Ad oltre mezzo secolo dalla sua morte, Louis-Ferdinand Céline (1894-1961) sembra essere risorto dall’inferno, affrancandosi, almeno in parte, da una scomunica decretata ai suoi danni ben prima della sua scomparsa, cioè negli anni Quaranta, quando lo scrittore francese – creatore di capolavori assoluti come Viaggio al termine della notte e Morte a credito – decise di legare la sua sorte a quella della Francia di Vichy e della Germania di Hitler, procurandosi una lunga, e per certi versi durevole, damnatio memoriae da parte della quasi totalità della critica internazionale ‘benpensante’. Da parte cioè di uomini politicamente schierati che, nella maggioranza dei casi, non hanno compreso che le criticate scelte dell’uomo Céline avrebbero dovuto essere analizzate tenendo conto del contesto storico della Francia della prima metà del Novecento. La Francia, una nazione in cui l’idea di patria e di identità etnico-culturale trovarono nel totalitarismo nazionalsocialista di Hitler l’unico appiglio al quale aggrapparsi per non farsi travolgere dal marxismo ateo e da un liberalismo democratico-parlamentare ormai minato da una grave crisi di valori che nel 1938, alla Conferenza di Monaco, lo porterà in coma e successivamente, nel 1945, a Yalta, alla tomba. No, le scelte politiche di Céline, seppure discutibili, non stridevano affatto in quella Francia e in quell’Europa economicamente e socialmente travagliate e moralmente indebolite. Esse traevano origine da istanze molto diffuse tra il popolo d’oltralpe che già da tempo nutriva, a torto o a ragione, forti sospetti nei confronti del giudaismo inteso come lobby di potere. L’affaire Dreyfuss aveva, infatti, contribuito ad alimentare un notevole astio verso gli ebrei e a compattare lo spirito nazionalista transalpino. Non dovrebbe quindi scandalizzare l’adesione, almeno ideale, di Céline alla droite francese e successivamente al regime di Vichy, nel quale confluirono anche altri illustri intellettuali di destra come Robert Brasillach, Lucien Rebatet e Pierre Drieu La Rochelle. Adesioni, queste, fatte alla luce del sole e con cognizione di causa e di rischio, distinguibili quindi dall’atteggiamento tenuto da certi colleghi di sinistra o libertari, come François Mauriac, Jean Paul Sartre e André Gide, che pur di non avere noie cercarono di instaurare con il regime di Vichy un rapporto di non belligeranza, per poi passare rapidamente dall’altra parte della barricata a guerra praticamente finita.
Detto questo, non bisogna immaginarsi un Céline collaboratore ortodosso. Egli infatti non fu mai un intellettuale organico al potere. Tutt’altro. Mantenne sempre una notevole autonomia di pensiero, rivendicando a più riprese di avere compreso prima di altri il disastro che si preparava per il suo Paese corrotto dagli ebrei (vedi il pamphlet antisemita del 1938 L’école des cadavres) e dai capitalisti; ed invocando la costituzione di un’asse franco-tedesco di carolingia memoria capace di fronteggiare il bolscevismo e il liberalismo. Céline si augurava la rigenerazione di una Francia depurata sotto il profilo razziale, saldamente agganciata alla tradizione nordica e distaccata (fatta salva l’Italia di Mussolini e la Spagna di Franco) dal suo Sud ch’egli considerava etnicamente e politicamente meticcio e inaffidabile. Dopo il 1945, Céline si ostinò, nonostante la valanga di accuse a lui rivolte dal governo gollista spalleggiato dalla sinistra, a dichiarare la sua buona fede. “I miei sono stati reati di opinione dai quali non ho mai tratto beneficio economico o sociale…Vengo considerato un massacratore di ebrei. Ma io sono un preservatore accanito di francesi e ariani, e del resto, di ebrei… Ho solo peccato credendo al pacifismo dei nazisti: questo è il mio unico crimine”. Una difesa che, tuttavia, a poco servirà, dal momento che sul tavolo dell’accusa erano già accatastati molti suoi articoli e pamphlet contro la media borghesia corrotta dal “modernismo” e, naturalmente, contro il grande complotto ebraico-capitalista (vedi Bagatelle pour un massacre, L’Ecole des cadavres e Les Beaux Draps).
Detto questo, occorre però ricordare che i vertici di Berlino non nutrirono mai molta simpatia nei confronti di Céline, in quanto essi consideravano il suo pensiero troppo libero e nichilista. Tra il 1940 e il 1944, in occasione di un ricevimento al quale lo scrittore partecipò, i convitati tedeschi rimasero di pietra nell’ascoltare le sue tetre premonizioni che prefiguravano scenari infernali nei quali vincitori e vinti sarebbero arsi insieme. Visioni di morte e di dissolvimento, evocate con la maestria di cui è capace solo chi è aduso a trasformare la realtà in suggestione: elucubrazioni poetiche ma anche lucidi presentimenti circa il futuro, preveggenze imbarazzanti che indussero i servizi segreti nazisti ad aprire un dossier sullo scrittore francese.
Louis-Ferdinand vede la luce nel 1894 a Courbevoie, sulla Senna, ma cresce a Parigi, dove la madre negoziante si trasferisce, mentre il padre continua a fare l’assicuratore nel paese d’origine. Louis è quindi di estrazione piccolo-borghese, con tracce pregresse di nobilato locale. Raggiunta l’adolescenza, Louis-Ferdinand sembra destinato a fare il commerciante, almeno così sperano i suoi familiari. Ed in effetti le sue prime esperienze di lavoro le fa proprio in questo settore. Poco dopo avere compiuto il suo diciottesimo anno di età, il ragazzo arriva alla svolta della sua vita. Nel 1914, viene arruolato e spedito al fronte contro i tedeschi. Nel corso di una battaglia, riporta gravi ferite a un braccio e viene congedato. Nel 1915, ottiene come compenso un impiego a Londra presso l’Ufficio Francese d’Immigrazione e l’anno seguente gli viene affidato un incarico in Camerun presso una società che tratta legname. L’esperienza coloniale è comunque breve in quanto, avendo contratto la malaria, egli deve fare rientro in patria. Nel ’15, a Londra, egli aveva sposato una barista, Suzanne Nebout, ma il matrimonio, non essendo stato regolarmente registrato all’anagrafe francese, risultò nullo. Ragion per cui, nel 1919, Louis approfittando dell’errore, porta all’altare un’altra donna, Edith Follet, il cui padre medico convince il giovane ad iscriversi alla facoltà di Medicina. Nel 1924, si laurea presso l’Università di Parigi e due anni più tardi pone fine al suo matrimonio: rottura che gli permette – in quanto funzionario della Società delle Nazioni – di girare il mondo. Dopo essersi recato nuovamente in Camerun, attraversa l’Oceano, visitando gli Stati Uniti, Cuba e il Canada. Nel 1931, rientra in Francia dove inizia a praticare la professione di chirurgo presso l’ospedale municipale di Clichy.
Nel 1932, Céline dà alle stampe il suo primo capolavoro, Viaggio al termine della notte, e con rapidità raggiunge il successo. Il romanzo guadagna favorevoli giudizi sia da parte di critici di destra che di sinistra: un apprezzamento ed un’interpretazione contraddittori che accompagneranno l’opera anche dopo la morte dell’autore. Nel 1933, Céline è ormai uno scrittore di fama nazionale e pur manifestando un atteggiamento distaccato non nasconde di compiacersene. Ciò che ai recensori del tempo amano di lui è il coraggio con cui sa immergersi nelle fogne dell’umanità, di sguazzare in mezzo ai nuovi Miserabili, condannati all’ingiustizia, alla sofferenza, ma anche al peccato. Gli intellettuali francesi della gauche credono di avere capito il disegno dell’autore, ma sbagliano. In questa sua navigazione all’interno dell’intestino crasso della società, Céline scopre, attraverso metodi espressivi innovativi e acute osservazioni, un metodo utile per comprendere i veri motivi del degrado sociale e morale, ma non dispensa ricette utili a sovvertire il mondo. I “progressisti” tendono ad interpretare ed utilizzare l’opera di Céline come un mezzo per esorcizzare, in maniera colta, un impiccio: un problema che non riescono a risolvere. In fondo, parlare degli sventurati attraverso uno stile rivoluzionario ed un lessico aspro, apocalittico, quasi sulfureo, a loro piace e a loro bene si addice. La sinistra francese (ieri come oggi) ama credere a ciò che in realtà non comprende o travisa. Céline – che dopo il suo viaggio in Russia del 1936, ha condannato senza riserve “l’inumana insufficienza” del marxismo (vedi il pamphlet Mea Culpa) – descrive il dramma di un’umanità che in realtà l’intellighenzia marxista non conosce affatto, ma che li affascina. D’altra parte Céline non li delude mai, apparecchiando con estrema abilità scenografie e storie di tale promiscuità e degrado morale e fisico da fare impallidire Victor Hugo. D’altra parte, fino da giovane, Céline ha sempre amato rovistare nei meandri della miseria materiale e psicologica degli uomini senza per altro interessarsi alla politica o ai metodi politici: egli è un poeta, un narratore, non un taumaturgo. Ciononostante, fino dai suoi primi lavori Céline ha voluto figurare come uno scrittore ‘del popolo’, sebbene non ‘popolare’. Non a caso ha frequentato (e continuerà a farlo anche in seguito, in veste di medico e chirurgo) povera gente e pochi spiriti da lui considerati degni di attenzione. I disgraziati, gli emarginati, i malati e i quartieri proletari, disadorni, umidi e maleodoranti lo attraggono magneticamente e lo inghiottono nei loro pozzi senza fine. Questi anfratti dove la luce della giustizia non giunge mai e dove il male si rigenera automaticamente per mancanza di alternative, diventano gli scenari della sua indagine culturale a della sua arte descrittiva. Céline ama raccontare la vita dei perdenti e dei derelitti, ma lo fa a modo suo, con lucido cinismo misto a pietà, con allucinata determinazione ed afflato di tenebra. In fondo i miserabili lui li conosce bene. Fino da piccolo, nel suo quartiere, li ha indagati e studiati come grossi insetti abbarbicati sul dorso di una società troppo indaffarata a produrre e a rigenerarsi meccanicamente, quasi per obbligo. Un’aggregazione umana che reputa la povertà alla stregua di uno sgradevole e talvolta riprovevole incidente meccanico. Ma per Céline il dramma sociale ed etico dei perdenti assume le sembianze di un fenomeno antico, ripetitivo inestinguibile poiché spesso derivante dalla stessa mediocre natura dell’uomo. Si tratta di una malattia quasi incurabile, ma di cui conosce l’eziologia, anche se di fronte alla quale non propone terapie praticabili. Questa patologia diventa per lui spunto per l’arte. Essa si addice infatti alla messa a punto di un codice narrativo audace e complesso, al di là del tempo e dello spazio. Céline utilizzerà questo impianto e questo stile, pur con taluni accorgimenti, non soltanto nel Viaggio, ma anche in altre sue opere come Da un castello all’altro e Nord (racchiusi nella Trilogia del Nord, assieme a Rigodon).
Nel settembre 1939, Céline indossa nuovamente la divisa e si arruola come ufficiale medico in Marina. Dopo la resa della Francia, nel giugno del ‘40, egli rifiuta inizialmente di schierarsi con il governo Vichy e si rifugia nella clinica municipale di Satrouville per continuare ad esercitare la professione medica. Dopo essersi sposato per la terza volta (nel 1936 ha conosciuto la giovane ballerina Lucette Almanzor) Céline inizia a dare voce alla sua campagna filo-tedesca e antiebraica. E verso la fine della guerra egli è costretto a rifugiarsi in Germania, a Sigmaringen, con la famiglia e il gatto Bébert. Tra il 1944 e il 1945, il progressivo barcollare della Germania e il conseguente sgretolamento dell’effimero sogno nazional-populista di Pétain offrono all’autore lo spunto per intessere nuove trame a tinte ancora ancor più forti, tali da arrivare a paragonare Singmaringen (laddove si erano rifugiati, sotto protezione tedesca, gli irriducibili di Vichy) ad una sorta di tragicomico girone dantesco. Singmaringen è descritta come un formicaio brulicante di cadaveri ambulanti alla ricerca di un’improbabile salvezza, e soprattutto di pane. E è infatti proprio la fame, cioè l’indigenza e quindi la povertà, a fare nuovamente da filo conduttore al racconto dell’artista.
Nel 1945, il nome di Céline spicca nella lunga lista dei collaborazionisti stilata dai gollisti e dal movimento di resistenza francese i cui capi pregustano già un bel bagno di sangue purificatore in nome della patria e della ritrovata democrazia. Per i suoi trascorsi, Céline viene accusato di alto tradimento e con questo rischia la pena capitale. Dalla Germania fugge quindi in Danimarca, dove vivrà da esule e da carcerato fino al 1950 (esperienza ricordata in Lettere dall’esilio 1947-1949) , quando il governo di Parigi lo grazierà, consentendogli di rimpatriare. L’accoglienza che il mondo intellettuale francese del dopoguerra riserva allo scomodo e compromesso scrittore non è ovviamente delle migliori. I suoi libri, che tanto avevano entusiasmato, non vengono bruciati ma, peggio, dimenticati. Tutti fanno a gara per distanziarsi da quella che viene chiamata la “scheggia impazzita” della letteratura contemporanea francese. Céline viene totalmente emarginato ed anche i suoi vecchi editori e diversi amici – alcuni dei quali si sono comodamente reintegrati nella nuova società francese – lo rinnegano o lo ignorano. Meglio non compromettersi con chi ha fornicato con il diavolo. Tenersi lontano dal dannato miracolato diventa la parola d’ordine. Detto questo, stiamo parlando di un tipo che, in fondo, non disdegna di indossare i panni dell’illustre maledetto, convincendosi (ma fino a che punto?) a mostrarsi nauseato dall’ingratitudine dei suoi compatrioti e divertendosi a punzecchiare i molti mediocri prudenti che, nella Francia del dopoguerra, sono succeduti agli idealisti e ai violenti passati per le armi. Non di rado – quando riceve la visita di qualche giornalista in cerca di reduci del periodo ‘nero’ – egli non perde occasione per lamentarsi dei danni morali ma anche economici causatigli dall’epurazione. Di torti, egli sostiene, gliene sono stati fatti tanti. Certo, in Danimarca egli ha sicuramente sofferto, è finito anche in galera per parecchi mesi, si è ammalato, ma alla fine è potuto rientrare a Parigi dove in fin dei conti nessun giudice lo ha spedito al patibolo, come invece è toccato ad altri noti ma meno fortunati uomini di cultura che hanno collaborato con Vichy, come ad esempio il povero Brasillach. Il suo ritorno in patria e la sua salvezza sono stati infatti favoriti dall’aiuto, a dire il vero insperato, di un gruppo di intellettuali organizzato e guidato dall’avvocato Julien Cornell e dal professore americano di origini ebraiche dell’Università di Chicago, Milton Hindus (recensore entusiasta di Morte a credito). Personaggi importanti come Henry Miller, Edgard Varèse, l’editore James Laughlin e Robert Parker sottoscrivono una petizione per salvargli la vita. E dal momento che l’appoggio del professore Hindus (in quanto ebreo) si rivela fondamentale per scagionare Céline dalle accuse di antisemitismo (“Se dovessimo condannare Céline per attività letteraria antigiudaica dovremmo anche rinunciare anche alle opere di Giovenale, Chaucer, Shakespeare e Dostoevskij”), l’autore si sbilancia e in una lettera densa di ringraziamenti nomina addirittura Hindus suo “Mentore, Polluce e Mercurio”, promettendogli addirittura di svelargli i misteri della sua scrittura e le vere ragioni del suo antisemitismo.
E veniamo all’ultimo capitolo della vita di Céline. Dopo avere ripreso a lavorare, pubblicando Féerie pour une autre fois I-II (1952-54), D’un château a l’autre (1957) e Rigodon – opere che vengono impallinate dalla critica – l’autore si apparta, trovando rifugio insieme a Lucette in una vecchia casa piena zeppa di libri e cianfrusaglie, circondato da cani e gatti, con accanto il pappagallo Toto spesso ritratto sulla sua scrivania ingombra di fogli, pile di manoscritti, matite, penne e avanzi della cena. I rari coraggiosi che continuano a frequentarlo (l’attrice Arletty, l’attore Michel Simon e pochi altri) lo osservano aggirarsi nel suo studio, più simile ad un garage, con il foulard al collo, un paio di vecchi pantaloni tenuti su da una corda, maglioni consunti ed infilati l’uno sull’altro, come un clochard. La sua fronte è solcata dalle rughe, la barba lunga, lo sguardo perso nel vuoto. Parla sottovoce, manda tutti a quel paese, ma continua a scrivere, con la sua solita rabbia geniale. Lavora tutto il giorno, ignorato dai più, e nelle rare soste gioca con i suoi gatti o chiacchiera con Toto. E alla fine muore, il 1° luglio 1961, inseguito dai primi echi di una riabilitazione critica tardiva e indotta, forse, da inconfessabili sensi di colpa.
Bibliografia:
Alméras, P., Céline, Ed.Corbaccio (1997)
Buckley, W. K., ed., Critical Essays on Louis-Ferdinand Céline (1988)
Carson, J., Céline’s Imaginative Space (1989)
Hewitt, N., The Golden Age of Louis-Ferdinand Céline (1987)
Knapp, Bettina, Céline: Man of Hate (1974)
Ostrovsky, Erika, Céline and his Vision (1967)
Thomas, M., Louis-Ferdinand Céline (1980)
Vitoux, Frederic, Céline: A Biography, trans. by Jesse Browner (1992).
Lascia un commento
Devi essere connesso per inviare un commento.