Illustre rappresentante del ‘Tradizionalismo Ispanico’ e del Giusnaturalismo europeo, De Tejiada era solito rammentare che “la Rivoluzione francese fu possibile grazie al precedente dell’assolutismo monarchico. Al contrario, la Navarra, che non conobbe mai tale regime, e non volle mai avere a che fare con l’ideologia della rivoluzione francese” [1].
Premessa. Tra il XVIII e il XIX secolo, la cristianità europea non fu mai rappresentata dalle monarchie assolute e tanto meno dalla più illuminata aristocrazia, ma dal ‘popolo dei credenti’ refrattari, in larghissima misura (e tutto ciò è dimostrato dal vasto fenomeno delle ‘Insorgenze popolari’), alla Rivoluzione laicista. A tal proposito, rammenta il filosofo Paolo Pastori: “Ancora nel 1771 si era prodotto il colpo di Stato neo-assolutista del cancelliere René Nicolas Charles Augustin de Maupeou al quale lo stesso Voltaire aveva fornito una copertura politica con la sua ‘Histoire du parlement’, una ricostruzione ideologica molto criticata per le infamie addebitate alla gloriosa istituzione che ancora nel XVIII secolo stava arginando, assieme alle tendenze dispotiche della monarchia, sia le risorgenti tentazioni integralistiche della nobiltà che l’acribia scettico-critica del radicalismo innovativo dei cosiddetti philosophes. Un accanimento, va detto, che questi palesavano nei confronti del costume e della religione tradizionale, per il resto dimostrando il più totale ossequio al da loro definito ed esaltato dispotismo illuminato” [2].
Dalla riflessione su Maupeou ebbe origine la proposta di sostituire la consunta dialettica rivoluzione – reazione con l’effettivo contrasto esistente tra le forze storiche attive dal XVIII secolo: popolo fedele al cristianesimo e oligarchia scettica. In questo contesto, Pastori si rifece alla dottrina politica di Gioacchino Ventura che, quantunque non perfettamente ortodossa, diventò materia di riflessione sulle alternative ‘non reazionarie’ all’Illuminismo e alle sue successive degenerazioni libertarie-relativiste e socialiste.
Ventura si rivolse soprattutto al tomismo e alla scienza nuova di Giambattista Vico (1668 –1744) per trovare il filo conduttore di una rivoluzione per continuità quale unico rimedio all’assolutismo monarchico e alla decadenza della scolastica. In ultimo, Ventura anticipò le linee di una strategia culturale finalizzata a correggere gli errori di un Joseph-Marie de Maistre. Di qui la rinnovata attualità della vera Tradizione che si richiama alla rivoluzione per continuità: strumento necessario per riattualizzare una ‘tradizione cristiana’ delusa e tradita dalla cosiddetta modernità ‘anti assolutista’, ma di fatto sterile. Uno sguardo realistico vieta, infatti, di vedere nella Rivoluzione laicista l’opposto dell’Ancien régime. Ventura vogava, ovviamente, contro quella che definiva la scolastica irrealista rappresentata da Cartesio, Huet, Malebranche, Gerdil e De Maistre [3], pensatori sulle tracce di un Platone immaginario. Il primo autore di una filosofia pseudo tradizionalista fu Pierre-Daniel Huet, il quale, dopo essersi formato sui testi cartesiani, tentò di moderarne l’astrattezza e correggerne la tendenza ad attribuire un potere esorbitante alle cosiddette idee innate [4].
Convinto che, per porre un freno all’intellettualismo cartesiano, fosse necessario dimostrare l’impotenza della ragione, Huet elaborò una dottrina strutturalmente erronea, che contemplava una ‘rivelazione primordiale’ quale unica fonte di tutte le verità di ragione: dottrina irriducibile alla filosofia di San Tommaso d’Aquino. Diffuse in anni segnati dalla latitanza della scolastica, le tesi di Huet non ebbero un seguito immediato. Ma nella seconda metà del XVIII secolo, imperversando la suggestione del razionalismo, esse parvero una buona alternativa alla filosofia dei Lumi.
