale l’abbandono del credo separatista.
Il memoriale scomparso
Ancora misteri, quindi, sulla morte del bandito e sulla strage di Portella, e ancora misteri sulla scomparsa di un elemento sostanziale, che avrebbe potuto svelare molti aspetti oscuri: il memoriale di Salvatore Giuliano.
Sembra che ad aiutare Giuliano a scrivere il memoriale sia stato un avvocato che lo consegnò a un altro avvocato. Che fine abbia fatto il vero memoriale nessuno è mai riuscito a scoprirlo. Quello che possiamo dire è che di memoriali ne sono stati fatti circolare più d’uno, ovviamente a scopo di depistaggio e quindi per nascondere la verità.
Ma procediamo con ordine, iniziando a ripercorrere a ritroso alcuni passaggi degli atti della prima Commissione d’Inchiesta sulla mafia, la Commissione Antimafia che si insediò nel 1962 per concludere i lavori nel 1976.
Analizzando i fatti, e soprattutto le omissioni che caratterizzarono i lavori della Commissione Antimafia negli anni ’60-’70, alcuni elementi, rivisti alla luce delle tesi di Casarrubea, si presentano sotto una nuova luce, così come le parole scritte dal giornalista Pietro Zullino nel libro “Guida ai piaceri e misteri di Palermo”.
Raccontando il caso Giuliano, che l’autore definisce “L’intrigo fondamentale”, si capisce che, venti-venticinque anni dopo il ritrovamento del cadavere a Castelvetrano, c’era chi teneva in scacco una parte della politica italiana.
Qui il discorso si complica, perché un conto è pensare a un memoriale scritto da un Salvatore Giuliano ammazzato a Castelvetrano, mentre è ben diverso pensare a un memoriale scritto da una persona che sapeva tante cose, per averle vissute di persona.
Con l’ipotesi di Giuliano vivo negli Stati Uniti, andrebbe riletta in modo diverso anche la lunga scia di delitti che insanguinò la Sicilia fra gli anni ’50 e ’70, se non altro perché a morire furono anche personaggi che vissero in prima persona la vicenda.
Il fatto che gli archivi degli Interni non siano mai stati aperti dice che centrosinistra e centrodestra non hanno mai avuto voglia di fare chiarezza su questa storia.
Gli esponenti del Movimento Sociale Italiano si sono vantati di essere sempre stati immuni dal fenomeno mafioso, e di essere stati intransigenti nella prima Commissione Antimafia e nelle successive Commissioni Parlamentari che si sono occupate di mafia.
I fatti, però, smentiscono questa affermazione, se è vero che Cesare Mori, il “Prefetto di ferro”, mandato in Sicilia da Mussolini per combattere la mafia, venne fermato e trasferito proprio dal regime fascista quando cominciò a toccare gli esponenti della borghesia mafiosa di Palermo, Trapani e della provincia di Agrigento. Quindi sempre immuni non lo sono mai stati. Anche gli eredi dell’MSI sono stati al governo dell’Italia, ma non hanno mai fatto nulla per aprire gli archivi del Viminale.
La vicenda Giuliano va quindi inquadrata, in primo luogo, con quello che si conosce: gli atti della citata prima Commissione Antimafia e gli atti giudiziari.
Portella e le elezioni
Già nel processo di Viterbo, che si concluse nel 1953, sei anni dopo la strage, si mise in dubbio la tesi che a sparare fossero stati gli uomini della banda Giuliano. Il processo accertò che molti dei colpi mortali erano stati esplosi ad altezza uomo se non radenti al terreno, ma come poteva essere se gli uomini della banda Giuliano si trovavano sui monti che sovrastano il piano di Portella della Ginestra?
Su questo punto Giuseppe Casarrubea è molto chiaro, facendo riferimento agli archivi americani, aperti agli studiosi (in Italia, invece, rimangono chiusi). Casarrubea scoprì che, nella strage di Portella della Ginestra, un ruolo determinante lo ebbero i servizi segreti americani e la Xa Mas di Valerio Borghese.
Dato per certo che diversi colpi furono sparati anche dagli uomini della banda Giuliano, si insinua il dubbio che nella stessa fossero presenti alcuni infiltrati e doppiogiochisti in contatto con le altre parti in causa (mafia, politici, Movimento Indipendentista), e che da questi partirono i colpi; e in particolare si mettono in luce contatti segreti fra certi ambienti della politica centrale di Roma con interessi diretti nelle elezioni regionali siciliane dell’epoca, per fare arrivare in parlamento deputati e senatori siciliani. Ricordando anche le non trascurabili influenze di arcivescovi, cardinali ecc.
