Le guerre conclamate nel mondo sono purtroppo numerose, ma forse è poco noto il fatto che ben 343 conflitti in corso sono dovuti alle risorse idriche, e al fatto che oltre due miliardi di persone non hanno accesso a fonti cosiddette “pulite”, considerando il fatto che anche una buona parte del mondo occidentale è oggi a rischio. Di fatto, oggi si uccide più per l’acqua che per il petrolio.
Attualmente, il conflitto più critico riguarda Egitto, Etiopia e Sudan, per quanto riguarda la gestione del fiume Nilo che, con i suoi 6.900 km circa, il corso d’acqua più lungo del mondo, con un bacino di oltre 3 milioni e 255mila km quadrati.
Il Egitto, la principale preoccupazione è l’amministrazione della grande diga sul Nilo Azzurro, nel nord dell’Etiopia, con la annessa centrale idroelettrica più grande dell’Africa. Il Cairo esprime timori sul fatto che la diga potrebbe ridurre sensibilmente la portata delle acque, con conseguenze dannose per la popolazione, che trae la maggior parte delle risorse proprio da Nilo, dipendente dalle sorgenti degli altopiani etiopi per circa l’85% della portata complessiva.
Il primo ministro etiope Abiy Ahmed (che di recente è stato insignito del Premio Nobel per la Pace) ha apertamente dichiarato: “Non abbiamo alcuna intenzione di danneggiare il popolo egiziano, ma nessuna forza al mondo potrà mai impedire all’Etiopia di realizzare la diga sul Nilo, neanche l’opposizione dell’Egitto”. Da parte sua, il presidente egiziano Abdel Fattah Al-Sisi è intenzionato a impedire che altri Paesi possano impedire di amministrare gli enormi capitali derivanti da questo imponente business e ha proposto un incontro per trovare un accordo, con la mediazione della Russia, la quale non nasconde i propri interessi nell’entrare comunque nella questione, a livello politico e soprattutto economico. A monte di tutto ciò, l’Etiopia (dove nasce il Nilo Azzurro) ha in programma di mettere in funzione lo sbarramento idroelettrico per produrre energia entro la fine del 2021, per circa 6,5 Gigawatt all’anno.
La tensione è notevolmente alta fra i Paesi attraversati dal Nilo e non si può escludere che la situazione possa degenerare in conflitti armati a causa dell’acqua, dal momento che, in molte zone fra Etiopia e Sudan, già molte bande, che fanno capo ai signori della guerra locali, combattono accanitamente per l’egemonia sull’acqua.
Oltre a Egitto, Etiopia e Sudan, il Nilo coinvolge in pratica tutti i paesi che attraversa e, di conseguenza, i conflitti sono numerosi, soprattutto a livello tribale. Per il dominio sull’acqua si uccide in Uganda, Kenya, Tanzania, Burundi (dove si trovano le sorgenti del Nilo Bianco), Rwanda, Repubblica Democratica del Congo, Eritrea e in molte zone remote che rientrano sotto l’influenza della Grand Ethiopian Renaissance Dam, come è stata denominata la grande diga, la quale, secondo i calcoli, dovrebbe favorire i bisogni di oltre 850 milioni di persone in totale.
L’Egitto, per altro, amministra già la grande diga di Assuan, che nel 1970 causò lo sfollamento forzato di oltre 100mila sudanesi e creò aspre tensioni fra Kharthoum e Il Cairo, fino al conflitto nel quale l’esercito di Liberazione Sudanese bloccò la costruzione del Canale Jongle. In precedenza, negli anni ’60, l’Egitto bloccò un prestito internazionale destinato alla costruzione di ben 29 dighe, e relativi impianti idroelettrici, per la creazione di un bacino lungo il Nilo Azzurro. Scoppiò una crisi diplomatica internazionale, che terminò solo nel 1999, con la firma di un accordo a Dodoma (capitale della Tanzania) fra i dieci stati coinvolti.
Di fatto, l’Etiopia ha estrema necessità di realizzare il progetto, per evitare uno stallo del sistema economico, nonostante la crescita sociale e finanziaria superiore anche a quella della Cina, che per altro proprio in Africa Orientale ha investimenti e interessi miliardari. Tuttavia, l’Etiopia rimane un Paese povero, con il 65% della popolazione che non ha acceso all’energia. Per questo motivo il progetto della grande diga ha un’importanza fondamentale, e un conseguente giro d’affari di dimensioni inimmaginabili, se si pensa che l’invaso idroelettrico corrisponde a 74 miliardi di metri cubi di acqua. Fatto che potrebbe valere una guerra senza esclusione di colpi.
