I percorsi che conducono alla radicalizzazione in Italia come nel resto d’Europa sono molteplici. Le porte d’ingresso possono essere parenti, amici o conoscenti occasionali; predicatori estremisti, veterani di vari conflitti e militanti che frequentano moschee o centri culturali e di aggregazione sociale; Internet e le comunicazioni online. Non ultimo, uno dei luoghi privilegiati per l’indottrinamento e il reclutamento è il carcere. Le criticità ambientali rendono infatti quello carcerario un ambiente particolarmente favorevole alla trasmissione dell’ideologia e della forma mentis jihadiste, mettendo a dura prova l’efficacia delle procedure di sicurezza negli istituti penitenziari. Come supporto informativo e di analisi rivolto alle istituzioni, al mondo della politica e agli addetti ai lavori, questo report prende in esame le varie fasi del processo di radicalizzazione, le dinamiche della radicalizzazione in carcere e le criticità del caso italiano, che attengono sia alle politiche di sicurezza penitenziaria che a quelle di de-radicalizzazione. Le riflessioni e le proposte d’intervento qui elaborate sono il frutto delle attività di ricerca, formazione e informazione, delle conferenze e delle tavole rotonde realizzate dal Centro Alti Studi “Averroè” sul tema della radicalizzazione e della lotta al terrorismo jihadista.
Il processo di radicalizzazione
La
comprensione del processo di radicalizzazione è di fondamentale importanza per
il contrasto al terrorismo. Si tratta di una trasformazione psicologica ed
emotiva attraverso la quale un individuo fa proprie idee e finalità
politico-religiose sempre più radicali, con la convinzione che il
raggiungimento di tali finalità giustifichi metodi estremi. Alla trasformazione
segue un cambiamento di tipo comportamentale. Il tutto può avvenire in tempi
brevi: possono bastare 3 o 4 settimane.
I soggetti che intraprendono questo processo presentano di solito già fattori personali e contestuali che li rendono suscettibili alla radicalizzazione, come l’aver vissuto un’esperienza traumatica, la ricerca di un’identità, l’aver subito discriminazioni o situazioni di disagio economico, la scarsa integrazione. In Europa, i profili dei jihadisti includono criminali che vivono ai margini della società, ma anche laureati e professionisti affermati, oppure adolescenti e cinquantenni, convertiti senza conoscenze religiose pregresse e studiosi di teologia islamica, sia uomini che un numero crescente di donne. Esaminarne il profilo e la storia consente di scoprire le motivazioni alla base delle loro specifiche reazioni a stimoli, influenze e forze esterne durante la radicalizzazione. Ad esempio, coloro che vivono già nella violenza, vedono nella religione un pretesto per canalizzare un’intima rivolta personale contro il sistema e la società, percepiti in maniera ostile, e trovano nell’ISIS una struttura flessibile e pragmatica in cui realizzare il desiderio di contrapporsi allo status quo. È così che l’Islam è divenuto impropriamente un simbolo di rivolta anti-sociale. Il presentarsi di fattori personali e contestuali costituisce la prima fase del processo di radicalizzazione ed è il presupposto per le quattro fasi successive. Nella fase d’identificazione, l’individuo si allontana progressivamente dalla sua precedente identità culturale, politica e religiosa, e dai comportamenti solitamente adottati, per entrare nella sua nuova personalità a cui corrispondono diversi abitudini e modalità relazionali. È questo il momento della sperimentazione ideologica: la persona non è ancora radicalizzata e non possiede nozioni approfondite dei sistemi di pensiero dei gruppi estremisti, ma si avventura nel primo approccio con gli ambienti radicali, facendo esperienza della simbologia e adottando posizioni radicali non pienamente sviluppate per senso di rivalsa contro la propria famiglia o la società.