Una vicenda, in fondo, non molto differente da altre molto più attuali, negli anni ’79-’80 del secolo scorso, nella quale molta gente vedeva Giuliano a bordo di una Fiat-110, spostarsi fra Montelepre, Borghetto, Scopello, Partinico, e fino a Palermo per incontrare portavoce di emissari democristiani, socialisti, mafiosi, comunisti, separatisti. Ovviamente con la propria scorta di fedelissimi. Soprattutto per una questione di influenze nei voti alle elezioni politiche regionali, e fase successiva. A questo pare fossero particolarmente interessati i rappresentanti della DC, Mario Scelba e Bernardo Mattarella, e ancora di più Girolamo Li Causi e Antonino Varvaro, candidati del PCI.
Per complicati e intricati collegamenti, da Roma pare sia giunto l’ordine di eliminare Giuliano, lasciando mano libera sul come. Gli uomini d’onore (o chi ne teneva i collegamenti) a Roma, avrebbero pensato a presentare all’opinione pubblica la figura del bandito di Montelepre.
Che cosa bisognava coprire, di misterioso, utilizzando elezioni regionali, politici locali da mettere nei posti chiave al governo, e viceversa, perfino una strage di manifestanti in un giorno molto particolare? Si è costretti, a questo punto, a entrare nel campo delle ipotesi, perché i fascicoli più rivelatori sono ancora negli armadi con lucchetto del ministero…In ogni caso, “cui prodest?”…
Per quanto riguarda la vicenda Giuliano, si svolse nei fatti in soli sette anni, a parte gli strascichi e le versioni sulla fuga negli Stati Uniti, dal 1943 al 1950. La sua figura è stata ridimensionata a seconda degli interessi, ma quella più accreditata, è quella che vede il bandito di Montelepre come un brigante, almeno inizialmente, fino a diventare un elemento importante a livello politico internazionale, tanto da interessare anche i servizi segreti americani e non solo.
In fondo, bisogna considerare che, in quel periodo, la Sicilia godeva del triste primato nazionale di omicidi, sequestri, estorsioni, rapine e diversi altri reati, che causavano ritorsioni da parte delle forze di polizia e carabinieri, con collegamenti con i grandi possidenti e i vari signori e uomini d’onore locali.
Viene da chiedersi, inoltre, perché proprio Montelepre, un piccolo paese sulle colline siciliane, alle pendici del Monte Oro, oggi parte della città metropolitana di Palermo? Di certo era una parte di Sicilia poco incline a seguire leggi giunte dall’esterno se imposte, con radici che risalgono alla Carboneria mazziniana, e che la guerra appena terminata aveva lasciato a sé stesso. Il tutto mentre a Roma la DC di De Gasperi prendeva la guida del Paese e il malcontento era comunque molto diffuso nel Sud Italia. Il mercato nero era inoltre diventato altrettanto diffuso, in certe zone imperante. E con il mercato nero, Salvatore Giuliano iniziò la carriera criminale: agosto ’43, un cavallo e 80 kg di grano, una rapida sparatoria con i carabinieri del posto di blocco, la morte di un militare. Segue fuga in montagna, con Gaspare Pisciotta, e formazione della banda. Il tutto a 21 anni. Comunque un bandito, e pur diventato simbolo, troppo difficile da manipolare, quindi da trattare di conseguenza. Lo Stato centrale non poteva certo vederlo come bandiera del Movimento Indipendentista, e la mafia non poteva contare sulla sua assoluta fedeltà, tanto meno gli uomini d’onore della politica locale.
Alle elezioni regionali dell’aprile 1947, il Blocco Popolare, cioè comunisti e socialisti, ottenne solo 29 deputati su 90. Lo sposamento verso la sinistra venne visto come un pericolo reale, e la banda Giuliano sarebbe stato un ingranaggio (pur a rischio) nel meccanismo per sventare un’azione della sinistra, in quella che oggi è definita “strategia della tensione”. Gli 11 morti e 27 feriti di Portella rientrerebbero in questo piano. Altrettanto per quanto riguarda i 14 quaderni scritti in cella da Gaspare Pisciotta e spariti, o i documenti sulla riesumazione dei resti di Giuliano nell’ottobre 2010, a loro volta svaniti, come tante note del bandito scritte durante la latitanza.
Il caso Luca
Nell’agosto 2016 avvenne un episodio che di per sé non richiamerebbe l’attenzione: la profanazione di una sepoltura, da collegare però alla riesumazione dei resti di Giuliano, e relativa sparizione di verbali dalla Procura di Palermo. Una pista apparentemente senza basi, visto che l’ufficiale era sepolto nei pressi di Vicenza, ma si trattava del colonnello (poi generale) dei carabinieri Ugo Luca, comandante della Sezione Repressione Banditismo, assegnata espressamente alla Sicilia fra l’agosto 1949 e l’ottobre 1950, e comandane della Task Force inviata alla caccia finale del bandito di Montelepre.