Il punto cruciale della tensione fra Il Cairo e Addis Abeba è però fondamentalmente un altro: l’Egitto propone il completamento dell’invaso della diga in sette anni, e ha chiesto in cambio il rilascio di 40 miliardi di metri cubi di acqua all’anno. L’Etiopia ribatte con la necessità di riempire il bacino in cinque anni e la concessione di 35 miliardi di metri cubi all’anno.
L’accordo non è ancora stato definito, pur esistendo già una base sulla quale lavorare, ovvero il trattato del 1959 fra Egitto e Sudan, tutt’ora valido, secondo il quale il Sudan usufruisce di 55,5 miliardi di metri cubi di oro blu del Nilo ogni anno, mentre l’Egitto ha diritto a 18,5 miliardi di metri cubi. E’ il cosiddetto Accordo Aswan High Dam (Grande Diga di Assuan), che ha dato origine al bacino idrico noto come Lago Nasser.
L’Etiopia però non fa parte di questo accordo, per cui non lo riconosce ufficialmente e ha ribadito che Addis Abeba non accoglierà alcuna proposta che non sia rispettosa della sovranità nazionale.
A monte di questa situazione, vi è una profonda crisi finanziaria, derivata dalla galoppante inflazione e dalle dure condizioni imposte dal FMI (Fondo Monetario Internazionale) nella concessione di prestiti che, ncessariamente, hanno costretto il governo a ridurre i sussidi per molti beni di primo consumo e a introdurre l’Iva.
Alle condizioni imposte dal FMI, si aggiungono alcuni provvedimenti ufficiali dell’ONU che hanno solo acuito ulteriormente il conflitto, e non solo a livello locale, ma su scala molto maggiore, visto che il 55% della popolazione planetaria vive in zone ad alta concentrazione urbana, e le previsioni non sono incoraggianti poiché, che per la fine del secolo, è previsto il raggiungimento, se non il superamento, di un livello fra il 65 e il 90%, con conseguenze non certo positive.
La questione Egitto-Etiopia-Sudan, tocca anche il nostro Paese, infatti una delle principali imprese coinvolte nell’appalto per la costruzione della grande diga è la italiana “Salini Impregilo”. La diga sul Nilo ruberà il primato in dimensioni alle due dighe di Inga, in Congo (per altro anch’esse opera italiana della “Gatsaldo”) e quella di Assuan in Egitto. Il Sudan, da parte sua, si schiera con l’Etiopia, in quanto condividerà la produzione di energia (e relativi guadagni).
La contesa non è di facile soluzione. Le ambizioni dell’Etiopia, sostenute dal massiccio supporto finanziario cinese, la vedono lanciata verso una posizione dominante nel panorama continentale, e i suoi progetti hanno necessariamente bisogno di una grande disponibilità energetica. Anche l’Etiopia conta oltre 100 milioni di abitanti ed è tuttora afflitta da fame e povertà, accentuate anche dai lunghi conflitti Eritrea e Somalia, oggi pressoché risolti, le cui conseguenze si fanno sentire pesantemente ancora oggi e di certo, non si può impedire a un Paese di avanzare verso il progresso, ma neppure si può consentire che questo progresso affligga o comprometta quello di altri.
L’ONU ha valutato che, proprio a causa della costruzione della diga, entro il 2025 l’Egitto potrebbe soffrire di una grave carenza idrica ed energetica e, come già avvenuto in passato per avvenimenti di crisi che dovrebbe saper risolvere (tale infatti è lo scopo della sua creazione), sembra invece non sapere gestire la questione.