Nella fase dell’indottrinamento, gli estremisti in fieri cominciano a isolarsi, ad
abbracciare pienamente la visione jihadista del mondo, convinti che sia la
soluzione ai problemi della società. L’esito
sarà l’interiorizzazione dell’ideologia
jihadista, sebbene il livello di radicalizzazione non si trovi
ancora a un punto tale da spingere l’interessato a infrangere la legge o
a usare la violenza. La fase di manifestazione è caratterizzata dall’impegno
personale nella promozione della nuova ideologia, con l’obiettivo di dirigere
il mondo circostante al cambiamento ritenuto necessario, anche attraverso
l’azione violenta. Questa fase coincide con il reclutamento in gruppi estremisti.
Quando l’identità della persona è del tutto assimilata a quella del gruppo e della sua ideologia, il processo raggiunge la sua fase finale: il terrorismo. Non si tratta naturalmente di un processo lineare. Può infatti subire battute d’arresto e anche essere abbandonato completamente. Di qui, l’importanza dell’elaborazione e della diffusione di contro-narrative che possano neutralizzare la persuasività del discorso estremista nella fase d’identificazione e d’indottrinamento.
Le prigioni come luogo di radicalizzazione
Le dinamiche che caratterizzano le cinque fasi del processo di radicalizzazione possono realizzarsi in diversi luoghi e tra questi c’è il carcere. La prigione come fabbrica di terroristi dunque, un fenomeno diffuso in tutti i paesi dell’Europa occidentale. La presenza di detenuti estremisti che svolgono attività di proselitismo per spingere altri detenuti a radicalizzarsi è un male comune ai sistemi penitenziari di Francia, Belgio, Gran Bretagna, Germania, Spagna e Italia. In carcere, circolano testi che incitano all’odio e alla violenza, mentre possono formarsi reti di jihadisti in contatto con affiliati all’esterno per pianificare attacchi terroristici. Il ritorno dei “foreign fighters” dopo il crollo dell’avamposto territoriale dell’ISIS in Siria e Iraq, ha accresciuto ulteriormente la preoccupazione sulla gestione di nuovi detenuti estremisti difficilmente de- radicalizzabili e in predicato di svolgere attività di proselitismo. Il processo di radicalizzazione in carcere ha finora riscosso i maggiori successi in Francia. Adel Kermiche, il giovane che con Abdel Malik Petitjean ha sgozzato il sacerdote cattolico Jacques Hamel della chiesa di Saint- Étienne-du-Rouvray presso Rouen, era stato rilasciato di recente da Fleury- Mérogis, un carcere di massima sicurezza a sud di Parigi, dove aveva trovato la sua “guida spirituale”. Nella stessa prigione, si trova ora Salah Abdeslam, l’unico sopravvissuto della strage del Bataclan a Parigi, accolto dai detenuti come un messia. Amedy Coulibaly, l’uomo ucciso a Parigi dopo aver preso degli ostaggi in un supermercato kosher, raccontò a un giornalista francese di essersi interessato all’Islam in prigione: il suo mentore era stato Djamel Beghal, un reclutatore di Al Qaeda che stava scontando dieci anni di carcere per terrorismo. Nella stessa prigione, Coulibaly aveva incontrato i due fratelli Kouachi, gli attentatori di Charlie Hebdo.
Perché la prigione è un luogo
favorevole alla radicalizzazione? Frustrazioni e risentimenti, il sovraffollamento, le condizioni detentive spesso inadatte, la
percezione di essere discriminati sono quei fattori che singolarmente o combinati posso determinare le condizioni personali e contestuali adatte all’innesco di processi di radicalizzazione. I detenuti convivono in uno spazio ristretto e ciò favorisce il contatto tra gli “agenti” del proselitismo estremista e soggetti che entrano in carcere come semplici praticanti o non credenti, ma poi finiscono per essere integrati nelle reti jihadiste. Vale l’esperienza francese, con i numerosi attentati di ex piccoli delinquenti trasformati dal carcere in terroristi. Quali sono gli indicatori che segnalano che un detenuto potrebbe aver intrapreso un percorso di radicalizzazione? Innanzitutto, l’aspetto esteriore della cella, decorata con tappeti da preghiera, calligrafie islamiche e graffiti, l’affissione di poster di gruppi terroristici o che richiamano attentati come quello dell’11 settembre. Poi, la modifica dell’aspetto esteriore del soggetto, che comincia a indossare abiti più tradizionali o si fa crescere la barba, mettendo in mostra segni esteriori di conversione o di allineamento alla causa jihadista. Alcuni, ricorrono alla dissimulazione, la taqiyya dei Fratelli Musulmani, sforzandosi di mantenere un aspetto “occidentale” per passare inosservati.
