Alla base dell’irrisolto contenzioso sulla regione del Nagorno Karabakh (Artsakh) non vi è solo la secolare contrapposizione fra il mondo turco e quello armeno. Breve analisi delle ragioni del conflitto e attuali strategie politiche dei soggetti in campo.
1993. La Turchia chiude il confine con la vicina Armenia. Alla base di tale unilaterale decisione non sta l’irrisolta disputa con gli armeni per il riconoscimento del genocidio del 1915 ma (anche) il conflitto che da un paio di anni sconvolge, poche decine di chilometri più a est, la piccola regione del Nagorno Karabakh. Un territorio prevalentemente montuoso di circa 4.400 km2, l’antica provincia armena di Artsakh, per il quale si fronteggiano, senza esclusione di colpi e in un crescendo di violenza che interessa in primo luogo la popolazione civile, armeni e azeri.
Non è questa la sede per una approfondita disamina storica delle vicende del Caucaso meridionale; limitiamoci soltanto a considerare l’origine del contenzioso che risiede soprattutto nella decisione politica di Stalin del 1923 di assegnare – contrariamente alle indicazioni del Comitato Caucaso – il Karabakh Montuoso e il Nakichevan alla RSS Azera, nonostante che questi territori fossero abitati prevalentemente da armeni (rispettivamente il 95% e il 60% della popolazione). Il Nakichevan, confinante con l’Armenia, si svuotò rapidamente mentre il Karabakh (che era un’enclave armena in territorio azero) rimase etnicamente compatto, nonostante i tentativi di ripopolamento compiuti negli anni da Baku.
Con lo sfaldarsi dell’Unione Sovietica – la cui unità comincia a venire meno non con la caduta del muro di Berlino, ma con i violenti pogrom anti armeni di Sumgait in Azerbaigian (febbraio 1988): persecuzioni che sanciscono il distacco dal centralismo moscovita – riprendono vigore le aspirazioni degli armeni del Nagorno (Montuoso) Karabakh e al tempo stesso cresce la tensione fra le parti in campo.
Il 30 agosto 1991, il Soviet Supremo azero vota per il distacco dall’Urss e proclama la nascita della nuova repubblica di Azerbaigian. La decisione, che segue quella analoga di altre repubbliche socialiste sovietiche, si trasforma tuttavia in un inaspettato regalo per gli armeni del Nagorno Karabakh che, tre giorni dopo, in una seduta congiunta del Soviet regionale (il Karabakh aveva status di oblast ossia Regione Autonoma) e di quelli distrettuali, vota la secessione dall’Azerbaigian e la contestuale proclamazione della Repubblica del Karabakh Montuoso-Artsakh.
La decisione viene presa sulla base della legge sovietica del 3 aprile 1990 (“Norme riguardanti la secessione di una repubblica dall’Urss”) che consente alle regioni autonome etnicamente definite di distaccarsi dalla repubblica nella quale erano inglobate qualora non intendessero seguire il medesimo processo di separazione.
In buona sostanza, tra il 30 agosto e il 2 settembre 1991, si creano due distinte entità statali: la repubblica di Azerbaigian che si stacca dall’Urss e quella del NK che decide di non seguirla. Quando gli azeri si accorgono del clamoroso errore politico commesso e provano a rimediare abolendo lo status di “regione autonoma” al Karabakh, è ormai troppo tardi. Nel mese di novembre, è la Corte Costituzionale di Mosca a sentenziare che Baku non ha più alcun potere decisionale in materia, convalidando quindi quel processo democratico di autodeterminazione che il 10 dicembre successivo sarà confermato dal referendum popolare, seguito il 26 dello stesso mese dalle prime elezioni politiche. Il 6 gennaio 1992 (Natale armeno), nasce ufficialmente la repubblica, e il 30 gennaio le forze armate azere sferrano l’attacco militare al nuovo stato armeno.
Ne segue una sanguinosa guerra al termine della quale si conteranno trentamila vittime, centinaia di migliaia di sfollati (quattrocentomila armeni sono scappati nel frattempo dall’Azerbaigian, e ottantamila azeri hanno fatto il percorso inverso), la distruzione di case e infrastrutture. I partigiani armeni sono destinati alla sconfitta certa: pochi e male equipaggiati, non hanno neppure una divisa ufficiale e per riconoscersi, e sono costretti a dipingere una croce bianca cristiana sulle tute mimetiche e sui pochi mezzi a loro disposizione. Ciononostante, riescono a vincere. