Il Sessantotto a Milano inizia nel 1967, ma un aperitivo è servito già nel 1966. Ma qui rischio di risultare un tantino oscuro. Vediamo quindi di andare per ordine.
Parlavamo nelle precedenti pagine delle Associazioni di Istituto. Anche al Liceo Parini di Milano esisteva l’associazione, che pubblicava un giornaletto interno, “La Zanzara”, in verità fatto abbastanza bene, quantomeno in confronto alla media dei giornali studenteschi dell’epoca. Come tutti i giornali scritti da ragazzi, anche la Zanzara aveva molte pretese e molta poca umiltà, una miscela che spesso genera la perdita del senso del ridicolo. Nel febbraio 1966 “La Zanzara” (num. 3 – anno XX) pubblica, con richiamo in prima pagina, nientemeno che un’inchiesta su “la donna nella società italiana”. Ora, una “inchiesta” comporterebbe, per sua natura, un ampio campione di soggetti intervistati, scelti con cura, in modo tale da rappresentare, con accettabile approssimazione, le varie categorie e livelli in cui è articolata la società. È ciò che si chiama “campione rappresentativo”. Già qui l’inizio non era precisamente brillante, perché l’inchiesta si riduceva all’intervista a nove, dicasi nove, studentesse del Parini. Ergo, sarebbe stato più corretto dire: “pubblichiamo le opinioni di nove nostre compagne di studi sui problemi della donna nella società italiana”. Ma tant’è, bisognava prendere, come suol dirsi, ciò che passava il convento. Tra i vari discorsi abbastanza ovvi (matrimonio, donna casalinga o lavoratrice, eccetera) non poteva mancare poi il tema che a una certa età (da adolescenti siamo tutti, piaccia o meno, in tempesta ormonale) sembra irrinunciabile: il sesso. Sono leciti i rapporti prematrimoniali? È lecito l’uso di contraccettivi? Le risposte a queste domande erano, stranamente ma non tanto, abbastanza somiglianti tra loro e, guarda caso, ne emergeva che il vero problema era la posizione antiquata e repressiva della Chiesa.
La pubblicazione di questo articolo suscitò proteste da parte di non poche famiglie, perché se oggi questi argomenti sono trattati fino alla nausea su qualsiasi giornaletto per tredicenni, allora esisteva ancora una preoccupazione educativa, soprattutto per argomenti obiettivamente delicati. Non si trattava, badate bene, di “tabù”; piuttosto da parte delle famiglie che protestarono per questo articolo si lamentava il fatto che problematiche delicate, inerenti l’educazione di un giovane, della quale sono responsabili anzitutto i genitori, fossero state trattate con superficialità e genericità su un giornaletto. Si lamentava anche il fatto che da parte del preside, prof. Daniele Mattalia, non fosse stato, evidentemente, esercitato un controllo sufficiente sul giornale. Da parte di Gioventù Studentesca il fatto fu affrontato in modo molto semplice e lineare: si evidenziava comunque la superficialità e l’attacco alla Chiesa (fin troppo palese), ma soprattutto si sottolineava come un episodio di questo tipo mostrasse l’insufficienza e la sostanziale mancanza di democraticità del sistema delle “associazioni uniche”, che consentiva a pochi elementi di ergersi a rappresentanti “degli studenti”, “dei giovani”, abusando degli strumenti di cui disponevano. Tanto più la cosa era grave, laddove si consideri che quella che era presentata come “inchiesta”, altro non era, come dicevamo, che il riassunto di nove interviste, e sussisteva anche il dubbio che queste interviste esistessero davvero, visto che i redattori non avevano assolutamente voluto fare i nomi delle ragazze intervistate. C’era quindi da chiedersi se su un argomento comunque molto delicato non fossero state fatte interviste pilotate, o addirittura inventate.