I teorici del ‘tradizionalismo reazionario’, tra cui il già citato De Maistre, ma anche De Bonald [5], La Mennais [6], Bautain [7] e Bonetty [8], prestarono attenzione alle tesi di Huet e, rielaborandole, le adattarono alle (presunte) esigenze della Controrivoluzione. De Maistre, ad esempio, allargò l’orizzonte di Huet, introducendo nel pensiero cattolico la nozione (derivata dalla gnosi martinista) di una ‘rivelazione primitiva’, trasmessa segretamente, sostenendo nel contempo (contro San Tommaso e contro Vico) la teoria sulla degenerazione irreparabile dell’umanità. Alla luce di tutto ciò, si può dunque affermare che il cammino dei Tradizionalisti confluì lungo la via modernorum, dove raccolse un po’ a caso frammenti della produzione antitomista: il nominalismo occamista, il pessimismo antropologico luterano e i miti baconiani intorno all’antiquissima sapientia veterum [9].
Nel 1832, per confutare le tesi di La Mennais, Gregorio XVI pubblicò l’enciclica “Mirari Vos”, e nel 1846, Pio IX diffuse la “Qui pluribus”, nella quale vennero elencati gli errori dell’età contemporanea. E più o meno sulla stessa linea si espresse poi il Concilio Vaticano I (“De Revelatione”). Nella sua “Pascendi”, Pio X condannò la tesi modernistica (ma di fonte tradizionalistica) secondo la quale la ragione umana non può elevarsi alla conoscenza di Dio. Infine, Pio XII, nella “Humani generis”, confermò la validità dell’insegnamento secondo cui la ragione può giungere alla cognizione “Unius Dei personalis, mundum provvidentia sua tuentis ac gobernantis”.
La tesi fondamentale del Tradizionalismo spurio, può essere formulata nei termini fissati da Abel De Bonald: l’uomo non attinge le verità della metafisica e della morale mediante la Ragione, ma collegandosi attraverso il linguaggio all’ininterrotta trasmissione delle verità rivelate ad Adamo. È evidente che, per certi aspetti, il Tradizionalismo anticipa il positivismo, per altri prepara la trasformazione gadameriana della filosofia in filologia e la relativa “inflazione parolaia” [10]. Alla luce dei suoi esiti ultimi, l’opera di De Bonald rivela le ambiguità e le debolezze del Tradizionalismo. Tuttavia, De Bonald, pur opponendosi sciagura rivoluzionaria, non seppe costruire un progetto filosofico conforme al pensiero di San Tommaso.
Egli criticò l’innatismo cartesiano perché frustrava qualunque tentativo di spiegare l’errore, e contestò l’occasionalismo di Malebranche in quanto fallace, ma non andò oltre (“par excès de Christianisme … opinion excessive et peu dévéloppée, qui sopprime trop d’idées intermédiaires et depasse la solution du problème” [11].) Purtroppo, Bonald non percorse quella via tomistica che avrebbe preservato la sua filosofia dalle contaminazioni dell’errore modernista. Di conseguenza, il suo pensiero rimase imprigionato in una sorta di incantesimo intellettualistico. Va notato che, curiosamente, De Bonald trasse la sua soluzione del problema gnoseologico dalla ubiquitaria dottrina di Rousseau, secondo la quale, all’inizio del pensiero, è indispensabile la parola, mentre all’articolazione del linguaggio è indispensabile il pensiero: “Si les hommes ont besoin de la parole pour apprendre à penser, il ont eu besoin encore de savoir penser pour trouver l’art de la parole”.
Messa a confronto con la dottrina esposta da Vico nella “Scienza Nuova”, la risposta sfuggente e circolare di Rousseau alla domanda sull’origine del pensiero e della parola, svela l’impotenza e la fallacia dell’antropologia illuministica e pseudo tradizionalista [12].
Da una originalissima lettura della mitologia classica intorno ai fulmini di Giove e al timor di Dio, Vico trasse invece l’argomento utile alla elaborazione di una teoria scientifica, oltre che conforme al dato rivelato sulle conseguenze del peccato di Adamo. La teoria vichiana sul timor di Dio suscitato dai fulmini, contemplava il provvidenziale inizio della faticosa risalita, compiuta dall’Adamo caduto, per riottenere l’uso integrale della parola e della ragione, “oscurata, ma non annientata dal peccato originale “[13]. La “Scienza Nuova” di Vico indica la via che la fedeltà alla vera Tradizione deve percorrere per scansare i trabocchetti seminati dalla favola evoluzionistica e/o dall’ apparentemente contraria mitologia intorno al progressivo, irreversibile allontanamento dell’umanità dalla perfezione primordiale. Pur avendo chiaro che l’ingenuo timore di una divinità intenta a scagliare fulmini costituisce un errore grossolano, Vico ne colse la funzione provvidenziale. L’immaginaria divinità dei fulmini atterrisce l’uomo e con ciò ottiene il comportamento conforme al pudore, da cui ha inizio il ritorno alla ragione e all’uso assennato del linguaggio.