Alcune versioni di membri della banda Giuliano, o che intorno alla banda gravitavano, ricordano incontri con la persona in abiti civili “ma era il colonnello”. In sostanza, la prova della prima trattativa stato-mafia, e l’organizzazione della messa in scena con l’inseguimento, il conflitto a fuoco, messa a punto con il contributo determinante del capo della CRFB, squadra espressamente destinata a risolvere il caso Giuliano, per altro uno degli uomini importanti del Servizio Informazioni Militari di Mussolini, quindi veterano dell’ambiente. Il perché o cosa si cercasse fra i resti del generale Ugo Luca, rimane archiviato fra i punti interrogativi, mentre rimane chiara la foto del “King of the bandits” scattata da Mike Stern, apparsa sulla prestigiosa rivista “Life Magazine”. Né si parla di oscuri collegamenti fra il colonnello Luca e il segretario della DC in Sicilia, che gli offre personalmente la grazia e un eventuale trasferimento in Brasile o in un Paese a scelta, del Sud America dove si trovavano ampie tenute agricole di nobili siciliani, fra cui il principe Alliata. Anto men si fa riferimento al fatto che il segretario della DC era Bernardo Mattarella, in accordo con il ministro Mario Scelba.
Oggi, Salvatore Giuliano è elencato come ufficiale dell’EVIS, Esercito Volontario Indipendentista Siciliano, attivo fra il 1944 e il ’46, ma c’è anche chi smentisce tale appartenenza, e denuncia inoltre lo sfruttamento del MIS nel depistaggio della vicenda.
Salvatore Giuliano e la sua banda ancora oggi considerati responsabili di 306 omicidi, fra cui oltre un centinaio fra poliziotti e carabinieri; 178 tentati omicidi; 11 omicidi di massa; 37 sequestri; 37 estorsioni e rapine a mano armata; 86 conflitti a fuoco con le forze dell’ordine; tre taglie, in particolare sulla testa di Giuliano. L’episodio è famoso: a una prima taglia di 800.000 lire, Giuliano rispose con una di 2 milioni di lire sul ministro dell’Interno, e fino a 50 milioni di lire “per informazioni determinanti e riconosciute che conducano alla cattura del bandito”, pericoloso cane sciolto nella “Strategia della tensione che aveva causato anche un’altra strage di Passo Rigano, a Bellolampo, il 19 agosto 1949, attribuita alla banda Giuliano, nella quale morirono sette carabinieri e altri dieci rimasero feriti più o meno gravemente. Una cinquantina di banditi incappucciati assaltarono la locale caserma, a circa 10 km da Palermo, sia per procurarsi armi e munizioni, sia per attirare le forze dell’ordine in territorio difficile e sfavorevole, e affrontarle di conseguenza. Un attacco alla caserma, e successivo agguato al reparto di carabinieri che sarebbe intervenuto di conseguenza da Palermo, precisamente a Passo Rigano, con una mina anticarro e armi automatiche. Il convoglio, due autoblindo e cinque camion, con 60 carabinieri del 12° Battaglione e dotazioni varie, fu attaccato. Al comando dell’autocolonna vi era il tenente Milillo, con l’autista, brigadiere Tobia, e 16 militari nel rimorchio. Lo scontro a fuoco andò a svantaggio della banda Giuliano, per la pronta reazione dei carabinieri, armati e in numero sufficiente, ma pagato a caro prezzo.
Il Caso Luca, riguarderebbe anche don Masino Croce, o don Crocifisso Malo, sempre nell’ombra, e per questo mai storicamente evidenziata. Persona di riferimento della onorata società, nel territorio di Montelepre, capo dei capi dal 1940 al ’50, fu il tramite fra politica centrale e mafia. Nativo di Villalba da una famiglia molto religiosa, pareva destinato al seminario per prendere i voti. Il fratello, Beniamino, sarebbe diventato segretario cardinalizio al Vescovato di Palermo. In gioventù, ancora adolescente, mise incinta una ragazza del villaggio ma rifiutò di sposarla. La famiglia della giovane chiese matrimonio o soddisfazione con il sangue, così Masino prese la via della montagna. Dopo n anno circa prese i primi contatti con la mafia locale e cinque anni dopo era un Don, o “uomo di rispetto”, e tornò con onore a Villalba, da dove amministrò ogni tipo di disputa, terra, per onore, unico riferimento della giustizia popolare, cercando sempre di acquietare le situazioni anche estreme e per questo soprannominato “Don Pace”. Ovviamente diventando nel contempo un uomo molto ricco. Dovette subire l’azione repressiva del Prefetto Cesare Mori, ed entrò nuovamente in clandestinità. Si dice si sia rifugiato in un monastero francescano, sotto protezione.