La cosa sarebbe probabilmente finita lì, se un certo eccessivo clamore non avesse portato a un intervento, che francamente sarebbe stato meglio evitare, da parte della magistratura. Il preside del Parini, lo stampatore della “Zanzara” e i tre studenti – redattori, Marco Sassano, Marco De Poli e Claudia Beltramo Ceppi, sono rinviati a giudizio per violazione dell’art.14 delle legge sulla stampa, che punisce le “pubblicazioni oscene destinate ai fanciulli e agli adolescenti, quando per la sensibilità e impressionabilità ad essi proprie, siano comunque idonee a offendere il loro sentimento morale o a costituire per essi incitamento alla corruzione, al delitto o al suicidio”. Un ghiotto argomento in più deriva dal fatto che la legge prevede, nel caso di processi a minori, la “visita fisiopsichica”, finalizzata all’accertamento del grado di maturità e capacità del minore. I due ragazzi vengono sottoposti alla visita, la ragazza si rifiuta. Clamore della stampa di sinistra, che protesta contro la “repressione” e la “censura”; capziose interpretazioni della posizione di Gioventù Studentesca, che viene presentata (su “Avanti”, organo del partito socialista) come associazione clericale che “chiede la condanna dei giovani imputati” (assolutamente falso); L’Unità, organo del PCI, fornisce un quadro fosco della visita medica a cui sono sottoposti i due giovani redattori, spogliati e umiliati. Insomma, tutta la faccenda sta prendendo una dimensione che non merita. Per buona sorte il giudice Bianchi d’Espinosa manda assolti tutti quanti, evitando così di creare martiri senza martirio. L’unica persona che ci rimette è la stampatrice, Aurelia Terzaghi, che viene condannata a un’ammenda di lire quindicimila, per omesso deposito delle copie in procura e prefettura (condanna per altro discutibile, perché essendo la Zanzara un organo di stampa a diffusione unicamente interna al Liceo Parini, era tutt’altro che sicura la sua natura di “periodico” rivolto al pubblico e, come tale, soggetto all’obbligo del deposito delle copie). Ma è soprattutto importante riportare il fervorino finale con cui il presidente Bianchi d’Espinosa chiuse il processo: “nella vostra inchiesta non esistono gli estremi di reato. Il compito della legge penale si ferma qui. Se le vostre affermazioni erano opportune o inopportune lo decideranno le autorità scolastiche. Su questo processo si è fatta una montatura esagerata. Voi non montatevi la testa, tornate al vostro liceo e cercate di dimenticare questa esperienza senza atteggiarvi a persone più importanti di quello che siete”.
Parole paterne e di buon senso, che riportavano nella loro dimensione un episodio che altro non era che un piccolo atto di presunzione giovanile, col “di più” rappresentato dal fatto che parlare di argomenti inerenti ai rapporti sessuali è sempre, mi sia consentito, “merce che si vende bene”. Perché quindi ricordare questo episodio della “Zanzara”? Non certo per il suo valore intrinseco, molto vicino allo zero, partendo dai numeri negativi, ma piuttosto perché in questa vicenda vennero in luce atteggiamenti, da parte dei giovani, ma soprattutto da parte degli organi di informazione e dei partiti politici, che già prefiguravano quel modo di (s)ragionare che sarebbe poi divenuto comune nel sessantotto.
Vediamoli nel dettaglio:
- la presunzione, l’atteggiamento di una élite che si autonomina “coscienza critica” e che sforna un prodotto, vendendolo per “inchiesta”, mentre come vedevamo, non aveva alcuna caratteristica dell’inchiesta. Similmente i caporioni del sessantotto procedevano per verità rivelate, che scendevano dall’alto, mentre al popolo veniva data solo la possibilità di approvarle in tumultuose assemblee. Un sistema verticistico e, consentitemi, un tantino fascista;