Messo alle strette, come ha affermato pubblicamente l’accademico egiziano Rawia Tawfik, l?Egitto potrebbe non esitare a dichiarare a scendere in guerra per proteggere la sovranità nazionale e i propri interessi e, di riflesso, la situazione è già esasperata dalla risposta del governo sudanese: “La tracotanza e la prepotenza dell’Egitto sono intollerabili, perché vuole impedire la costruzione di un’opera di progresso quando ne ha realizzata una simile ad Assuan”. Una dichiarazione che certamente non è facile contraddire, in quanto è un dato di fatto e uno dei simboli che Il Cairo ha sempre vantato come orgoglio nazionale. Insomma, esiste il rischio reale che, a causa della “Grande Diga della Rinascita”, Egitto, Etiopia e Sudan possano trovarsi in uno stato di guerra che sarebbe fatale per gli equilibri di una già troppo martoriata Africa. In effetti, un progetto imponente, con una lunghezza di circa 2 km, alta 160 metri e con una capacità di produzione annuale di energia elettrica di 6,5 Gigawatt, che farà dell’Etiopia no solo uno dei Paesi lanciati verso il progresso interno, ma uno dei maggiori produttori ed esportatori. Di contro, il presidente egiziano Al-Sisi ha definito la situazione acqua come “priorità assoluta e “questione di vita o di morte, assolutamente fondamentale per la sicurezza nazionale”. Non è un segreto che l’economia egiziana dipenda quasi totalmente dai vari tipi di sfruttamento delle
acque del Nilo, ed è così dai tempi dei faraoni. Insomma, nessuna delle parti in causa ha intenzione di fare un passo indietro, né si intravvede possibilità di andare avanti verso una soluzione. Il ministro dell’Irrigazione di Addis Abeba ha infatti replicato: “Le minacce egiziane non ci preoccupano minimamente. L’Etiopia intende trarre benefici dalle proprie risorse idriche senza danneggiare nessuno”. Certo è che la facoltà di regolare il flusso della portata di un fiume come il Nilo Azzurro ha conseguenze economiche e politiche decisamente enormi, anzitutto sugli equilibri dell’intera Africa Occidentale e Nord-Occidentale, la cui domanda di usufrutto dell’acqua è in continua crescita, a causa della costante espansione demografica e delle numerose inefficienze territoriali. Si consideri che, in questa parte di mondo ogni Paese è attraversato da almeno un grande corso d’acqua e ben 15 ne hanno in comune almeno cinque o sei. Un quadro del genere spiega chiaramente le varie situazioni di concorrenza per lo sfruttamento delle relative risorse, anche in campo minerario, altro settore che fa dell’Africa una terra di smodato sfruttamento. Dei 265 bacini fluviali presenti sul pianeta, 60 si trovano in Africa e si spiega quindi la nascita di situazioni critiche se un Paese che si trova a monte di fonti idriche decide di intraprendere azioni unilaterali di sfruttamento, che riducono la portata di tali risorse per i Paesi che si trovano a valle. Già si sono concretizzate condizioni di pericolosa ostilità per i bacini idrici dei fiumi Niger, Zambesi e Okawango, e del Lago Chad, per citare solo i principali. E si consideri che l’Etiopia non ha solo in progetto di realizzare la grande diga sul Nilo Azzurro, ma ha in serbo ben 36 impianti in totale, per regolarizzare l’irrigazione di circa tre milioni di ettari di territorio e soddisfare i bisogni di 20 milioni di persone.
L’accordo noto come Nile Cooperative Framework Agreement, firmato a Entebbe nel maggio 2010 da Uganda, Etiopia, Rwanda, Tanzania, Kenya e, qualche mese più tardi, dal Burundi, a conclusione di negoziati durati dieci anni, ha aperto la strada verso una modifica degli accordi del 1959. L’accordo andrebbe a ridimensionare gli attuali privilegi dell’Egitto in favore di una più equa redistribuzione delle risorse.
Le altre zone critiche del mondo
Il Rapporto delle Nazioni Unite sullo stato mondiale dell’acqua conferma ciò che già era noto. Milioni di persone in Medio Oriente e Nord Africa, in particolare in Algeria, Giordania, Libia, Marocco, Palestina, Sudan, Siria e Yemen, stanno affrontando la peggiore carestia degli ultimi decenni. Diversi fattori hanno contribuito a questo drammatico primato: cambiamenti climatici, desertificazione, urbanizzazione, inquinamento delle acque e uso improprio delle risorse naturali, le politiche di molti governi, irresponsabili, o travolti dai tanti conflitti regionali, che non si occupano né della prevenzione dei disastri ambientali né di politiche per la tutela dell’ambiente.