Dal punto di vista comportamentale, gli interessati prendono le distanze da altri detenuti, musulmani e non, la cui condotta non è conforme all’Islam radicale. Da questi possono persino non farsi toccare, rifiutandosi di condividere le docce, i pasti, l’uso della lavanderia e di partecipare ad attività quotidiane con persone di altra fede religiosa. Mostrano un senso di superiorità, che può indurli ad attaccare soprattutto i musulmani moderati sia verbalmente che fisicamente. S’impegnano invece nell’esercitare un’influenza sui detenuti ritenuti maggiormente malleabili, al fine di guadagnarli alle loro idee e portarli a diventare dei veri pii musulmani, inserendoli nei gruppi chiusi che hanno formato e che restano isolati rispetto all’ambiente circostante.
A cambiare è
anche il comportamento nei confronti delle donne, con cui si rifiutano di
comunicare o interagire, stringendo loro ad esempio la mano, mentre non
obbediscono più alle istruzioni del personale femminile. In generale, mostrano
un comportamento ostile e aggressivo verso l’intero personale penitenziario,
degli operatori sociali, degli psicologi e degli avvocati (possono rifiutare un
avvocato non musulmano o qualunque avvocato). Ricercano deliberatamente lo
scontro verbale con il personale penitenziario, specie con le autorità, o
manifestano un’assenza pressoché
totale di reazione di fronte a loro, rifiutandosi di rispondere alle domande e disobbedendo alle eventuali sanzioni comminate. Per ottenere la soddisfazione di speciali rivendicazioni, possono sia ricorrere allo sciopero della fame, che aggredire fisicamente il personale penitenziario, compiere atti di distruzione con mezzi pericolosi, provocare incidenti o scatenare sommosse.
Per quanto riguarda il modo di rapportarsi al mondo esterno, i contatti con familiari e amici si diradano, fino alla rottura delle relazioni. D’altro canto, viene manifestato il desiderio di ricevere visitatori sospetti. Gli interessi “culturali” prendono una deriva chiaramente fondamentalista, con l’assidua lettura dei testi di propaganda che fanno l’apologia del jihad e la consultazione di siti web che illustrano storie e ideologie di tipo radicale, nonché le tecniche per la fabbricazione di bombe. La pratica della religione s’intensifica significativamente e diviene più isolata, secondo i rituali tipici dei circoli estremisti. I detenuti radicalizzati o in via di radicalizzazione rifiutano spesso l’imam che gli viene accreditato ed esercitano pressioni per indicare un imam che sia ideologicamente di loro gradimento. Talvolta, la leadership religiosa viene assunta da un “imam autoproclamato”, che dirige le preghiere e le attività di culto collettive, occupandosi anche dei sermoni. Detenuti non accusati o condannati per fatti associati a terrorismo possono dichiararsi prigionieri politici. Nei commenti sugli avvenimenti politici correnti, si rileva un rigetto totale del sistema democratico, dei valori occidentali e delle costituzioni degli Stati civili poiché in contrasto con la legge religiosa (sharia). Ricorrenti è l’affermazione per la quale i musulmani sono vittime di un complotto imperialista internazionale. Le altre religioni sono oggetto di critiche, mentre è continua l’insistenza verso il degrado morale e la decadenza dell’Occidente.
Il caso italiano
Contrariamente
alla Francia, che annovera numerosi autori di attacchi terroristici radicalizzatisi in carcere, le prigioni italiane hanno prodotto finora
il “solo” Anis
Amri, per quanto
il tunisino divenuto terrorista nelle sue esperienze
carcerarie in Sicilia, si sia macchiato della strage natalizia di Berlino, una
delle più gravi verificatisi sul suolo europeo.