- l’ossessione sessuale; da parte dei laicisti si accusa sempre la Chiesa di esercitare repressione sessuale. La mia personale esperienza di cattolico mi dice esattamente il contrario, ma comunque, al di là della mia esperienza, i dati di fatto ci dicono che l’argomento “sesso” è di continuo ricorrente nella stampa, nei discorsi, nelle discussioni di certa sinistra, e non certo da parte cattolica. Non sono un tantino ossessionati? Nel sessantotto tra le varie “rivoluzioni” vi fu anche, immancabile, quella sessuale. Mi si perdoni l’argomento poco fine, ma dopo le varie occupazioni di scuole e/o università, i bidelli si trovavano anche, facendo le necessarie pulizie, a buttar via gran quantità di preservativi. Alla faccia dell’emancipazione femminile, il sessantotto rappresentò l’inizio di enormi umiliazioni per le ragazze. “Se non ci stai sei fascista!”. Frase sentita con le mie orecchie, e che purtroppo, in un certo clima di paranoia, aveva anche il suo effetto. Giovinezze e dignità buttate al vento, per la soddisfazione “virile” di qualche capetto. Bell’esito, per dei rivoluzionari che lottavano per la libertà e l’eguaglianza…
- l’anticlericalismo, oltretutto nelle sue forme più becere, vecchie e ritrite. I giovani hanno problemi sessuali? Di chi è la colpa? Ma della Chiesa, che impone regole repressive e oscurantiste. Comunque la Chiesa va attaccata, quindi non ci si preoccupa (ammesso che le interviste e le dichiarazioni fossero vere e non stese a tavolino) di garantire un contraddittorio (magari interrogando un prete, o dei giovani cattolici). La presunzione, di cui sopra, in virtù della quale si è portatori di verità indiscutibili rende inutile il contraddittorio. Il sessantotto fu un violento attacco contro la Chiesa, alla quale veniva gentilmente concesso di esistere solo nelle sue sfasature (preti operai, teologia della liberazione, cattocomunismo, et similia), ossia andava bene purché perdesse la sua identità
- il vittimismo: sante parole, quelle del giudice Bianchi d’Espinosa: “…non montatevi la testa, tornate al vostro liceo e cercate di dimenticare questa esperienza senza atteggiarvi a persone più importanti di quello che siete”. Al contrario, con l’appoggio della stampa sinistrata, Unità e Avanti in testa, i tre ragazzi divennero campioni della libertà, perseguitati da leggi fasciste, da istituzioni repressive, da clericali oscurantisti. Sono convinto che l’assoluzione sia stata accolta con una certa delusione dalla sinistra, che vedeva sfumare un’occasione d’oro di ulteriore protesta. Il sessantotto fu un trionfo del vittimismo, a prescindere da cosa avesse fatto realmente la “vittima” di turno. Magari aveva dato fuoco a qualche autovettura, magari aveva rotto la testa a qualche poliziotto o “fascista”. Ma se un tutore dell’ordine osava agire, scattava l’ululato contro la repressione. E direttamente dal vittimismo deriva la
- perdita del senso di responsabilità: come è bello vedere il giovane che è pronto a pagare di persona le proprie intemperanze, che sa assumersi le proprie responsabilità, con l’orgoglio di essere davvero uomo, anche e soprattutto se questo comporta delle punizioni! Al contrario, la collettivizzazione del pensiero, per cui sparisce l’individuo responsabile, sostituito da quella che sarà la divinità del sessantotto, la “Assemblea”, magma indistinto in cui le persone si fondono e diventano “gruppo”, porta il giovane a non crescere mai, a restare sempre un bimbo che copre i suoi pasticcetti.
- E infine, ultimo, ma solo in ordine di elencazione, il disprezzo assoluto per la verità. Come dicevo prima, da parte della stampa di sinistra si sostenne con disinvoltura che Gioventù Studentesca “chiedeva la condanna degli studenti”. Era una menzogna, pura e semplice menzogna. Ricordo perfettamente che eravamo tutti, cattolici e non, concordi sul fatto che portare in Tribunale i tre studenti era eccessivo, tanto più che nel processo la Pubblica Accusa, sostenuta dal dott. Oscar Lanzi, tenne dei toni francamente esagerati. Ma c’era un’occasione per attaccare l’avversario e i nipotini di Lenin non potevano perderla: “la verità è tutto ciò che è funzionale alla causa del partito”. Il sessantotto fu il trionfo della menzogna come metodo di lotta politica; del resto era ovvio, perché l’ideologia per sua natura vuole piegare la realtà delle cose ai suoi fini, e vive di risposte già date a priori, sicché chi ne è vittima non è più in grado di vedere l’oggettività.
Ecco perché parlavo di “aperitivo” del sessantotto, fornito due anni prima. I germi c’erano già, la malattia era già in incubazione. Purtroppo, per una certa carenza di anticorpi, ebbe poi sviluppo epidemico.
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