Bonald, al contrario, condivise l’opinione degli iniziati marinisti e di De Maistre, opinione secondo la quale l’uomo non sarebbe capace di pensare autonomamente.
Per risalire alla radice della linguistica bonaldiana è forse utile rammentare la descrizione che San Tommaso fece della condizione umana nell’Eden. Avendo, Adamo, dato un nome a tutti gli animali ed essendoci corrispondenza tra i nomi e le cose (“nomina debent rerum congruere”) risultava evidente che Adamo, in statu perfecto, ebbe la scienza per infusione: “Adam scivit naturas omnium animalium et pari ratione habuit omnium aliorum scientiam” [14].
Commessa la colpa, Adamo e la sua discendenza furono poi privati della scienza infusa della quale, a scanso di fughe nella dimensione del soprannaturalismo, San Tommaso predicò l’eguaglianza con la scienza acquisita: “Scientia illa non fuit alterius rationis a scientia nostra, sicut nec oculi quos caeco nato Christus dedit fuerent alterius rationis ab oculis quos natura produxit”.
Mediante tale precisazione, San Tommaso stabilì che la scienza di Adamo sarebbe progredita, anche se la colpa non fosse stata commessa: “Dicendum quod Adam in scientia naturalium scibilium non proficisset quantum ad numerum scitorum sed quantum ad modum sciendi: quia quae sciebat intellectualiter scivisset postmodum per experimentum”.
Tuttavia, i Tradizionalisti aderirono al pensiero di Malebranche, secondo il quale il potere politico altro non era che un’amara conseguenza del peccato originale.
Anche in questo caso l’errore nasce dalla disattenzione all’insegnamento di San Tommaso: nella “Summa theologiae” è scritto a chiare lettere che il potere dell’uomo sull’uomo – il futuro bersaglio dei comunisti e degli anarchici – non era incompatibile con la dignità che competeva ad Adamo nell’Eden. Contro gli eccessi del perfettismo di vaga matrice catara, l’Angelico aveva, del resto, specificato che nello stato d’innocenza, non sarebbe stata sconveniente una certa ineguaglianza fra le persone.
Risolti i dubbi suggeriti dal perfettismo, San Tommaso espose i due significati del termine dominium: il primo contemplava il dominio quale opposto della servitù [15], il secondo alludeva al governo delle persone libere [16]. La prima definizione contempla il potere alterato e appesantito a causa dalla colpa di Adamo. La seconda riguarda invece il potere che ha conservato le vestigia della primitiva giustizia. E San Tommaso definisce questa seconda forma del potere appoggiandosi ad un giudizio tratto dal “De Civitate Dei” di Sant’Agostino: “Iusti non dominandi cupiditate imperant sed officio consulendi: hoc naturalis ordo praescribit, ita Deus hominem condidit” [17].
E’ evidente che il giusto esercizio del potere politico non è contrario alla dignità umana.
Di conseguenza l’esercizio oppressivo del potere – la tirannia e/o l’assolutismo – rappresenta un disordine generato dalla corruzione.
A questo punto è forse lecito insinuare che fu inutile la fatica di quei cattolici del XX secolo, che rincorsero il fantasma della libertà politica nei testi del liberalismo: le ragioni della resistenza alla tirannia e all’assolutismo sono state, infatti, definite e puntualmente giustificate una volta per tutte da San Tommaso. Dunque, l’inseguimento dei cattolici liberali è conseguenza della piega pessimistica che la cultura controrivoluzionaria ha ricevuto dai pensatori che si erano allontanati dal tomismo. De Bonald, infatti, si separò dal realismo per seguire il filo rosso dell’antropologia pessimistica, soggiacente al pensiero di Malebranche. Posizionato su questa china, il Tradizionalismo abolì la fondamentale distinzione tra il giusto potere e potere corrotto. La definizione del ‘giusto esercizio del potere’ mette a nudo la fragilità dell’impianto filosofico dei tradizionalisti e svela le cause “a monte” di quell’oscura febbre anarchica che accompagna tutta la storia della controrivoluzione eterodossa.
Il Tradizionalismo Ispanico di De Tejada.
