Durante la terza fase della Guerra Civile, i
comunisti avviarono una vasta campagna di sequestri ai danni di bambini e
ragazzi greci, in modo da sottrarre al governo linfa vitale (anche se i capi
marxisti sostennero sempre – anche dopo la fine della Guerra Civile – che tale
pratica venne adottata per “porre in salvo la gioventù greca, allontanandola
dai luoghi di combattimento”). Nelle regioni poste sotto il loro controllo, i comunisti
non ebbero difficoltà nel censire e nell’individuare e sottrarre i fanciulli
alla famiglie. Essi erano infatti in possesso dei registri di natalità di tutte
le città e i villaggi.
Nel marzo 1948, i primi
2.000 ragazzini sequestrati vennero trasferiti al nord e poi espatriati in
Albania, Bulgaria e Iugoslavia. Gli abitanti dei villaggi che tentarono di
proteggere i fanciulli nascondendoli nei boschi, finirono fucilati o impiccati.
Messa al corrente del piano comunista, la Croce Rossa cercò di
muoversi, ma a fronte degli enormi ostacoli trovati sul suo cammino, non riuscì
a fare nulla, tranne redigere, con l’aiuto delle autorità governative e grazie
alle centinaia di testimonianze dei famigliari dei sequestrati, un censimento
che, dopo una serie di aggiornamenti, portò, a stabilire che i bambini
sequestrati e fatti espatriare forzosamente ammontavano, alla fine del 1948, a 28.296 (talune
fonti fanno lievitare la cifra ad oltre 30.000) unità di età compresa tra i tre
e i 14 anni. Questa massa di piccoli disperati venne suddivisa per sesso e poi
rinchiusa in appositi “centri di rieducazione socialista”. Secondo i dati della
Croce Rossa, 18.500 bambini finirono distribuiti in 17 campi bulgari e il resto
in 11 campi romeni, altrettanti ungheresi, diciotto cecoslovacchi, tre
polacchi, cinque albanesi e della Germania Orientale e 15 iugoslavi (dove ne
furono segregati dai 9.500 agli 11.600). Più dettagliatamente, sembra che nel
1950, cinquemila 132 bimbi risultassero presenti in Romania, quattromila 148 in Cecoslovacchia,
tremila 590 in
Polonia, duemila 859 in
Ungheria e 2.660 in
Bulgaria.
Va inoltre precisato
che i frequenti sequestri di fanciulli portati a compimento dai guerriglieri
comunisti greci rientravano nell’ambito di una strategia di tipo geopolitico.
Forti del consenso di Tito e di quello di Stalin, le
bande marxiste del nord agirono in questo modo per cercare di separare la Macedonia greca dal
resto dello stato ellenico, per poi trasformarla in una repubblica socialista
indipendente. Non a caso ai bambini di razza macedone residenti in Grecia che
furono rapiti venne affibbiato l’appellativo di Detsa Begaltsi (bambini sfollati). Detto questo, va
ricordato che a molti altri bimbi greci non di origini macedoni trasferiti in
Bulgaria o Iugoslavia fu poi fatto loro credere di vantare egualmente origini
macedoni. Nell’estate
del 1948, quando la rottura tra il leader Tito e il Cominform
divenne una realtà, il dittatore iugoslavo volle sganciarsi da ogni
responsabilità e di conseguenza 11.600 bambini reclusi nelle “case del Popolo”
iugoslave vennero spediti in Cecoslovacchia, Ungheria, Romania e Polonia. E
tutto ciò nonostante le ripetute, vane proteste del governo greco.
Il 17 novembre 1948, la Terza Assemblea
Generale delle Nazioni Unite votò una risoluzione (la n. 193)
che condannò senza mezzi termini l’operato dei partigiani comunisti ellenici, e
nel novembre dell’anno successivo, l’ONU richiese inutilmente (con la
risoluzione n. 288) agli Stati comunisti di riconsegnare alla Grecia tutti i
bambini sequestrati. Ma i governi di Praga, Budapest, Bucarest e Varsavia negarono
la restituzione affermando in un comunicato congiunto “che la deportazione era stata in realtà un atto umanitario atto a
salvaguardare la vita dei bambini greci dagli orrori della Guerra Civile”.
Nulla di più falso in
quanto, secondo i resoconti della Croce Rossa Internazionale forniti alle
Nazioni Unite e molteplici dossier redatti dalle ambasciate e dai consolati
occidentali in Europa Orientale, il vero scopo dei rapimenti portati a
compimento dalle bande comuniste elleniche era ben altro. I ragazzini sequestrati,
che venivano sottratti alla famiglie in quanto considerate “cellule primarie di
una società contadina corrotta in quanto legata alla religione e alla monarchia”,
erano solitamente trasferiti in appositi “villaggi proletari per l’infanzia”
ubicati in Albania, Iugoslavia, Bulgaria, Ungheria e poi, come si è visto, in
altri Paesi d’oltre cortina, dove venivano sì nutriti e vestiti, ma anche
sottoposti ad una martellante propaganda politica, o meglio ad un vero e
proprio lavaggio del cervello, con lo scopo di trasformarli in fedeli esecutori
del verbo marxista. Tuttavia, stando alle memorie di Zavros Constandinides,
giovane greco che, recluso per anni in Ungheria, nel 1956 riuscì a fuggire – partecipando
tra l’altro alla rivolta anti sovietica di Budapest (23 ottobre al 10 – 11 novembre 1956)
– “pochi furono i miei coetanei a piegarsi alla dottrina comunista”. Con il
compimento del tredicesimo anno di età tutti i ragazzi venivano poi impiegati,
o meglio ‘schiavizzati’, per effettuare pesanti lavori di pubblica o militare
utilità. Come accadde per i piccoli deportati in Ungheria, costretti ad
effettuare massacranti lavori di bonifica nella regione paludosa dell’Hartchag.