Ciò significa che anche il sistema
penitenziario italiano presenta le condizioni che lo rendono un luogo
favorevole alla radicalizzazione. A confermarlo sono i numerosi casi riportati
dalla cronaca giornalistica, che forniscono uno spaccato a dir poco allarmante della realtà dei penitenziari dove sono reclusi condannati per reati legati all’estremismo e al terrorismo.
Ad esempio, il detenuto nel carcere di Pisa che ha devastato la sua cella incendiandola e che, dopo aver compiuto atti di autolesionismo, ha cercato di aizzare i compagni in nome del Califfato. Al Califfato inneggiavano durante una rissa alcuni detenuti del carcere di Padova, dove imam fai-da-te si sono spinti fino alla celebrazione di mujaheddin e talebani, gli stessi che in un attentato hanno ucciso soldati italiani in Afghanistan, per l’esultanza dei detenuti estremisti rinchiusi nella casa circondariale di Macomer in Sardegna. A Macomer, i detenuti hanno chiesto infermiere con il velo e bollato gli agenti di guardia come “fascisti, razzisti o servi degli americani”, in linea con l’orientamento di Raphael Gendron, un convertito francese arrestato a Bari che è stato per anni l’imam fai-da-te della prigione prima di morire in Siria dopo essere stato rilasciato. In diverse carceri italiane, i detenuti hanno protestato alla vista di guardie con la croce cristiana al collo e non hanno permesso agli agenti di toccare il Corano per controllare se tra le pagine ci fossero nascosti dei messaggi, istruzioni o oggetti potenzialmente pericolosi. Gli agenti non intendevano mancare di rispetto alla religione islamica, ma il loro obiettivo era di evitare quanto accaduto in Spagna, dove è stata smantellata una rete jihadista estesa in ben 15 centri di detenzione. La rete era composta da 25 detenuti, alcuni dei quali radicalizzatisi in cella, che utilizzavano “pizzini” per comunicare.
Nel carcere
di Velletri, l’imam fai-da-te tunisino, Firas Barhoumi, ha radicalizzato il macedone Vulnet Maqelara, con esperienza di guerriglia in Kosovo e di criminalità comune, pronto a unirsi al jihad in Iraq, dove il
suo mentore si era recato dopo la scarcerazione. Tra i casi di italiani convertiti e radicalizzati in carcere, un centinaio, il
più eclatante è stato finora quello di Domenico Quaranta, passato nelle file
del jihad nel penitenziario di Trapani e arrestato nuovamente per la
preparazione di attacchi terroristici ad Agrigento e nella metropolitana di Milano. Quaranta si
è poi affermato come imam fai- da-te all’Ucciardone di Palermo. La radicalizzazione in carcere e
la gestione di detenuti estremisti o a rischio è, pertanto, una questione che
investe pienamente la sicurezza nazionale e
che richiede un nuovo approccio
per superare le carenze sin qui manifestate.
Secondo i dati ufficiali del Ministero della Giustizia, aggiornati al 28 febbraio 2019, i detenuti stranieri, già condannanti o in attesa di giudizio, rappresentano un terzo del totale: 20.325 su 60.348. Significa che più di un detenuto su cinque può essere di fede musulmana, come stimato in un recente studio dell’ISPI (F. Marone, La radicalizzazione jihadista in carcere: un rischio anche per l’Italia, 7 marzo 2019), dove sono riportati anche i dati forniti dal Ministero della Giustizia nella sua relazione del 2018 sul numero dei detenuti praticanti, che ammonta a 7.169. Tra questi, 97 sono gli imam che conducono la preghiera, 88 quelli definiti come “promotori”, in quanto portavoce delle esigenze e delle rivendicazioni di altri detenuti, 44 i convertiti durante il periodo di detenzione.