Diversa se non opposta è l’impostazione del Tradizionalismo Ispanico che, secondo De Tejada (1917 –1978), ereditò e interpretò fedelmente l’insegnamento della cultura politica medievale, che non fu inquinata dall’errore assolutistico [18].
In ossequio alla teologia preconciliare, De Tejada mise sulla sua professione di tomista uno speciale accento, affermando che l’Angelico “Colloca la teologia cristiana su di un piano superiore alla filosofia: «In librum Boetii de Trinitate», II, 2, ad quintum, sono gli articoli della fede a qualificare la superiorità del sapere teologico rispetto al sapere filosofico, La filosofia basata sulla rivelazione è superiore alla filosofia basata sulla ragione” [19].
Quali cause della decadenza europea, De Tejada elencò le quattro rotture che inaugurano l’età moderna: lo scisma religioso (Martin Lutero), l’involuzione pagana dell’etica (Niccolò Machiavelli), la dissidenza dalla scienza politica tradizionale (Jean Bodin), il ribaltamento (Thomas Hobbes) della filosofia del diritto. L’esito di queste rotture fu il trattato di Westfalia del 1648, che pose fine alla cosiddetta Guerra dei Trent’anni e che segnò il tramonto della Cristianità medievale. Fino al regno di Filippo V, la Spagna risultò indenne dalle lacerazioni europee e perciò diventò il presidio della vera tradizione. In effetti, già la Spagna di Carlo V era diventata la ridotta della Cristianità ed aveva assunto il carattere del regno irriducibile al mondo moderno: “Un reino cuyo monarca, aun sin tener el título imperial, asumiera las obligaciones y los derechos pertinentes al mantienimento y reinstauración de la pax christiana” [20].
Il cattolicesimo ispanico non fu del tutto indenne dagli errori della scolastica medievale. Se non che, il compito che la monarchia ispanica assunse dopo la disgregazione dell’impero di Carlo V, impedì che la decadenza della metafisica si traducesse, come accadde in altre parti d’Europa, nella cultura dell’assolutismo e, in ultima analisi, nel tralignamento rivoluzionario delle dinastie. Nella peculiarità ispanica insorsero e si affermarono poi nuove ed originali tendenze, che conferirono credibilità all’argine cattolico contro la dilagante deriva profana. Fedele alla dottrina di San Tommaso, Francisco De Vitoria, ad esempio, assume la guida dell’opposizione a quei regalisti dell’università di Parigi, che teorizzavano l’egemonia del potere civile sull’autorità ecclesiastica [21]. De Vitoria si distinse dai fautori del potere ecclesiastico diretto e in tal modo anticipò le definizioni formulate da Leone XIII nelle fondamentali encicliche “Humanum genus” e “Immortale Dei”. Allievo di De Vitoria fu Melchior Cano, autore di una monumentale opera, “Loci theologici”, che costituisce il solido fondamento del tradizionalismo ispanico [22]. Questi due maestri, insieme con gli altri esponenti della scuola giusnaturalista (Bartolomé de Las Casas, Francisco Suarez, San Roberto Bellarmino, Juan De Mariana ecc.) orientarono i difensori delle libertà concrete minacciate dalla cultura della modernità. De Tejada sostiene che nell’opera di uno strenuo difensore delle antiche libertà, Aparisi y Guijarro [23], vi si trova un richiamo dell’insegnamento di Cano: “Se trata simplemente de la Teología que cabe en el catecismo. Utilizando el lenjuage que para siempre perfiló la gigantesca figura de Melchior Cano, pudiéramos decir que su immediato lugar non es otro que el Ripalda” [24]. Di qui una corretta impostazione del rapporto tra potere spirituale e potere temporale, cioè l’inversione della tendenza moderna a cercare la libertà nella depressione dell’autorità ecclesiastica. De Tejada definì così la libertà concepita dal tradizionalismo ispanico: “No hay mayor guardián de la libertad que el Papa, azote de los poderosos y tribuno de los pueblos y nombre del Dios de los humildes. Bien puede decirse que el anatema de San Pedro fue en ciertas épocas la libertad del mundo. Guardián de la ordenada libertad cristiana y, por ende, conservator insuperable de los sistemas politicos” [25].