Durante la seconda guerra mondiale, Don Croce colse occasione per riallacciare i contatti con gli uomini d’onore, e inviando agli alleati anche informazioni sulle difese di Pantelleria e Stromboli. Trattò le condizioni di detenzione e, non di rado, la liberazione, di molti nomi, imprigionati dal Prefetto Mori e quando gli angloamericani sbarcarono in Sicilia, nel luglio ’43, si mise a disposizione dei padrini, che trattavano l’avanzata contro i tedeschi nell’interno, verso Palermo e Messina. Don Croce prese contatto anche con i partigiani, per missioni di salvataggio di paracadutisti e piloti. Incontrò personalmente esponenti dell’OSS, e segnalò i passaggi meno rischiosi pe le truppe alleate attraverso i massicci centrali della Sicilia, per aggirare le trippe tedesche. Aveva circa 65 anni quando entrò a Palermo alla testa di una formazione mista di partigiani e “picciotti”, e sequestrò il comandante tedesco della difesa cittadina, fino all’arrivo degli americani. Nei rapporti dei servizi americani, ci si riferiva a Don Croce come al “General Mafia”.
Dopo la liberazione dell’isola, Don Croce divenne uno degli uomini di collegamento con il colonnello Alfonse La Ponto, designato governatore e amministratore militare.
Nel nuovo piano politico, da attuare con imminenti elezioni, era impensabile lasciare regioni fondamentali a una diffusione del comunismo. Per questo era pensabile utilizzare anche elementi del passato regime, al momento nelle carceri sotto sorveglianza americana. Don Croce si fece garante per diversi uomini d’onore, che furono liberati. Com’è noto, quando la Sicilia venne completamente liberata, la mafia chiese il conto per la collaborazione (fondamentale) all’avanzata delle divisioni angloamericane. In molte cittadine e paesi della Sicilia occidentale, divennero sindaci gli uomini designati dalla onorata società, che aveva educato i nuovi capi negli States. Sotto la supervisione di Don Croce, vi erano i collegamenti Partinico-Montelepre-Monreale-Palermo-Trapani-Siracusa-Catania, e fino a Napoli e Roma.
Don Croce divenne notevolmente ricco con il mercato nero e il contrabbando, grazie a veri e propri convogli di mezzi militari, carichi con merci di vaio genere, fino ad armi o parti di armi, con buona percentuale del colonnello La Ponto. In breve, Don Croce creò una funzionale rete di negozi di alimentari, piccoli ristoranti, magazzini per forniture varie, bar-caffè, distributori di benzina. Negli anni ‘40, Don Croce era diventato padrino del figlio del principe Ollorto, il quale pagava rispettosamente la protezione, e che lo aveva introdotto nella cerchia di quelli che contano, già preceduto dalla fama di abile diplomatico, organizzatore e amministratore, e in contatto on un altro nome eccellente, Calogero Vizzini, diventato sindaco di Villalba e Padrino riconosciuto.
Negli anni ’40, il mafioso Hector Adonis fece incontrare Don Croce e Salvatore Giuliano. Si stabilì un rapporto di reciproco rispetto, tanto che fi grazie all’intervento di Don Croce se Giuliano uscì senza accuse ufficiali dalla vicenda con il principe Borsa, o dei gioielli della duchessa di Crotone, con restituzione del maltolto.
Molti testimoni ricordano Don Croce come uomo serafico, notevolmente carismatico, ma al tempo stesso paranoide, fino ad avere un assaggiatore di cibo e bevande.
Morte reale o messa in scena?
Il bandito Giuliano, quindi, incarnava anche una sorta di eroe popolare, almeno finché portava in alto la bandiera separatista. Proprio la leggenda popolare contribuì a infittire il mistero, che grava anche sulla sua morte: non si sa ancora con assoluta certezza se sia morto per mano del cugino traditore, oppure durante un conflitto a fuoco con i carabinieri. L’ipotesi oggi più accreditata è la prima. Esiste però anche chi afferma che Giuliano non sarebbe nemmeno morto nel 1950, come riferito dalle cronache. Se c’è stata una messa in scena, per ordine di chi, e perché? Se fosse stato un ordine giunto dall’alto, ad esempio da Roma, perché lo Stato prima la avrebbe autorizzata e poi ne riconobbe il merito a persone che in realtà avevano perso la battaglia con Giuliano, non essendo mai riuscite a catturarlo?
La messinscena fu promossa per dimostrare che era stato il governo a vincere, anche se non era vero. Lo Stato promosse poi i vari Luca, Perenze e altri per un doveroso riconoscimento verso quei dipendenti che, a parte i metodi usati, avevano comunque fatto molto contro il banditismo.
Gregorio De Maria, l’avvocato di Castelvetrano nel cortile della cui casa fu abbandonato il cadavere di Giuliano, ha dichiarato che sono state tentate molte ricostruzioni dei fatti, ma quella più vicina alla verità, è quella offerta da Francesco Rosi nel film del 1962. Che cosa manca per conoscere senza dubbio alcuno questa vicenda?