I paesi musulmani con un numero maggiore di detenuti sono Marocco (3.762 detenuti) e Tunisia (2.047), seguiti da Albania (2.594), Nigeria (1.588),
Egitto (586), Algeria (482), Pakistan (286), Bosnia (213), Afghanistan (88), Kosovo (83). Si tratta di paesi notoriamente afflitti da fenomeni terroristici interni o da cui i gruppi jihadisti traggono militanti in Europa. Al riguardo, crescente preoccupazione è stata di recente espressa dalla Direzione Investigativa Antimafia (DIA) per i legami tra la cosiddetta “mafia nigeriana” in Italia e organizzazioni terroristiche attive in Nigeria come Boko Haram. La DIA ha inoltre invocato la massima attenzione da rivolgere agli istituti penitenziari “per evitare che si alimenti la radicalizzazione”.
Sempre secondo il Ministero della Giustizia, sono 66 i detenuti già condannanti o in attesa di giudizio per reati riconducibili al “terrorismo internazionale di matrice islamica”, il “10% in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente”. Al contempo, come osserva lo studio dell’ISPI, i 478 soggetti sottoposti ai vari livelli del regime di Alta Sicurezza (alto, medio, basso) per rischio di radicalizzazione jihadista provengono principalmente da Tunisia (27,70%), Marocco (26,07%) Egitto (5,91%) e Algeria (4,68%). D’altro canto, la radicalizzazione può avvenire anche nei circuiti comuni, dove detenuti estremisti arrestati per reati minori possono adescare agevolmente compagni di cella e di detenzione, indottrinandoli fino al reclutamento in gruppi jihadisti.
La crescente
rilevanza del fenomeno in Italia è inoltre dimostrato dal numero delle
espulsioni. Se nel 2017, il Ministero della Giustizia ha calcolato che su un
totale di 105 stranieri espulsi, 29 provenivano dal regime di Alta Sicurezza
(espulsi subito dopo la scarcerazione), questo numero nel 2018 è salito a 48 su
126. Misure volte a rafforzare la sorveglianza, il controllo e la
prevenzione sono state adottate dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP) del Ministero della Giustizia, ma non sembrano sufficienti a fornire alla Polizia Penitenziaria gli strumenti adeguati né a gestire efficacemente i detenuti estremisti né ad affrontare il fenomeno della radicalizzazione in carcere. Al contrario, l’introduzione della “vigilanza dinamica” e del “regime penitenziario aperto”, come denunciato ripetutamente dal Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria (SAPPE), favorisce il proselitismo e la diffusione del fondamentalismo in carcere. Come se non bastasse, gli interventi a sostegno del personale penitenziario, nonché le iniziative di rieducazione e reintegrazione dei detenuti, sono state affidate agli imam “certificati” dell’Unione delle Comunità Islamiche in Italia (UCOII), l’appendice in territorio italiano dei Fratelli Musulmani, l’organizzazione transnazionale islamista dalla cui ideologia ha preso le mosse l’intero movimento jihadista contemporaneo, da Al Qaeda all’ISIS.
Il fallimento della “Vigilanza Dinamica” e del “Regime Penitenziario Aperto”
Lo
smantellamento delle politiche di sicurezza carceraria, in nome della
“vigilanza dinamica” e del “regime penitenziario aperto”, ha avuto come grave conseguenza l’incremento
esponenziale degli “episodi critici” nelle prigioni di tutta Italia.
Il SAPPE ha fornito le seguenti cifre riguardanti il primo
semestre del 2019: 5.205 atti di
autolesionismo, 683 tentati suicidi, 4.389 colluttazioni, 569 ferimenti, 22
suicidi, 2 tentati omicidi, più diversi casi di evasione (5 da istituto, 23 da
permessi premio, 6 da lavoro all’esterno, 10 da semilibertà, 18 da licenze concesse
a internati). Tra gli “episodi critici”
registrati, anche quelli causati da detenuti estremisti, con il
ferimento di agenti, la distruzione di celle e atti d’intemperanza, come quelli
avvenuti nella Casa Circondariale “Giovanni Bachiddu” di Bancali, provincia di Sassari. La situazione di emergenza
del carcere di Bancali è giunta a un punto tale
da indurre gli agenti aderenti al SAPPE a non partecipare per protesta alla Cerimonia celebrativa
dell’Annuale del Corpo, svoltasi giovedì 1°
agosto. Da anni, il SAPPE richiede la sospensione della “vigilanza dinamica” e del “regime penitenziario aperto”, a causa dell’oggettivo
peggioramento delle condizioni nelle quali la Polizia Penitenziaria si trova a svolgere il proprio lavoro, specie
nel settore riservato
ai soli detenuti per reati di terrorismo. Il numero di sentinelle
sui muri di cinta delle carceri è stato ridotto, mentre i controlli sui detenuti, autorizzati a passare fuori dalla cella tra le 8 e le 10 ore giornaliere, sono sporadici e occasionali, con il conseguente incremento degli “episodi critici” e della possibilità per i detenuti estremisti di fare proselitismo e radicalizzare.
