Nel maggio 1945 decine di migliaia di profughi si arrendono alle truppe britanniche per evitare di sottostare al regime comunista di Tito. Riconsegnati al leader jugoslavo, vengono massacrati tra l’indifferenza degli alleati occidentali.
Bleiburg (Pliberk in sloveno), un nome che forse dice poco al grande pubblico, è una cittadina austriaca a ridosso del confine con la Slovenia, dove avviene il primo genocidio dopo la fine ufficiale della seconda guerra mondiale in Europa. Soldati croati, donne, vecchi e bambini, esuli Ustascia e profughi sfuggiti a precedenti rappresaglie si ritrovano a Bleiburg per arrendersi alle avanguardie britanniche ed essere trasferiti in Italia, dove però non arriveranno mai.
In quei giorni, la Croazia, ultima alleata del Reich in Europa, aveva ancora alcuni reparti armati impegnati sul campo di battaglia, ma combattere senza il sostegno della Germania era impossibile, a causa della vicinanza dell’armata sovietica. Il governo croato decide quindi di arrendersi agli inglesi, i quali assicurano che tutti coloro che si fossero arresi sarebbero stati protetti in territorio italiano. Storicamente si è quindi trattato di un vero e proprio inganno: i profughi sono stipati su treni diretti non nel nostro Paese, ma in Croazia, regno di Tito, il quale avrebbe dato ordine di procedere alle rappresaglie, che causano la morte di almeno un ottavo della popolazione. Con i Croati sarebbero stati uccisi anche gli sloveni della “Bela Garda” (“Guardia Bianca”, organizzazione paramilitare affiancata alle truppe dell’Asse), civili tedeschi, serbi Chetniks (nazionalisti serbi filo-tedeschi), altre truppe non tedesche alleate della Germania, e unità della fanteria croato-tedesca.
Gli accordi segreti Churchill-Tito
A convincere Churchill della convenienza di accettare le richieste di consegna dei profughi da parte di Tito è il ministro degli Esteri Anthony Eden e, dal settembre ’44 la politica dei rimpatri forzati diventa una linea politica ufficiale.
Nell’ottobre ‘44 Churchill, Eden, Stalin e il ministro degli Esteri sovietico Molotov si incontrano a Mosca e definiscono l’accordo sul rimpatrio dei prigionieri, ben prima di Jalta (4-11 febbraio 1945), che quindi altro non è che una sorta di ratifica per la consegna di circa 2.750.000 persone, contro una vaga promessa di restituzione, da parte sovietica, di prigionieri di guerra alleati.
Tito, ancora forte dell’appoggio di Stalin, aveva anche rivolto ufficiali richieste al governo italiano per la restituzione dei territori di confine con l’obiettivo di “slavizzarne” le popolazioni, nonostante gli accordi che gli emissari dello stesso maresciallo (Milovan Gilas ed Evard Kardeli) avevano stretto durante l’incontro, avvenuto nell’ottobre ’44, con il leader del PCI Palmiro Togliatti. Vincenzo Bianco, uomo di fiducia di Togliatti, aveva poi dato disposizioni per l’accettazione della presenza jugoslava nei territori di confine, per creare un nuovo ordinamento di stampo comunista, soprattutto in funzione anti-britannica. Churchill, da parte sua, cerca sempre di più l’appoggio di Tito in funzione anti-sovietica, stringendo nel contempo accordi segreti con il ministro Subasiç, rappresentante del legittimo governo jugoslavo in esilio a Londra. Nonostante l’incontro privato con il premier britannico, che aveva acconsentito alla consegna dei profughi jugoslavi e di quelli cosacchi (operazioni Highjump, Eastwind e Keelhaul). Tito però è sempre più orientato verso Mosca (da cui si sarebbe poi distaccato nel 1948 in seguito all’accusa di “deviazione ideologica”), poiché erano chiare le mire di Londra per avere una determinante influenza nell’area balcanica onde evitare le mire espansionistiche di Stalin verso il Mediterraneo.