Dopo la fine della
Guerra Civile Greca, un ristretto nucleo di fanciulli riuscì a fare ritorno
alle proprie famiglie. Tra il 1950 e il 1952, i regimi d’oltre cortina
permisero ad appena 684 di essi di rimpatriare: fortuna che, nel 1963, arrise
ad altri 4.000 bambini, divenuti ormai uomini. Va ricordato che anche altri fanciulli greci rapiti, poi
diventati adulti, riuscirono per vie traverse a raggiungere, verso la fine
degli anni Cinquanta, il confine della Germania occidentale e a mettersi in
salvo.
Ciononostante, dopo la fine della Guerra Civile, moltissimi bambini
non fecero più rientro in Grecia, alcuni perché avevano deciso di rimanere nei
Paesi del Blocco Orientale, molti altri perché erano “misteriosamente scomparsi”
nei campi di rieducazione, come riferì la Croce Rossa Greca.
Successivamente, la regina di Grecia Federica di Hannover creò, grazie al sostegno della Nazioni Unite, 58 “Città dei
Bambini” o Paidopolei, suscitando
la violenta contestazione di tutta la sinistra europea che aveva in odio
l’aristocratica tedesca) nei quali confluiranno molti orfani greci ed anche i
figli di combattenti del DSE.
Ma torniamo al destino
dei fanciulli dispersi in Europa Orientale. Ancora agli inizi degli anni
Ottanta, in Polonia risultavano presenti circa 1.000/1.500 (alcune fonti
riportano cifre ancora più elevate) greci rapiti, ancora in tenerissima età,
nel 1948. In
seguito, molti di essi entrarono a fare parte del Movimento “Solidarność” (Sindacato Autonomo
dei Lavoratori “Solidarietà”) fondato nel settembre 1980 da Lech
Wałesa, ed alcuni vennero incarcerati anche dal regime comunista di Varsavia dopo
l’introduzione della legge marziale del dicembre 1981. Nel 1989, con l’inizio
del processo di democratizzazione del Paese, la quasi totalità degli ex
‘piccoli’ profughi ellenici fece domanda per ritornare in Grecia.
Nel 1985, il fenomeno
del rapimento in massa dei bimbi venne ripreso dal noto regista e produttore
cinematografico e televisivo inglese Peter Yates con il film Eleni, interpretato, tra gli altri, da John
Malkovich e Linda Hunt. La pellicola venne però snobbata dalla quasi totalità
della critica di sinistra (soprattutto quella italiana) alla quale non andò
evidentemente a genio l’imbarazzante soggetto. La trama del film narra la
storia, un po’ romanzata, della quarantunenne Eleni Gatzoyiannis, assassinata
dai guerriglieri comunisti il 28 agosto del 1948 nel villaggio montano di Lia.
La donna venne fucilata e finita con un colpo alla nuca suo figlio Nicholas, emigrato fortunosamente
in America, riuscirà poi, alla fine della Guerra Civile, a fare rientro in
Grecia per capire le vere ragioni della morte di sua madre.
La tragedia dei bambini greci rimasti orfani o rapiti e deportati in
Albania, Iugoslavia e Bulgaria dai partigiani comunisti per farne ‘buoni
marxisti, secondo i dettami di Lenin (“dateci un ragazzino e nell’arco di otto
anni lo rieducheremo”) era stata in realtà già affrontata da un altro
precedente film del 1957, Il Bandito dell’Epiro
(titolo originale, Action of the Tiger)
del regista statunitense Terence
Young. La pellicola, che si avvalse della partecipazione di parecchi attori,
tra cui Van Johnson, Martine Carol e il giovane Sean Connery, narra la storia di
una ragazza francese che, dopo l’instaurazione del regime marxista di Enver
Hoxha, sbarca segretamente in Albania per cercare suo fratello, militante
volontario comunista, scomparso durante la Guerra Civile
Greca. Affianca la donna, tale Carson, un avventuriero
americano che, giunto sul posto, viene a sapere della deportazione dei bambini
greci in terra albanese. A quel punto, egli vuole tentare di riportare in
occidente un certo numero di fanciulli scoperti in un remoto villaggio dell’interno.
Lungo la loro fuga per la libertà, essi troveranno anche ex partigiani
comunisti e poliziotti del regime albanese, anch’essi intenti a fuggire dal “paradiso
marxista” del sanguinario Hoxha.
Il primo resoconto del Times di Londra del 15 marzo 1948
Oltre alle testimonianze della Croce Rossa Internazionale, riprese anche dai rappresentanti diplomatici occidentali presenti ad Atene, riportiamo il primo vero e proprio resoconto giornalistico straniero dell’epoca sulla tragedia dei bambini in corso in Grecia, stilato il 15 marzo 1948 dalla redazione del Times di Londra. Quale testimonianza diretta ne riassumiamo in parte il contenuto. “Nell’abbandonato municipio di Kozani [Macedonia occidentale, n.d.a.] – riporta la testata inglese – una piccola città situata nelle montagne dell’Ellade, dodici tra contadine e contadini macedoni furono soccorsi dagli uomini di una squadra inviata sul posto dalle Nazioni Unite. Quegli individui riferirono di essere rimasti per molto tempo ostaggio dei guerriglieri ‘rossi’ del generale Markos Vafiadis. Nel loro ostico dialetto greco-slavo-albanese raccontarono la loro avventura. Avvolta in uno scialle nero, una donna, la cinquantenne Athena Papalexiou, narrò per prima la sua storia. “Una volta giunti nel nostro villaggio, gli Andartes (i partigiani comunisti) registrarono tutti i bambini tra i tre e i 14 anni”, dopodiché dissero ai genitori che i loro figli sarebbero stati trasferiti all’estero, nei vicini Paesi comunisti, per essere nutriti ed assistiti in apposite Case della Gioventù”. “Vi dissero se un giorno i vostri figli sarebbero ritornati?”, chiese alla donna un funzionario delle Nazioni Unite. “No di certo. E poi era proibito discutere la questione”.John Natsis e Zagarus Voiliotis riferirono di avere osservato tempo prima nel villaggio di Kranies un contadino fornire le generalità dei suoi tre figlioletti ad un ufficiale ribelle. “A quell’uomo i comunisti dissero di stare tranquillo e di collaborare poiché i suoi bambini sarebbero stati posti in salvo in Romania dove avrebbero ricevuto alimenti e buona istruzione. Ed aggiunsero che tutti i genitori di Kranies avrebbero dovuto fare altrettanto poiché di lì a poco “le truppe monarco-fasciste (l’Esercito regolare greco) avrebbero bombardato il villaggio”. Sulle prime – riporta sempre il quotidiano Times – molti osservatori stranieri non vollero credere alla storia dei rapimenti dei bambini compiuti dai ‘rossi’, ma poi furono costretti a ricredersi, anche in base ai resoconti stilati dai funzionari delle Nazioni Unite invitati ad indagare sul fatto dallo stesso governo di Atene […]. D’altra parte, la conferma di questi sequestri la diedero gli stessi leader ribelli. Nel marzo 1948, ‘Radio Grecia Libera’ (emittente clandestina comunista ubicata in Grecia settentrionale) annunciò che 12.000 bambini greci (8.000 dei quali provenienti dalla regione di Kastoria) erano già stati salvati ed inviati nei Paesi socialisti per scopi istruttivi, e che gli emissari di Markos presenti in Romania, Bulgaria e Iugoslavia, avevano già predisposto, con la collaborazione delle locali autorità, l’accoglienza dei ragazzi provenienti dalla Grecia (per la cronaca, quale responsabile operativo di tale operazione venne nominato Georgios Manoukas che, rifugiatosi dopo la sconfitta comunista del 1949 all’estero, nel 1961 rientrerà in Grecia, dove pubblicherà un testo sull’argomento. A questa notizia ne fece eco una seconda, più dettagliata. Pochi giorni dopo, infatti, l’emittente di Markos annunciò che “le forze partigiane avevano provveduto a trasferire 4.884 bambini residenti in 69 villaggi della “Libera Grecia” in Albania, Yugoslavia e Bulgaria” per salvarli dagli orrori della Guerra Civile e per consentire a questi piccoli “Rifugiati Politici della Guerra Civile Greca” (in realtà, soltanto il 2% delle famiglie greche accettò spontaneamente che i propri figli venissero trasferiti all’estero) di godere di un migliore tenore di vita e soprattutto di “frequentare scuole adatte”. “La verità – commentò laconicamente un portavoce del governo di Atene – è che i ‘rossi’, attraverso i sequestri di massa, intendono privare la Grecia del suo futuro”. Di conseguenza, l’esecutivo ellenico si affrettò ad inviare un’aspra nota al comitato balcanico delle Nazioni Unite a Salonicco, accusando i comunisti di “genocidio” e chiedendo un intervento ufficiale immediato che si concretizzò, di lì a poco, con la nomina di due appositi Comitati che avrebbero dovuto raccogliere, esaminare e catalogare “con la massima celerità” tutti i casi di sequestro segnalati sul territorio dai loro osservatori. Il governo greco definì il sequestro di massa dei bambini come paidomazoma, in quanto esso richiamava alla mente i tempi in cui i turchi razziavano la popolazione ellenica.
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