Roberto Ricci (1905-1941), uno dei più audaci e controversi uomini del fascismo; fu un pensatore di formazione anarchica e aderì al fascismo soltanto nel 1927, vedendo in questo movimento una possibilità di riscatto politico, culturale e popolare che l’Italia non aveva mai conosciuto. Ma Ricci (matematico e politologo di vaglia) propose una sua particolare versione del fascismo a forte impronta sociale e intransigente nei confronti della borghesia (intesa come categoria dello spirito). Si fece sostenitore di «una modernità italiana ‘da venire’, condizione primissima della potenza nostra nazionale’ e affermatore ‘d’una tradizione nostra civile, arricchita di millenaria cristianità ma sostanzialmente e robustamente pagana’. Nel panorama culturale degli anni Trenta mostrò un particolare attivismo, dialogando o collaborando con personalità come Giuseppe Bottai, Julius Evola, Ernesto De Martino, Romano Bilenchi, Ottone Rosai, Camillo Pellizzi. Nel 1931, fondò L’Universale, rivista decisamente fuori dagli schemi (le posizioni quasi “di sinistra” de L’Universale vennero in compenso criticate da Roberto Farinacci, che vi vide un attentato al diritto di proprietà) e per la quale collaborarono figure autorevoli. L’Universale nacque con l’intento di “raccogliere attorno a sé quei giovani intellettuali fascisti che volevano andare oltre il capitalismo, il nazionalismo e le degenerazioni storiche del cristianesimo, e che credevano in una cultura fascista universale, che non dimenticasse le proprie tradizioni e rispondesse alle vere esigenze del fascista perfetto, puro eroe senza classe, insofferente ad ogni disciplina, irruento, intelligente e testardo apostolo dell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni”. L’ultimo numero della rivista uscì il 25 agosto del 1935, all’alba della Guerra d’Etiopia. Testardo, come tutti i fiorentini, Ricci partì volontario, come camicia nera, tenendo fede al suo animo fascista estraneo ad ogni tipo di sterile intellettualismo da salotto tipico di quella borghesia viziata e nemica della patria da lui tanto odiata. L’esperienza etiope non rimase però l’unico suo incontro con la durezza della guerra. Egli si arruolò volontario allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale e il fato volle che fu uno dei primi a cadere. Berto Ricci rimase fino agli ultimi istanti della sua vita fedele alle idee in cui credeva, lasciando ai posteri un esempio di coerenza estrema, sorretta dalla tenacia convinzione politica che lo portò a trovare la morte sul campo di battaglia. Perché bisogna avere coraggio, perché il pensiero deve coincidere con l’azione. Il fiorentino Ricci era una figura poco incline agli accomodanti signorotti che giravano intorno al regime e al suo duce; era anticapitalista, antiborghese, anticlericale, insomma un anticonformista d’altri tempi. Aveva una visione forse utopica per un paese come l’Italia, quello di superare appunto quel conservatorismo così radicato nell’animo del popolino italiota.
Egli attaccò senza scrupoli coloro che usarono il fascismo e il suo regime per scopi di opportunismo, che con il loro arraffare e scalare frenarono o stroncarono quel momento storico rivoluzionario che fu il fascismo. In questa sua ribellione anarcoide nei confronti degli arrampicatori di ogni epoca, Ricci si batté per restituire a Roma e all’Italia una dimensione universale, cioè quel primato politico e culturale che la storia gli ha affidato. Egli affermava “Crediamo nell’assoluto politico, che è l’impero: aborriamo chi lo nomina invano”. Ciò che sorprende nel pensiero di Ricci è questa continua tensione spirituale, che ne fece un pensatore antimoderno, in cui si riconosce un misto tra eroismo nietzschiano, individualismo anarchico di Max Stirner, violenza sovversiva di Georges Sorel; il tutto contornato da chiari richiami pagani affiancati da un cristianesimo guerriero di tipo templare. Questo poeta guerriero, questo soldato politico, non si arrese dinanzi alle difficoltà, battendosi con coraggio e dedizione nella Rivoluzione radicale continua che il fascismo doveva percorrere anche dopo aver conquistato il potere. Ciò lo portò a sfidare i nazionalisti e il loro pensiero ottuso e provinciale, che non giovava alla patria e non rispecchiava il destino di Roma. «Viene, dopo le finte battaglie – annotò Ricci – il giorno in cui c’è da fare sul serio, e si ristabiliscono di colpo le gerarchie naturali: avanti gli ultimi, i dimenticati, i malvisti, i derisi. Essi ebbero la fortuna di non fare carriera, anzi di non volerla fare, di non smarrire le proprie virtù nel frastuono degli elogi mentiti e dei battimano convenzionali. Essi ebbero la fortuna di assaporare amarezze sane, ire sane, conoscere lunghi silenzi, sacrifici ostinati e senza lacrime, solitudini di pietra, amicizie non sottoposte all’utile e non imperniate sull’intrigo». Per ciò professò sia il superamento del capitalismo che del nazionalismo e, rifiutando il concetto dell’uomo economico, criticò sia il materialismo marxista che quello capitalista, e il razzismo. “Se – come annota giustamente lo storico e politologo ”antimodernista’ Fabrizio Fratus – Berto Ricci era alla ricerca di una sintesi moderna e anticapitalista, oggi – sulla scorta del suo intuito – assistiamo ad un cambiamento radicale del paradigma dominante negli ultimi decenni in politica, il pensiero unico del mondo capitalista, mondialista e di stampo anglosassone sembra, infatti, in netta difficoltà e nuove sintesi sono in fase di realizzazione in tutta Europa. Ricci fu un autore originalissimo e innovativo non solo per quanto riguarda il regime fascista a cui lui aderì in modo convinto per la sua stima verso Benito Mussolini ma anche per tutto la durata del ‘900, e lo sarebbe ancora oggi se lo si studiasse in modo completo; antinazionalista e antirazzista, fu un uomo tutto d’un pezzo, un esempio per molti altri di quel tempo.” Proprio in virtù della sua ‘autonomia’ intellettuale, le critiche di Berto non lasciarono immune neanche il regime denunciandone apertamente gli errori quando questo li commetteva. Berto Ricci era infatti un fascista ‘eretico’, ma allo stesso tempo fedele a regime; fu un ‘luminoso e onesto’ ribelle e come tale viene ricordato. Stufo di dibattere, nel gennaio del 1941 decise – sebbene non più giovanissimo – di arruolarsi (il ‘pensiero deve prima o poi trasformarsi in azione e in esempio‘) come semplice soldato.
Venne inviato in Africa settentrionale. E il 2 febbraio 1941, verso le nove di mattina, il fascista rivoluzionario cadde, all’età di 35 anni, vicino a Bir Gandula, in Libia, dal fuoco di un caccia Spitfire inglese. Come da copione, quindi, venne ucciso dal piombo delle mitragliatrici della perfida Albione. La sua fu, e non poteva essere diversamente, una morte eroica che rispecchiava la sua figura di combattente che donò anima e corpo per l’Idea. Oggi riposa al sacrario dei Caduti delle Guerre d’Oltremare, a Bari.
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