Chi realmente muoveva le fila di tutto? Si possono solo fare ipotesi, che certo non farebbero bene alla verità. Quel diritto alla verità che è una specie di opzione, a seconda della convenienza.
Ufficialmente, anche se la qualifica di “segreto” sull’affare Giuliano è decaduta nel 2016, certamente la verità non sarà comunque rivelata, per avere così il quadro completo della vicenda e di ciò che vi era dietro le quinte. Su questo ci sarebbe da scommetterci in relativa tranquillità.
Gli storici confidano che, se non arriverà dalla documentazione in Italia, probabilmente sarà possibile conoscere la versione reale dagli archivi dei servizi segreti americani. Dalle prime ricerche, pare che fosse stato deciso che Salvatore Giuliano doveva morire (o sparire) a Castelvetrano, e non a Portella o a Montelepre. E non a caso, perché Castelvetrano è il paese natio di Giovanni Gentile (1875-1944) dove il bandito scelse di nascondersi, in casa dell’avvocato Di Maria.
“La mafia sapeva dove si nascondesse Giuliano, il quale era venuto a conoscenza di molti fatti interessanti. Anche per questo Giuliano doveva morire” – sono le parole di colui che forse è stato l’ultimo testimone oculare, a fianco di “Turiddu” nelle ultime settimane della sua vita, noto come “Picciriddu”. Il dato sorprendente è che il testimone asserisce di essere stato insieme a Giuliano il 6 luglio 1950, quando però Giuliano morì (almeno così pare) il giorno precedente. Il 6 luglio, Giuliano aveva un appuntamento segreto con una persona d’onore, “Nino u Baruni”, nei pressi di Borgetto, e avrebbe personalmente avvertito “Picciriddu” di non parlarne con nessuno.
Altri dati anomali sarebbero emersi dall’esame autoptico del cadavere di Giuliano, prima della sepoltura al cimitero di Montelepre, fra i quali la statura minore di ben 10 centimetri rispetto a quella reale del bandito, che fu anche definito fascista, mafioso, colonnello del fantomatico esercito del Movimenti Separatista Siciliano (EVIS) e, perché no, strumentalizzato non solo dalla mafia, ma anche dagli attori protagonisti della Guerra Fredda, in particolare l’intelligence americana (che avrebbe anche promesso di portare Giuliano in USA), in un periodo politico delicato, e con lo spauracchio delle elezioni politiche. In questo clima di tensione avvenne quella che è considerata come la prima strage di Stato della neonata Repubblica, nonché primo tentativo eversivo del fronte della Destra, con l’aiuto della CIA, della mafia, della Chiesa, delle formazioni paramilitari e gruppi armati del terrorismo nero, appoggiato da monarchici e separatisti.
Lo storico Franco Angeli, in “Microstoria di una strage di Stato”, offre un altro quadro di Salvatore Giuliano, ma va sottolineato che non era ancora al corrente di alcune verità, venute alla luce solo alla desecretazione degli Atti del Processo di Viterbo sulla strage di Portella della Ginestra, che pur rimangono in maggiore parte inaccessibili, per ostacoli tecnico-burocratici tipici del Bel Paese. Allo stesso modo, Pietro Orsatti, in “Il bandito della Guerra Fredda”, presenta Giuliano come ingranaggio di un meccanismo ben più grande e articolato, limitato non solo alla Sicilia.
In sostanza, Orsatti ripropone un momento cruciale della Repubblica, focalizzato attorno alla parabola di un ragazzo siciliano che uccide un carabiniere nel ’43, per due sacchi di grano destinati alla borsa nera e che, pochi mesi dopo, guida un gruppo armato che assalta armerie, fa giustizia e organizza evasioni di massa. Dai documenti dei servizi segreti angloamericani emerge con chiarezza che Giuliano entrò in contatto precocemente con i gruppi fascisti legati al “principe nero” Valerio Pignatelli, e si arruolò nella Xa MAS di Valerio Borghese, per poi diventare prima comandante della “Brigata Giuliano” e infine colonnello dell’inesistente esercito separatista siciliano EVIS. Secondo Orsatti, proprio Salvatore Giuliano avrebbe dovuto fare evadere Valerio Borghese dal carcere di Procida, per fare in modo che il capo della Xa MAS guidasse il previsto colpo di stato che, non certo casualmente, non avvenne, con conseguente abbandono del piano eversivo.
Per quanto riguarda la morte di Giuliano, il libro di Pietro Orsatti evidenzia le circostanze controverse e le cinque versioni contrastanti sulla fine del bandito di Montelepre, compresa quella secondo cui il corpo trovato nella piazzetta di Castelvetrano non fosse quello di Giuliano ma di un sosia. Ipotesi dalla quale Orsatti prende le distanze, riproponendo la tesi della celebre inchiesta del giornalista Tommaso Besozzi, che smontò la versione ufficiale, annunciata dal ministro dell’Interno, Mario Scelba, sullo scontro a fuoco coi carabinieri. Versione smentita poi anche da Gaspare Pisciotta, che si autoaccusò dell’omicidio di Giuliano, denunciando la collusione dei vertici dello Stato nella strage di Portella.