Pertanto, è in un quadro favorevole per la radicalizzazione jihadista che nella Casa Circondariale “Giovanni Bachiddu”, Hafiz Muhammad Zulkifal Zulkifal, pakistano ed ex imam di Zingonia, provincia di Bergamo, può continuare a predicare e a guidare la preghiera di soggetti come Nabil Benamir, marocchino arrestato alla fine del 2017 con l’accusa di appartenere all’ISIS e protagonista di un paio di rivolte con altri suoi sodali in nome del Califfato.
“Impedire il proselitismo e la diffusione del radicalismo nelle carceri sospendendo il provvedimento in atto della vigilanza dinamica”: il SAPPE lo richiede dal 2015. Secondo il Segretario Generale, Danilo Capece, “non è infatti un caso la radicalizzazione di molti criminali comuni, specialmente di origine nordafricana, che pure non avevano manifestato nessuna particolare inclinazione religiosa al momento dell’entrata in carcere, che si sono trasformati gradualmente in estremisti sotto l’influenza di altri detenuti già radicalizzati. Per impedire tutto ciò è necessario sospendere il sistema della vigilanza dinamica, introdotto nelle carceri dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, che consente ai detenuti di stare molte ore al giorno fuori dalle celle, mischiati tra loro, senza fare nulla e con controlli sporadici ed occasionali della Polizia Penitenziaria”.
È questa
materia per i ministri dell’Interno e della Giustizia, il cui intervento finora è venuto a mancare
nonostante i continui appelli di Capece: “Il problema principale della
radicalizzazione in carcere è che un determinato individuo entra in carcere per
reati comuni e ne esce radicale, senza che il sistema di sicurezza esterno si
renda conto di cosa è accaduto in carcere, quali rapporti ha costruito, su
quali si è basato e, soprattutto, dove è finito dopo il fine pena. E la
vigilanza dinamica e il regime penitenziario aperto nelle carceri, che
consentono la promiscuità tra i detenuti senza controlli della Polizia
Penitenziaria, sono provvedimenti che dovrebbero essere
sospesi in via precauzionale proprio per i rischi congeniti che essi comportano”.
Il Governo in carica aveva promesso una riforma dell’ordinamento
penitenziario che avrebbe introdotto severe restrizioni alla “vigilanza
dinamica” e al “regime penitenziario aperto”, con un piano di nuove
assunzioni volto a garantire maggiore sicurezza per la Polizia Penitenziaria. Ma il “cambiamento” tarda ad arrivare.
Il paradosso Italiano: La de-radicalizzazione affidata ai Fratelli Musulmani
Un “cambiamento” si rende quanto mai necessario anche sul versante dei programmi di prevenzione della radicalizzazione in carcere e dell’assistenza al personale della Polizia Penitenziaria, poiché la scelta effettuata dal Ministero della Giustizia e dal DAP di affidarsi all’UCOII risulta a dir poco autolesionistica e paradossale.
La recente uscita del libro inchiesta Qatar Papers ha confermato il ruolo dell’UCOII quale veicolo dell’ideologia e della dottrina dei Fratelli Musulmani in Italia, nel quadro del più ampio disegno di espansione islamista in Europa finanziato dal Qatar. Nel solo biennio 2013-2014, l’UCOII ha ricevuto dalla Qatar Charity 50 milioni di euro per progetti da realizzare in tutto il territorio italiano, che perseguono evidenti obiettivi di proselitismo come certificato senza tema di smentita dalla documentazione pubblicata in Qatar Papers. L’UCOII non ha potuto negare di aver beneficiato dei finanziamenti dalla Qatar Charity, sebbene “l’acquisto di capannoni” come giustificativo delle decine di milioni ricevuti contrasta platealmente con la realtà dei fatti, stando alla quale le donazioni provenienti da Doha sono state investite in nuove moschee e centri culturali volti alla propagazione del fondamentalismo della Fratellanza dalla Lombardia alla Sicilia.
Lo scandalo Qatar Papers, dovrebbe indurre i ministeri interessati a
urgente ripensamento della loro collaborazione con l’UCOII per affidare a organizzazioni
autenticamente moderate il compito di coadiuvare la Polizia Penitenziaria nella
gestione dei detenuti di religione islamica. Gli imam “certificati” e i mediatori interculturali,
uomini e donne, disseminati dall’UCOII nel sistema carcerario italiano possono
rivelarsi efficaci nel diminuire il rischio che dall’estremismo il soggetto
passi all’azione violenta e terroristica, ma non a contrastare la diffusione dell’estremismo
in quanto tale. L’assunzione da parte dell’UCOII, su gentile concessione
dello Stato italiano, della responsabilità di condurre le attività di culto e
di fornire assistenza spirituale e psicologica non va infatti a intaccare le
basi del pensiero fondamentalista da cui prende
le mosse il jihadismo, ma serve bensì a
trasmettere ai detenuti
la convinzione che da parte dell’Islam “la conquista
di Roma, la conquista dell’Italia e dell’Europa” avverrà “senza ricorrere alla spada”, ma “attraverso la predicazione e le idee”, come dichiarato su Al Jazeera dal leader mondiale indiscusso dei Fratelli Musulmani, il venerando Sheikh Yussef Al Qaradawi, che si è speso personalmente affinché la Qatar Chairty finanziasse realtà associative legate all’UCOII come dimostrato in Qatar Papers.
Quella dell’UCOII ai detenuti radicalizzati non è altro che un’infusione di pazienza, effettuata attraverso il pretesto di contrastare “il fenomeno della vittimizzazione”, dovuto alla percezione, reale o meno, di essere discriminati perché musulmani, sostituendo “il risentimento per la propria condizione con un momento di riflessione morale e di speranza attraverso il perdono”, come spiega la stessa UCOII sul proprio sito internet. In sostanza, perdonare l’infedele, ovvero lo Stato e la società italiana che ancorano non abbracciano la fede musulmana, per far sì che la rabbia (legittima) del detenuto non sfoci nel jihadismo.
Tale approccio è consapevolmente accettato dal DAP? L’attività degli imam e dei mediatori interculturali dell’UCOII si svolge in lingua araba: che provvedimenti sono stati presi per rispondere alle critiche mosse dall’Istituto Studi Penitenziari, che ha lamentato “l’impossibilità per gli operatori di comprendere che cosa effettivamente essi [i detenuti musulmani e gli inviati dell’UCOII] si dicano durante i momenti di preghiera collettiva”, quando vengono recitati i sermoni o si tengono colloqui? Non è arrivato il momento del “cambiamento” anche per il Ministero dell’Interno e per il Ministero della Giustizia, ricorrendo a interlocutori la cui non appartenenza ai Fratelli Musulmani sia pienamente “certificata”?
