Anche di recente, il Presidente turco Erdogan, in feroce polemica col Presidente francese Macron per via delle vignette di Charlie Hebdo, ha evocato il termine “islamofobia” per stigmatizzare una presunta persecuzione dei Musulmani in Europa. Pochi anni fa, il Sultano di Ankara non ha mancato di esercitare pressioni politiche affinché venga riconosciuto dalla UE il “reato di islamofobia” che, se approvato, di fatto impedirebbe anche solo di criticare civilmente l’ideologia islamica e la Sharia:
Sarebbe insomma come voler approvare una legge che impedisca a un liberale di criticare un socialista o, viceversa, sostenere che Marx, invece di scrivere il “Il Capitale”, avrebbe dovuto farsi curare da uno bravo perché soffriva di “Capitalfobia”. Ma la cosa scandalosa è che i media e i politici della cosiddetta UE, invece di alzare forte la voce e difendere la libertà di critica, fondamento della nostra civiltà, fanno orecchie da mercanti. Cioè di quella stessa categoria professionale che Gesù cacciò dal tempio, tanto per far capire da che razza di gente pavida e infida siamo governati. Ma vediamo una volta per tutte di analizzare sia l’aspetto irrazionale del concetto di “Islamofobia” che il suo substrato totalitario. Con il termine “Fobia” si indica un disturbo psicologico che causa paura o attacchi di panico per pericoli inesistenti: per dirla con una battuta, un claustrofobico avrebbe paura perfino ad entrare in una cabina elettorale. Ma l’Islam è o non è un pericolo per l’Europa? Direi proprio di sì, perché il diffondersi di una religione che predica valori diversi dai nostri in termine di libertà civili e democrazia, non può non essere considerato un fattore di rischio sul quale tutti dovremmo riflettere. Che il pericolo si stia concretizzando sotto i nostri occhi è dimostrato dagli interi quartieri che i musulmani controllano in parecchie capitali europee, dallo stillicidio di attentati compiuti con qualsiasi arma o mezzo, dall’ondata di stupri ai danni delle nostre donne e dai delitti di (cosiddetto) onore compiuti ai danni delle loro donne. E, per favore, non ci vengano a dire che “tutto questo non ha nulla a che vedere con L’islam”, dato che nel Corano è prevista e incoraggiata la guerra santa contro gli infedeli e non solo a scopo difensivo, come dimostrato da questi due famosi versetti, scelti tra i tanti di analogo contenuto:
“Quando poi saranno trascorsi i mesi sacri, uccidete gli idolatri dovunque li troviate, prendeteli, circondateli, appostateli ovunque in imboscate.”
(IX – 5)
“Combattete coloro che non credono in Dio e nel Giorno Estremo, e che non ritengono illecito quel che Dio e il Suo Messaggero han dichiarato illecito, e coloro, fra quelli cui fu data la Scrittura, che non s’attengono alla Religione della Verità. Combatteteli finché non paghino il tributo, uno per uno, umiliati.”
(IX – 29)
Da quanto appena esposto consegue che avere paura dell’Islam non è affatto irrazionale o patologico, quindi non ha senso parlare di fobia: togliamocela tranquillamente dalla testa, ricordando bene che l’unica fobia da temere è quella per l’intelligenza. Ma veniamo al sottinteso totalitario insito nel concetto di “Islamofobia”, intesa come disturbo mentale. Patologizzare il dissenso politico come malattia mentale è tipico dei peggiori regimi dittatoriali: non era forse Stalin che spediva nei suoi manicomi-lager i dissidenti più fortunati (cioè quelli che scampavano alla fucilazione), colpevoli di non apprezzare abbastanza il Paradiso Sovietico nel quale avevano il privilegio di vivere?
La parola “Islamofobia” dunque, è di per sé gravida di un diktat totalitario che i regimi islamici ci impongono proprio come primo gesto di sottomissione. Farci condizionare da questo concetto ridicolo sarebbe come riconoscere implicitamente l’idea che siamo affetti da una malattia mentale, la cui “cura” consisterebbe nell’accettazione dell’Islam e delle sue leggi illiberali.
Dovremmo dunque mettere in conto anche le spese psichiatriche, oltre a quelle legali, per aver osato esprimere il nostro dissenso a una cultura così aliena dai nostri valori di libero pensiero?
Detto ciò, vorrei concludere con una riflessione di carattere più generale, che non riguarda solo l’Islam ma qualsiasi cultura che entri in rotta di collisione con i nostri valori, per giunta nelle nostre terre: perché mai dovremmo preoccuparci più di tanto dell’atteggiamento da adottare nei confronti di tali culture, se il prezzo da pagare è l’indebolimento e perfino il collasso della nostra identità e finanche dello Stato di diritto nel quale viviamo? A tal proposito propongo al lettore un brano di Spinoza, da mettere in relazione con i pietistici soccorsi in mare e con l’accoglienza di gente che si mette volontariamente nelle condizioni di naufragare, sapendo che tanto li andremo a raccattare. Si tratta di una citazione un po’ lunga, ma che vale la pena di leggere e di meditare, soprattutto dopo i recenti attentati di Parigi, Nizza e Vienna:
“L’amor di patria è certamente l’espressione più alta di devozione che si possa dare. Nessun bene infatti può sussistere, se si distrugge lo Stato; ogni valore sarà esposto al pericolo
e, nel terrore generale, ogni azione sarà determinata dall’ira e dall’empietà. Perciò la pietà verso il prossimo, qualora ne derivi il danno del complesso della comunità politica, si trasforma in empietà e, viceversa, qualunque azione intesa alla conservazione della comunità politica non può non essere considerata conforme alla pietà anche se è stata empiamente commessa ai danni del prossimo. Per esempio, è conforme a pietà che io dia anche il mio mantello a chi mi assale per rubarmi la tunica; ma se ciò è giudicato dannoso ai fini della salvezza della comunità, sarà conforme a pietà portare il ladro davanti al tribunale anche se per questo egli incorrerà nella pena capitale. La gloria di Manlio Torquato (1) è appunto dovuta alla maggior considerazione che, rispetto all’amore per il figlio, ebbe presso di lui la salvezza del popolo. La salvezza del popolo viene così ad essere la legge suprema alla quale vanno commisurate tutte le altre leggi umane e divine.”
(Baruch Spinoza, “Trattato teologico – politico”)
- Come narra Livio (VIII, 7), Manlio Torquato condannò a morte il proprio figlio perché, durante una guerra contro i Latini (337 a. C.), affrontò e superò un cavaliere latino, trasgredendo così all’ordine del padre che proibiva di combattere in singolar tenzone.
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