L’inchiesta del giornalista Besozzi, pubblicata da “L’Europeo”, presentava Giuliano come non certo estraneo alla strage di Portella del 1 maggio 1947, ma apre un capitolo inedito sulla vicenda, in quanto si concentra non sulla storia, per così dire, istituzionale, ma sul quadro in cui le gesta del “re di Montelepre” si inseriscono, cioè quello di una Sicilia uscita sconquassata dalla seconda guerra mondiale, e nella quale era in atto una vera e propria rinascita della “onorata società”.
La domanda di fondo è semplice: chi era Salvatore Giuliano? Un moderno Robin Hood, un feroce criminale, una specie di giustiziere a favore degli oppressi, oppure nulla di tutto questo? O forse, come aveva raccontato la stessa madre di Giuliano a Montelepre, uno “sventurato e disperato picciotto” rimasto vittima del fascino di una improvvisa celebrità a livello mondiale?
In effetti, Giuliano non poteva non essere preda della sua stessa fama, quando riceveva sul monte Sagana giornalisti e soprattutto giornaliste (con molte delle quali avrà anche incontri d’amore) da ogni parte del mondo, ma l’inchiesta di Besozzi ha smontato la goffa verità ufficiale sulla fine del bandito di Montelepre e ha consentito di capire meglio i legami tra la mafia non solo siciliana (che decise la morte dell’ormai “scomodo” bandito), la politica e diversi apparati dello Stato, ma non si limitò solo a questo.
Qual è, allora, questa “goffa” verità? Per capire bisogna partire dalla fine. Dalla notte di Castelvetrano, il piccolo paese che oggi è noto per essere stato rifugio del grande latitante Matteo Messina Denaro.
La mattina 5 luglio 1950 il corpo di Salvatore Giuliano viene ritrovato senza vita, crivellato di colpi, e chiudeva un periodo di sette anni di storia criminale, lasciando aperte però molte altre questioni, ancora oggi irrisolte. Tutto avvenne in via Mannone, nel cortile di casa dell’avvocato Gregorio De Maria scriveranno i Carabinieri, accreditando la storia di un inseguimento avvenuto fra via Cagini e via Mannone, dove Giuliano avrebbe ingaggiato un conflitto a fuoco con i militari. L’immagine del bandito è ormai entrata nell’immaginario collettivo, come pure il tradimento del fidatissimo Gaspare Pisciotta, ucciso in carcere da un caffè corretto alla stricnina.
Il giornalista Bsozzi parte dalla sera prima, quando Pisciotta decise di tradire e chiuse la trattativa con gli inviati del ministro Scelba. Pisciotta raggiunse l’abitazione dell’avvocato De Maria dove, secondo la ricostruzione, prima usò del narcotico nel caffè e quindi, durante la notte, si introdusse nella camera dove dormiva Giuliano e sparò due colpi a bruciapelo. Il primo proiettile colpì Giuliano a una spalla, il secondo alla nuca. Il tutto si svolse in pochi attimi. Successivamente, Pisciotta raggiunse una pattuglia di carabinieri, in attesa poco lontano, che lo condurrà a Palermo.
La versione ufficiale diffusa dalla Questura di Palermo, fu lal seguente: “A Castelvetrano alle 3.15 del 5 luglio, il capitano Perenze, il brigadiere Catalano e i carabinieri Renzi e Giuffrida avevano riconosciuto il capobanda mentre assieme a uno dei suoi uomini percorreva la via Cagini. Vistisi sorpresi i due si erano dati alla fuga in direzioni diverse e il gregario era riuscito facilmente a dileguarsi. Giuliano invece era stato inseguito per le vie del paese. Contro di lui era stato fatto fuoco ripetutamente, un proiettile lo aveva raggiunto alla spalla, il fuggitivo aveva risposto a sua volta con pistola e mitra. Giunto in via Mannone si era rifugiato all’interno del cortile e aveva tentato di scavalcare un muro, ma il capitano gli aveva esploso contro una raffica di mitra, uccidendolo”.
Una versione smentita in seguito, soprattutto per due motivi. Anzitutto dalle testimonianze dei vicini di casa. C’è chi aveva sentito rumori e visto i carabinieri in zona sin dalla sera precedente, come i panettieri del vicino forno Lo Bello, che a mezzanotte erano usciti per una boccata d’aria ed erano stati invitati dai Carabinieri a rientrare immediatamente. Un dato è certo: nessuno quella notte aveva sentito uno sparo per le vie del paese, tantomeno “i circa cinquanta colpi” come attestato dal verbale dei carabinieri. Inoltre, la posizione del cadavere e altri particolari, come il fatto che Giuliano non avesse nemmeno un soldo addosso, che fosse in canottiera e che non avesse al polso quell’orologio al quale era morbosamente affezionato. Inoltre, alcune ferite, specie quella sotto l’ascella destra, che sembravano tumefatte come se risalissero a qualche tempo prima, e altre che mostravano invece contorni nitidi e quindi molto più recenti.