La proposta di affidare al papato la funzione
di moderador supremo del mundo civilizado
venne avanzata, dunque, per la prima volta dai depositari della Tradizione
Ispanica. Si trattò di un progetto in sintonia con la rivendicazione del
diritto della Santa Sede all’esercizio di un potere temporale: diritto
riconosciuto, tra l’altro, dal Concordato del 1929. Per non lasciare dubbi al proposito, De Tejada dichiarò la coincidenza del
pensiero carlista con la corrente guelfa: “La causa santa de la Tradición ispanica … a
mantener en pié los últimos lienzos
de la fábrica que sobre cimientos güelfos nosotros reconstruimos en el siglo XVI” [26].
E dal canto suo, Alexandra Wilhelmsen
dimostrò che “Per la sua base popolare il
carlismo aveva una profonda coscienza sociale. La ricerca costante della
stabilità e dell’armonia sociopolitica evitava che si sviluppasse un sentimento
classista o la rivendicazione di interessi esclusivi di un solo gruppo sociale.
I tradizionalisti ispanici cercavano la giustizia sociale attenuando gli aspetti
più negativi del sistema economico che si era imposto dopo la fine del XVIII
secolo. Pensavano che il governo dovesse esercitare una modesta funzione
regolamentatrice dell’economia” [27]. In questa considerazione della politica,
il politologo Silvio Vitale vide
riflessi della teologia controriformista e della filosofia vichiana,
cioè l’indirizzo “anti aristocratico ed egualizzante delle monarchie tradizionali”.
Trattasi, ovviamente, di un orientamento opposto a quello dei ‘reazionari’ di
varia risma, “convinti che la migliore
società fosse quella divisa in classi diverse, titolari di privilegi ineguali.
Il Vico, al contrario, aveva tracciato invece una filosofia che lo portava ad
individuare la monarchia nelle sue ragioni storiche, nella sua nascita, nel suo
sviluppo pieno e nella sua crisi, come mossa da un ineluttabile disegno della
Provvidenza” [28].
[1] Cfr.: “La monarchia tradizionale”, a cura di Pino Tosca, Editrice Controcorrente, Napoli 2001, pag. 93.
[2] La nota di Pastori in: Gioacchino Ventura di Raulica, “Gli scritti del 1820 Dall’adesione alla rivoluzione costituzionale al deluso riflusso conservatore”, a cura di Paolo Pastori, con una premessa di Mario D’Addio, Ed. Vetus ordo novus, Firenze 2005, pag. 63.
[3] Il barnabita savoiardo Giacinto Sigismondo Gerdil seguì Malebranche nel tentativo di addomestica a filosofia cartesiana.
[4] Pierre-Daniel Huet /1630 – 1721) fu collaboratore di Bossuet. Nel 1689 pubblicò una (cauta e tortuosa) critica a Cartesio, “Censura philosophiae cartesianae”.
[5] Louis Gabriel de Bonald ritrattò l’iniziale adesione alle idee rivoluzionarie e si dedicò alla fondazione di una filosofia coerente con il presupposto della rivelazione primordiale. Sul pensiero bonaldiano cfr.: Henri de Bonald, “Notice sur la vie et les ouvrages de M. le vicomte de Bonald”, Parigi 1841,
[6] Felicité Robert La Mennais (1782 – 1854) continuò l’opera bonaldiana sviluppando la teoria dell’unanime consenso; il pensiero collettivo conosce e rivela le verità nascoste alla ragione dei singoli.
[7] Louis Eugène Bautain (1796 – 1867) ha usato la tesi scettica di Geulincx (l’unica cosa certa è che le cose non sono in se stesse come l’uomo le vede) per affermare la legittimità della soluzione fideistica: la ragione è totalmente incapace e può riscattarsi solo ricorrendo al germe vivificante della fede.
[8] Augustin Bonnetty (1796 – 1879) assertore dell’impossibilità della conoscenza razionale, si distinse come promotore di una violenta polemica contro la scolastico ortodossa.
[9] Sul tradizionalismo cfr. anche: Régis Jolivet, “Corso di filosofia”, II, 2, § 167, Ed. Paoline, Roma 1978.
[10] Al riguardo cfr. il magistrale saggio di don Dario Composta, “L’intersoggettività di comunione linguistica”, in “Intersoggettività e morale”, ESI, Napoli 1999.
[11] “Législation primitive considerée dans les derniers temps par les seules lumières de la raison”, Paris, 1817, I, 1.
[12] Sul tema della rivelazione primordiale cfr. Attilio Mordini, “Verità del linguaggio”, Giovanni Volpe editore, Roma 1974, opera ardita e baluginante, che tenta la correzione dello schema bonaldiano e il suo adattamento al tomismo.