Uno dei Paesi più colpiti dal fenomeno è l’India, dove le grandi città come Bombay, New Delhi, Calcutta, Chennai, Jodphur, Jaipur sono lo specchio della drammatica situazione, e analoghi problemi affliggono Pakistan e Afghanistan, e altre zone critiche come Dar es-Salaam e Luanda, in Africa, Lima e Porto Alegre o il Rio de la Plata in Sudamerica.
In Cina, e altri paesi asiatici, la famelica economia vede nel fiume Mekong una fonte energetica da sfruttare attraverso sette impianti idroelettrici di grandi dimensioni. Il Laos sta seguendo l’esempio per trovare nell’acqua la risposta alla cronica povertà nazionale. Nelle ex repubbliche sovietiche uno dei temi che avvelenano i rapporti internazionali è l’uso delle risorse idriche.
Tornando all’Africa, l’Algeria, per esempio, sta vivendo la peggiore siccità degli ultimi 50 anni. La produzione di cereali è diminuita di oltre il 40%, anche a causa di una struttura produttiva antiquata. Nonostante la ricchezza che deriva da gas e petrolio, il Paese non è riuscito a costruire infrastrutture idriche capaci di garantire sufficienti risorse a costi accessibili per la popolazione. Di conseguenza, il Paese è scosso da proteste popolari, come fu la Siria nel 2010.
La Libia sta vivendo una fase di instabilità anche maggiore, travolta da un conflitto civile seguito alla fine violenta di Muhammar Gheddafi. Nel Paese, ricchissimo di petrolio, scarseggia comunque il carburante e le interruzioni di corrente sono continue, in particolare per la ingerenza delle grandi compagnie energetiche multinazionali. In queste condizioni è impossibile garantire l’approvvigionamento idrico e solo l’estate scorsa le Nazioni Unite hanno dovuto importare dai paesi confinanti più di cinque milioni di litri d’acqua per migliaia di persone.
Anche ad Amman e negli altri grandi centri urbani della Giordania le interruzioni del servizio idrico sono molto frequenti. Si stima che il Paese disponga di risorse di acqua sufficienti per due milioni di persone, ma i giordani sono più di sei milioni, senza contare i quasi due milioni di profughi siriani attualmente ospitati, i primi a subire il dramma della siccità. La Giordania, e anche il Libano, devono affrontare l’approvvigionamento idrico di molti campi profughi, che è ridotto al minimo.
La situazione in Yemen è altrettanto drammatica. Tormentato dalla violenza settaria e dalla guerra civile, il Paese non ha un governo in grado di gestire le risorse idriche. Negli ultimi due decenni i gruppi tribali legati ad Al-Qaeda hanno conquistato il potere in molte regioni proprio grazie al controllo dei pozzi e delle sorgenti. Oggi si stima che la capitale, Sanaa, potrebbe rimanere completamente all’asciutto in meno di dieci anni, mentre la metà della popolazione non ha accesso all’acqua potabile, le malattie legate alla mancanza di igiene si stanno diffondendo e l’agricoltura sta morendo, con la consseguente morte di circa 14mila bambini ogni anno.
Allo stesso modo, anche fra Turchia, Siria e Iraq, oltre alla guerra civile in corso, esiste un conflitto in Anatolia, direttamente riferibile al controllo delle risorse idriche dei fiumi Tigri ed Eufrate, e così fra Israele, Giordania e Palestina per quanto riguarda i controllo del fiume Giordano.
Il progetto più importante finora elaborato è il GAP turco (Guneydogu Anadolu Projesi) che riguarda lo sviluppo agricolo e industriale della regione sud-est della Turchia, attraverso la costruzione di dighe e bacini artificiali. La Turchia sta esercitando ciò che Ankara ha sempre affermato essere “il diritto sovrano di sfruttare le risorse idriche nel proprio territorio”, diritto storicamente contestato dai Paesi confinanti.
Il progetto GAP prevede la costruzione di 22 dighe, 19 centrali idroelettriche e un network di irrigazione che dovrebbe dare copertura a un’area di 1,7 milioni di ettari. Il costo totale previsto è di 32 miliardi di dollari, per un’area complessiva di 75.000 km quadrati, quasi il 9.5% della superficie totale del Paese. Circa 6 milioni di persone vivono in quell’area, di cui soltanto il 9% è costituito da Turchi, mentre la parte restante è composta soprattutto da Curdi e altre minoranze. A programma terminato, l’area irrigabile passerà dall’attuale 2,9% al 22,8% della superficie totale.