A farne le spese, oltre a decine di migliaia di cosacchi e caucasici, sia militari che civili, massacrati nei campi di Lienz, Oberdrauburg, Feldkirchen, Althofen, Neumarkt, e nei gulag siberiani, sono gli slavi anticomunisti, illusi dagli alleati occidentali di essere destinati ad un ridislocamento in territori sicuri. Un tradimento in piena regola, paragonabile a quello consumato ai danni dei cetnici monarchici serbi, anticomunisti e contrari alle potenze dell’Asse, del generale Draza Mihajlovic (1893-1946), sacrificati per la nuova alleanza fra Churchill e Tito, massacrati dai partigiani comunisti e gettati in fosse comuni, come rivela Michael Lees, ex ufficiale britannico dello Special Operations Executive, in “The Rape of Serbia: The British Role in Tito’s Grab for Power 1943-1944” (pubblicato in Italia nel 1990).
La vergogna di MacMillan
Le operazioni di rimpatrio forzato sono naturalmente tenute nel massimo segreto e note solo agli ufficiali inglesi coinvolti negli accordi, dal momento che gli americani non avevano alcun interesse politico nella vicenda.
La responsabilità fra gli alleati occidentali è ancora oggi in parte celata ma inizia ad essere svelata: in origine, il generale George Patton avrebbe impartito l’ordine di trasferire i profughi in Germania, per non avere intralci in quelli che sarebbero stati i territori di scontro con le bande armate di Tito, ma tale decisione è bloccata dal brigadier generale Aldington, capo di Stato Maggiore del 5°Corpo britannico agli ordini del generale Charles Keightley, al quale il plenipotenziario inglese per l’area mediterranea Lord Harold McMillan ordina senza mezzi termini di dare inizio ai rimpatri forzati.
Lo storico anglo-russo Nikolai Tolstoj Mikoslavskj, discendente del grande romanziere, nelle opere “Victims of Jalta” (1978) e “The Minister of Massacres” (1986) espone le prove e i dati raccolti, che confermano come MacMillan e Keightley, all’insaputa del comando in capo alleato (Eisenhower e Alexander) e del ministero degli Esteri inglese, abbiano organizzato segretamente l’operazione di rimpatrio, le cui motivazioni specifiche sono ancora oggi, per molti aspetti, avvolte nel mistero e hanno dato origine a diverse teorie più o meno fantasiose che vanno a sfociare in ricatti ideologici, complicità, debolezze politiche e perfino macchinazioni di ordine massonico. A infittire il mistero, lo stesso MacMillan ha sempre rifiutato di rendere pubblica la propria versione dei fatti, né ha mai negato quanto pubblicato da Mikoslavskj. Il generale Aldington ha invece esposto i fatti pare per ragioni personali e politiche, non in linea con lo stesso MacMillan. Ne è scaturito un caso giudiziario dai mille risvolti, ricco di colpi di scena e scorrettezze da parte dei diversi livelli della giustizia inglese che, nel 1989, giudica Mikoslavskj colpevole di diffamazione e gli commina la più grande multa della storia giuridica britannica: 1,5 milioni di sterline. Con un’azione privata e illegittima dei difensori di Aldington, la casa editrice londinese Century Hutchinson è poi costretta a ritirare dal mercato inglese e gallese la pubblicazione, oggi disponibile solo in lingua croata e russa, e a distruggerne le copie restanti. Al posto dell’importante opera di Mikoslavskj è stato prodotto un rapporto ufficiale dalle conclusioni del tutto differenti, redatto da Anthony Cowgill, Lord Thomas Brimelow e Christopher Booker.
Il 13 luglio 1995, la Corte dei Diritti Umani di Strasburgo ha riconosciuto che la pena pecuniaria inflitta a Mikoslavskj, e le altre misure restrittive di cui è stato fatto oggetto (divieto di parlare pubblicamente e scrivere della vicenda dei rimpatri forzati) violano la libertà d’espressione e rappresentano una condanna esagerata.