[13] Su questo aspetto del pensiero vichiano cfr. l’interessante saggio di Moisés Biondi, “Tradizione volgare Il mito in G. B. Vico”, Egic – Scriptoria, Genova 2006.
[14] Sum. Theol., I, q. 91, a. 3.
[15] “Uno modo secundum quod opponitur servituti et sic dominus dicitur cui aliquis subditur ut servus”
[16] “Alio modo accipitur dominium secundum quod communiter refertur ad subiectum qualitercumque et sic etiam ille qui habet officium gubernandi et dirigendi liberos dominus dici potest”
[17] De Civ. Dei, XIX, 14.
[18] Di Francisco Elias de Tejada (Siviglia 1916 – Madrid 1978). Miguel Ayuso scrive che “Paco Elias tenia una mente de superman, como repetía nuestro llorado amigo y maestro el professor Sciacca”. De Tejada completò gli studi con straordinaria celerità e senza apparente fatica. Prese parte alla guerra civile combattendo valorosamente nelle file della milizia carlista. Ancora giovane, scalò i gradi della gerarchia accademica e diventò cattedratico di filosofia del diritto. Juan Vallet de Goytisolo ha definito la filosofia tejadiana “Antropocentrismo relativo, en quanto es, a sua vez, radicalmente téocentrico”. La biografia e l’analisi del pensiero tejadiano nel saggio di Miguel Ayuso, “La filosofia juridica y politica de Francisco Elias de Tejada”, Fondazione Tejada, Madrid 1994. Cfr. anche: Consuelo Caballero Baruque e Paolo Caucci von Sauken, “Bibliografia di Francisco Elias de Tejada”, Università di Perugia, Perugia 1974; Pino Tosca, Introduzione a “La monarchia tradizionale”2, Controcorrente, Napoli 2001; Aa. Vv., Numero speciale della rivista “Traditio” dedicata a Francisco Elias de Tejada, Thule, Palermo 1988; Pino Tosca, “Il cammino della Tradizione”2, Il Cerchio, Rimini 1997.
[19] Cfr.: “Perché siamo tomisti”, relazione al convegno tomista tenuto a Genova nell’aprile 1974, in “Traditio”, giugno 1978.
[20] Cfr.: “Antonio Aparisi y Guijarro en la tradicíón valenciana”, in Aa. Vv., “Aparisi y Guijarro las claves de la Tradicíón Pólitica Española”, Ediciones Montejurra, Sevilla 1973, pag. 78.
[21] Francisco De Vitoria, (Vitoria 1492 – Salamanca 1546) dopo gli studi compiuti nell’università di Parigi, ebbe da Caietano l’incarico di curare la nuova edizione della Summa theologiae di San Tommaso. Nel 1522 l’università di Valladolid lo nominò docente di teologia e nel 1526 fu promosso alla cattedra di Salamanca. Carlo V lo designò come suo teologo al Concilio Tridentino, ma De Vitoria declinò l’invito.
[22] Il domenicano Melchior Cano (Taracón 1509 – Toledo 1560) fu uno straordinario innovatore degli studi teologici. A lui si deve la fondazione della scienza delle fonti teologiche, cui dedicò il meglio delle sue energie. Nei dodici volumi dei “Loci theologici”, Cano esamina le diverse fonti della teologia, cioè la Sacra Scrittura, la tradizione orale, le sentenze dell’autorità romana, del definizioni dei Concili, le tesi dei Padri e degli scolastici.
[23] Sul carlismo cfr.: Paolo Caucci von Saucken, “Breve storia del carlismo”, Thule, Palermo 1980.
[24] Cfr.: “Aparisi y Guijarro: la claves de la Tradición Politica Española”, op. cit., pag. 66,
[25] Cfr.: .: “Aparisi y Guijarro: la claves de la Tradición Politica Española”, op. cit., pag. 92.
[26] Cfr.: .: “Aparisi y Guijarro: la claves de la Tradición Politica Española”, op. cit., pag. 93.
[27] Cfr.: “Lo svolgimento dell’ideologia carlista, 1833 – 1876”, nella rivista “L’Alfiere”, Napoli maggio 2002.
[28] Cfr.: Francisco Elias de Tejada, “Perennità del pensiero vichiano”, in Aa.Vv., “Vico maestro della Tradizione”, Thule, Palermo 1976, pagg. 18 – 19.
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