Due o tre pallottole lo avevano raggiunto al fianco e avevano prodotto quei fori grandi a contorni irregolari tipici dei colpi sparati a bruciapelo; altre erano entrate nella carne lasciando un forellino minuscolo perfettamente rotondo. Il tessuto della canottiera appariva intriso di sangue dal fianco alla metà della schiena, e sotto quella grossa macchia, non c’erano ferite. Era logico pensare che il corpo del bandito anziché bocconi fosse rimasto per qualche tempo in posizione supina, perché tutto quel sangue doveva essere sgorgato dalle ferite sotto l’ascella. Tutto questo, ma anche una serie di aneddoti, dalla marcia su Palermo dei separatisti, compresa la banda di Giuliano, fino al rapporto con la mafia e il baronato, e all’immagine di Giuliano che piange durante un comizio del partito monarchico, per non parlare della rivelazione che l’avvocato di Giuliano fece in punto di morte: “Non fu lui a essere ucciso a Castelvetrano, ma un sosia”. Affermazione che contrasta con quella di Besozzi (“Di sicuro c’è solo che è morto”), e che oggi ha sempre più il sapore di quella che si definisce “fake news”.
Il caso richiama alla memoria la fine di Benito Mussolini: una versione di comodo per coprire un fatto increscioso, politicamente scomodo, e non in linea con i principi che la Guerra di Liberazione voleva affermare. Oggi si può affermare, con sufficiente certezza, che se Giuliano morì il 5 luglio 1950 non fu certamente in seguito a un conflitto a fuoco con i carabinieri ma, in quanto ormai troppo colluso con la mafia, e al corrente di informazioni troppo riservate e compromettenti, per precisi accordi fra esponenti della banda Giuliano, mafia e Stato. Una verità ben diversa, raccontata a “Il Giornale” da un tale Giusto Zito (“Giosi” per gli amici), infermiere dell’ospedale di Castelvetrano, al quale l’avvocato Gregorio Di Maria, il legale di fiducia di Giuliano, avrebbe rivelato in punto di morte: “L’avvocato Di Maria ai tempi in cui era ricoverato in gravi condizioni nel nosocomio in cui prestavo servizio, mi svelò prima di morire che il cadavere fatto trovare crivellato di colpi nel cortile della sua abitazione non era quello del celebre bandito ma di un suo sosia, tale Antonino Scianna. La salma che oggi giace nel cimitero di Montelepre non è di Salvatore Giuliano, morto negli Stati Uniti dove si era rifugiato protetto dai servizi segreti. Il suo corpo non è mai stato riportato in Italia”.
Perché l’infermiere Giusto Zito ha rilasciato tale dichiarazione solo dopo 70 anni dalla morte del bandito di Montelepre?
“In passato – continua l’infermiere di Castelvetrano – sono stato ascoltato da vari pm che hanno indagato sul mistero della morte di Giuliano. Successivamente ho contattato vari cronisti per rendere pubblica la notizia ma tutti, per paura di ritorsioni, si sono sempre tirati indietro. Poi ho avuto occasione di contattare il giornalista-scrittore Angelo Mauro Calza, che sul suo blog ha pubblicato una lunga intervista”. Un elenco di fatti (alcuni dei quali confermati da prove documentali) che dimostrano come Zito non sia un millantatore ma l’ultimo testimone di una verità su cui nessuno ha interesse a far luce.
Che l’infermiere di Castelvetrano sia credibile è dimostrato da più circostanze: due pm lo hanno interrogato come persona informata sui fatti nel periodo in cui riaprirono il caso; più registi sono ricorsi alle sue “consulenze” per registrare film e documentari sul giallo della morte del bandito; Zito conserva il testo di una lettera di Salvatore Giuliano in cui si dichiara estraneo all’eccidio di Portella della Ginestra, facendo i nomi eccellenti dei veri responsabili morali e materiali della strage, che oggi è considerata la prima di una lunga seria di “stragi di Stato”.
“L’avvocato Di Maria – spiega Zito – mi disse che, secondo il memoriale che gli aveva consegnato Giuliano, furono certi esponenti politici i veri responsabili della strage, preoccupati dal fatto che il Blocco del popolo nelle elezioni regionali del ’47 potesse privilegiare uno schieramento piuttosto che un altro. Dopo la fuga in America, “Turiddu” tornò in Italia in una sola particolare occasione, nel gennaio 1971, per i funerali della madre. Fu fatto atterrare dai servizi segreti a Catania con volo proveniente dagli Stati Uniti e poi riportato negli States. Il governo però – conclude Zito – aveva garantito di togliere il segreto di Stato, invece certi particolari sono ancora mantenuti assolutamente riservati”. In effetti, negli archivi del Viminale, esisterebbero ancora documenti riservati che confermano due opinioni: chi pensa che Giuliano sia stato ammazzato a Castelvetrano il 5 luglio 1950, e chi non ci crede. Ed è la seconda che appare più credibile.