Impossibile calcolare il numero delle vittime
Com’è noto, i croati ustascia fuggivano con le loro famiglie dalla Jugoslavia e a questa massa di persone si erano aggiunti molti serbi cetnici e sloveni che avevano collaborato con fascisti o nazisti. Giunti in Austria si erano trovati fra l’esercito britannico e l’armata di Tito che voleva catturarli. Secondo gli storici, che si sono avvalsi di testimonianze dei sopravvissuti, il comandante britannico propone la resa agli slavi promettendo protezione, ottenendo la consegna delle armi. Il 15 maggio 1945 il comandante britannico consegna i profughi, civili compresi, a Tito che ordina la rappresaglia mentre i britannici decidono di non intervenire in faccende che giudicano “affare privato jugoslavo”.
E’ opinione comune che la maggioranza degli uccisi fosse croata, oltre a numerosi serbi e sloveni. Le vittime sono trucidate senza processo e per vendetta dei crimini commessi dagli ustascia. La maggior parte degli uccisi è però composta da civili e tra questi le donne subiscono stupri di massa prima di morire per lapidazione, mentre molti sono decapitati. Nella zona di Bleiburg vengono ritrovate fosse comuni con i resti di numerosi cadaveri e successivamente altre fosse sono scoperte in Slovenia, specialmente nella zona di Maribor. Le indagini storiche hanno constatato che esistono anche fosse comuni molto distanti fra loro poiché i prigionieri erano stati sottoposti a marce forzate, oggi ricordate come “la strada della croce”.
I rifugiati politici croati all’estero hanno reso pubbliche le prove delle atrocità commesse da Tito e i suoi seguaci dimostrando il coinvolgimento del governo britannico, ma le autorità inglesi hanno avuto l’interesse politico a nascondere le loro responsabilità, almeno per un certo periodo, in funzione anti-sovietica. Molte versioni dei fatti sono ancora in fase di studio, per determinare con precisione gli avvenimenti. Una fonte importante sarà certamente la documentazione relativa all’affare Keelhaul, se e quando le autorità britanniche dichiareranno decaduta la classifica di “segreto di stato”.
Attualmente non è ancora possibile stabilire il numero delle vittime. Esistono a tale proposito due opinioni: una si basa su storiografia e demografia, l’altra tende a ricostruire gli eventi e le loro conseguenze utilizzando tutti i mezzi a disposizione.
Seguendo la prima, lo studioso croato Vladimir Zerjavic stabilisce la cifra di circa 55mila vittime nella sola area di Bleiburg e in alcune zone della Slovenia. Il giornalista britannico Misha Glenny e altri studiosi ritengono invece che i militari uccisi siano oltre 50mila e i civili circa 30mila. Lo storico croato-statunitense Jozo Tomadevic, della Stanford University, ritiene che 116mila militari croati si trovassero raccolti a Bleiburg su un totale di 200mila persone e che molti altri profughi siano stati bloccati alla frontiera austriaca. Oltre la metà sarebbe stata uccisa a Bleiburg.
La seconda opinione raccoglie gli storici che valutano in circa 250mila le vittime dei massacri fra Bleiburg e i campi segreti in Slovenia e Croazia. Questa teoria ha attualmente grande credibilità poiché le autorità slovene hanno fatto molte ricerche nel loro territorio tra il 1999 e il 2001. Le fosse comuni rinvenute sono 296 e sono stati trovati i resti di circa 190mila corpi, in maggioranza croati e civili, compresi molti bambini. In seguito alle già citate “marce della morte”, nella foresta di Tezno si sarebbero ritrovati i resti di oltre 80mila corpi, e intorno a Maribor vi sarebbero fosse comuni con i resti di circa 80mila vittime. Vicino a Kocevije, secondo il racconto di un partigiano disertore, avvallato da testimonianze di alcuni sopravvissuti, gli esecutori si vantarono di aver ucciso da 30 a 40mila persone in una sola settimana. Stesso discorso per circa 15mila croati e sloveni portati sui monti Kamnik, a sud della frontiera con l’Austria, e gettati nei dirupi. Gran parte di essi erano jugoslavi accusati di collaborazionismo solo per essere di etnia tedesca.
Il professor Tomislav Suniç, croato, figlio di madre fiumana e fuggito negli Stati Uniti con i genitori alla fine della seconda guerra mondiale, ha parlato dei crimini commessi anche all’estero dai servizi segreti titini (diretti dallo sloveno Edvard Kardelj) ai danni di esuli soprattutto croati: 67 persone sarebbero state assassinate dai sicari della polizia segreta di Tito (la famigerata UDBA), di cui 56 in Germania e altre soprattutto in Francia e Italia. Oltre 25 sono stati i tentati omicidi, 4 i rapimenti e 5 i tentati rapimenti.
A proposito del massacro di Bleiburg Tomislav Suniç ha dichiarato: “Slovenia e Croazia dovrebbero essere definiti Paesi della morte: ogni angolo di strada contiene ossa e scheletri. E dicendo questo non voglio sminuire le sofferenze inflitte dai titini ai cetnici e alla classe media di Belgrado. Tali crimini vennero fatti passare sotto silenzio perché, dopo il 1948, la Jugoslavia serviva agli occidentali in funzione anti-sovietica. Nelle Repubbliche post-jugoslave, come nel resto dell’Europa orientale, non c’è stata alcuna de-comunistizzazione paragonabile alla de-nazificazione avvenuta in Germania e alla de-fascistizzazione compiuta in Italia. Addirittura i governanti cechi difendono i decreti Benes. Sono molto scettico sulla possibilità di normalizzare quei Paesi“.
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Vjeran Pavlaković, storico, insegna Cultura della Memoria al dipartimento di Studi Culturali dell’Università di Rijeka. Ha pubblicato, con Sabrina Ramet, “Serbia since 1989: Politics and Society under Milošević and After”, University of Washington Press. In Italia è stato pubblicato il suo saggio “Una storia balcanica. Fascismo, comunismo e nazionalismo nella Jugoslavia del Novecento”, a cura di Lorenzo Bertucelli e Mila Orlić, ed. Ombre Corte, Verona 2008.
Quali sono i luoghi della memoria della Seconda guerra mondiale in Croazia?
“I due luoghi che attualmente illustrano meglio la situazione di memoria divisa che esiste in Croazia sulla seconda guerra mondiale sono il Memoriale di Jasenovac e Bleiburg. Il primo ricorda il campo di concentramento creato dallo Stato Indipendente di Croazia (NDH) sul fiume Sava, mentre Bleiburg, che in realtà si trova in Austria, sul confine con la Slovenia, è il luogo dove le forze collaborazioniste si sono arrese nel 1945”.
A Jasenovac il giorno del ricordo è il 22 aprile, data della liberazione del campo. Esiste una data simile per Bleiburg?
“Era la domenica più vicina al 15 maggio. Recentemente è stata approvata una legge che sposta la data al sabato, per permettere la partecipazione di un numero maggiore di rappresentanti del clero. Questo mostra la relazione privilegiata che esiste tra la Chiesa cattolica croata e il ricordo di questo evento”.
Come sono ricordati oggi i fatti di Bleiburg?
“Come “Bleiburg i Križni put”, cioè “Bleiburg e la strada della Croce”.
Ci sono dati ufficiali sulle vittime di Bleiburg e della strada della Croce?
“C’è ancora molto dibattito sull’argomento. Le cifre che io ritengo attendibili variano tra le 50mila e le 80mila vittime. La diaspora ha elevato questa cifra a circa 600mila e, specialmente negli anni ’60, ’70 e ’80, si parlava di un genocidio commesso ai danni del popolo croato. Oggi non pochi affermano che Bleiburg è stato un massacro peggiore di Jasenovac”.
Negli anni scorsi c’è stata una positiva esperienza di collaborazione tra storici italiani e sloveni, che ha condotto al lavoro della Commissione mista sulla storia recente del confine. Perché questo non è potuto avvenire con la Croazia?
“Non ne sono del tutto certo. Posso solo dire che per quanto mi riguarda sostengo completamente l’idea di un dialogo di questo tipo, collaboro con organizzazioni come ‘Documenta’ che lavorano sull’elaborazione del passato, credo dovrebbero essere fatti nuovi sforzi per portare le tre diverse parti, in particolare gli storici, a dialogare nuovamente. Anche perché continuiamo ad assistere a tentativi da parte dei politici di manipolare le cifre e strumentalizzare le emozioni. Viene condotta una discussione di tipo irrazionale su quegli eventi”.
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