De-radicalizzazione in carcere: sì ad un piano nazionale, ma senza i fratelli musulmani
La necessità
d’introdurre misure più efficaci per vincere la sfida della radicalizzazione
nelle carceri è stata sottolineata dal Parlamento Europeo nella Risoluzione
approvata il 12 dicembre 2018, sulla base delle conclusioni e delle
raccomandazioni contenute nel rapporto elaborato dalla Commissione Speciale
sul Terrorismo creata
a Bruxelles. Tale necessità è stata ribadita il 16 maggio scorso dal Consiglio Europeo,
che ha fornito agli Stati membri dell’UE le linee guida da seguire per
l’implementazione di una strategia coerente “sulla
prevenzione e la lotta alla radicalizzazione nelle
carceri e sulla gestione degli autori di reati di terrorismo ed estremismo violento dopo la scarcerazione”. L’Italia ha già messo in atto una parte delle indicazioni emanate dal Consiglio. Per colmare la distanza tra le misure effettivamente adottate e quelle indicate, il prossimo passo deve essere l’approvazione di una legge che definisca l’insieme di provvedimenti da attuare in maniera strutturata contro il fenomeno della radicalizzazione in carcere. Il tentativo effettuato nella scorsa legislatura si è infatti arenato in Senato dopo l’approvazione alla Camera. L’attuale Parlamento ha così l’opportunità, e la responsabilità, di dotare il Paese di un “piano nazionale per la rieducazione e la de- radicalizzazione”, che recepisca tutte le direttive emanate dal Consiglio, nell’ambito di una più ampia strategia di prevenzione della radicalizzazione e dell’estremismo jihadista.
L’Italia, in
particolare, è chiamata a realizzare “programmi di de- radicalizzazione, disimpegno e riabilitazione”, rivolti a quei detenuti che hanno dato segnali
di radicalizzazione non avanzata e che possono essere recuperati anche in vista
di un loro reinserimento in società dopo la scarcerazione. Maggiori
investimenti, inoltre, devono
essere riservati al settore
della formazione sia per “i professionisti e gli operatori rilevanti (personale
penitenziario, funzionari di sorveglianza […],
magistratura, ecc.)”, che per
i “rappresentanti religiosi”, a cui
potrebbe essere fornito un sostegno, per esempio una formazione specialistica,
che si incentri sulla comunicazione costruttiva e le narrazioni alternative”.
La questione principale da dirimere per l’Italia resta proprio quella
dei “rappresentanti religiosi”. Ad essi, il Consiglio attribuisce una grande rilevanza, poiché “svolgono un ruolo primario nel presentare una narrazione alternativa alle ideologie religiose
violente. Sono in grado di comprendere e, se necessario, contrastare la
concezione del mondo e le interpretazioni teologiche dei terroristi e degli estremisti violenti”. Di conseguenza, “per evitare
ogni rischio di ulteriore radicalizzazione dei detenuti, i rappresentanti religiosi che interagiscono con loro […] potrebbero essere sottoposti prima
della nomina a un’indagine di sicurezza approfondita e a una procedura di selezione”. Sulla base di quali criteri, allora, l’assistenza
spirituale e psicologica dei detenuti musulmani in Italia è stata affidata
all’UCOII? Il Consiglio incoraggia “partenariati con volontari o altri
organismi non governativi”, in modo che
questi contribuiscano alla “de-radicalizzazione e al disimpegno dei detenuti prestando loro sostegno”. Imam, teologi, esperti e mediatori interculturali autenticamente moderati potrebbero facilmente essere forniti da altre realtà associative all’interno della comunità islamica italiana. Perché, invece di rivolgersi a loro, le istituzioni competenti continuano a dare credito a un’organizzazione i cui addentellati con il fondamentalismo sono conclamati? L’ipotesi che in Italia venga stabilita l’Agenzia europea per la prevenzione della radicalizzazione e la de-radicalizzazione, rende urgente l’approvazione da parte del Parlamento di una strategia adeguata e di un “piano nazionale” per il sistema carcerario, che accolga anche le rivendicazioni del SAPPE per la sospensione, se non abolizione della “vigilanza dinamica” e del “regime penitenziario aperto”. L’Italia ha le carte in regola per poter assumere un ruolo di leadership, ma rebus sic stantibus il rischio è quello di spianare la strada a livello continentale all’avanzata dell’agenda islamista dei Fratelli Musulmani in un settore d’importanza cruciale, mettendo a repentaglio sia la sicurezza nazionale che quella europea. Il “cambiamento” è ancora possibile, cosa impedisce di realizzarlo?
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