All’epoca, nessuno mise in dubbio l’identità del cadavere trovato nel cortile Di Maria di Castelvetrano. Così è stato per decenni, anche se le voci giravano, pur senza molto credito. Fra chi non ha creduto alla morte “ufficiale” di Salvatore Giuliano è stato Giuseppe Casarrubea, storico e saggista (scomparso nel 2015) che, nel libro “Portella della Ginestra. Microstoria di una strage di Stato”, espone le prove facendo riferimento a un articolo del giornalista Ignazio Coppola: “Di recente, il mistero della morte di Salvatore Giuliano s’è arricchito di un nuovo tassello che ha dell’incredibile. Ossia che quel cadavere che, il 5 luglio 1950, massacrato di colpi, giaceva a terra nell’assolato cortile Di Maria non fosse quello di Giuliano, ma di un suo sosia. Questa la tesi dello storico Giuseppe Casarubea, fermamente convinto che al posto di Giuliano era stato ucciso un sosia per consentire al vero Giuliano di espatriare negli Stati Uniti con i suoi compromettenti segreti che coinvolgevano forze politiche e istituzioni. Il tutto, in seguito è stato raccolto nel 2010, dall’allora procuratore aggiunto di Palermo, Antonio Ingroia, e dai pm Marcello Viola e Lia Salvia” e che portò alla riesumazione della salma sepolta a Montelepre, e alle successive analis, che svelarono l’arcano, ossia che le analisi, il riscontro del DNA effettuato su Giuseppe Sciortino, nipote di Giuliano e comparato con quello del cadavere riesumato del re di Montelepre, portarono all’archiviazione dell’inchiesta, arrivando alla conclusione che i due DNA, appunto con qualche riserva, erano al 90% compatibili”. La vicenda però non finisce qui.
Un margine di dubbio che è rimasto e si è accresciuto quando Gregorio Di Maria, soprannominato ‘l’avvocaticchio’, e che aveva ospitato per lungo tempo Giuliano nella sua casa di Castelvetrano e a conoscenza dei suoi segreti, in punto di morte, e non si vede perché in tal frangente avrebbe dovuto mentire, all’età di 98 anni, all’ospedale di Castelvetrano, ebbe a confessare all’infermiere che lo assisteva, quasi a volersi liberare di un peso che lo aveva angosciato per tutta la sua vita, che quello che era stato ucciso e depositato, dai carabinieri, nel cortile della sua casa non era Salvatore Giuliano, ma un sosia. Quindi, volendo prestar fede allo storico Giuseppe Casarubea prima, e alle affermazioni dell’avvocato Gregorio De Maria poi, e per dirla con Tommaso Besozzi ed estremizzando ancor più il suo concetto: di certo a Castelvetrano c’era un cadavere, ma non si sa bene se di Salvatore Giuliano o di qualcun altro.
Scrive ancora Coppola: “Ad avvalorare l’ipotesi di uno scambio tra Giuliano e un sosia, vi è l’autopsia che, a suo tempo, il professore Ideale del Carpio eseguì in modo estremamente approssimativo, nel cimitero di Castelvetrano. Un esame autoptico del quale se ne perse in seguito ogni traccia. L’unica cosa certa, a questo punto, è che ancora, a distanza di decenni, i misteri sulla morte di Salvatore Giuliano, e ancor più sulla strage di Portella della Ginestra, sono ancora avvolte nel mistero, per coprire verità scomode e compromettenti per la politica e per le istituzioni, le quali imposero il Segreto di Stato che doveva essere rimosso nel 2016 e che invece dura ancora oggi, con la colpevole complicità dello Stato.
Bibliografia
“Microstoria di una strage di Stato” – Franco Angeli, 1997;
“Il bandito Giuliano. La vera storia del fuorilegge tra mafia e servizi segreti” – Salvatore Nicolosi;
“Salvatore Giuliano. Una biografia storica” – Francesco Renda;
“La scomparsa di Salvatore Giuliano. Indagine su un fantasma eccellente” – Giuseppe Casarrubea, Mario Josè Cereghino;
“Salvatore Giuliano, uomo d’onore” – Francesco Petrotta;
“La vera storia di Salvatore Giuliano” – Ignazio Buttitta;
“Io c’ero. Parla la vedetta di Salvatore Giuliano” – Valentina Gebbia, Giacomo Bommarito; “Salvatore Giuliano, il bandito che fu strumento di Stato e mafia” – Benito
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