Gà nel 1989 il conflitto fra esercito turco e militanti curdi aveva spinto Ankara a minacciare la Siria di tagliare il rifornimento d’acqua se non avesse espulso dal suo territorio i gruppi del PKK. L’anno seguente è entrato in funzione l’impianto idroelettrico della diga “Ataturk”, che porta acqua verso il sud della Turchia per irrigare 1,7 milioni di ettari di terre coltivate. Oggi i timori riguardano il fatto che, in futuro, la portata delle acque dell’Eufrate in Iraq calerà forse fino all’85%. Per l’Iraq, inoltre, è preoccupante l’allarme per i danni subiti dalle strutture idriche in seguito all’occupazione delle truppe statunitensi, britanniche e di altri Paesi, strutture che pure avrebbero dovuto essere protette dalle leggi internazionali. La questione riguarda, di riflesso, anche l’Italia, in quanto gli interventi riparatori alla diga di Mosul sono affidati alla ditta italiana Trevi e a 450 soldati per difenderla da eventuali attacchi dello Stato Islamico. Altre zone del mondo dove sono in corso conflitti dovuti all’acqua, si trovano Kazakhstan, Kyrgyzstan e Uzbekistan, attraversati dal fiume Syr Daya, e fino a Cambogia, Laos, Thailandia e Vietnam, che condividono il Mekong. Altrettanto critica è la situazione per la Commissione del Fiume Indo, visto il permanente stato di tensione fra India e Pakistan.
A monte di tutto esiste poi la minaccia del terrorismo, che si riferisce anche e soprattutto alle risorse idriche e agli enormi capitali che gravitano intorno. Dai tragici eventi dell’11 settembre 2001, all’attuale jihad islamista dell’Isis e di altri gruppi integralisti di varia estrazione, il terrorismo è appunto diventato, in un certo senso, “molecolare”, per definizione dei servizi segreti italiani. Uno dei motivi di allarme è, infatti, la contaminazione di sorgenti, depositi, dighe e acquedotti, che hanno causato la mobilitazione di ministero dell’Interno, della Salute, Istituto Superiore di Sanità, e Federgasacqua, che hanno individuato alcune strategie operative e possibili misure per la prevenzione di attentati biologici e chimici dei sistemi degli acquedotti, con particolare riferimento alle diverse realtà locali. Di fatto, rimane comunque molto improbabile che si possano prevenire attentati specifici.
Al mondo esistono numerosi bacini idrici d’acqua dolce condivisi fra diversi Paesi. La contiguità o la vicinanza rispetto a tali bacini sono criteri riconosciuti dal diritto internazionale, che regola la buona condotta di impiego da parte dei cosiddetti “rivieraschi di alto corso”.
Il numero di bacini internazionali è cresciuto nel corso degli anni, come conseguenza soprattutto del crollo dell’Unione Sovietica e della ex Jugoslavia. Nel 1978 ne erano elencati 214, oggi sono 243. Le implicazioni di tale interdipendenza si realizzano già in rapporto al numero di Paesi che vantano diritti su questi bacini, ben 145, pari al 90% della popolazione mondiale. Più di 30 Paesi al mondo si trovano in bacini idrici transfrontalieri.
La capacità di reclamare o esercitare diritti sui fiumi transfrontalieri è direttamente proporzionale a tre fattori: posizione geografica, politica di impiego dell’acqua, e variabilità naturale. Il conflitto che deriva dalla sovrapposizione, dall’intreccio o dalla commistione di questi tre fattori si è già dimostrato particolarmente pericoloso, e rischia di essere dirompente nell’immediato futuro. La cattiva gestione delle acque da parte di uno dei Paesi coinvolti, può comportare il deterioramento della qualità dell’intero bacino, con ricadute sull’impiego o sulle capacità di sfruttamento degli altri Paesi. Ne è un esempio il lago Aral, per il quale la comunità internazionale ha lanciato numerosi allarmi riguardo a una progressiva recessione delle acque e al crescente inquinamento. Stessa situazione per il bacino del Mekong e del Danubio, ormai tra i fiumi più inquinati al mondo.
La variabilità dei fattori naturali ha un impatto diretto sulla capacità di portata dei bacini e sulla conseguente capacità di impiego delle acque da parte dei vari governi.
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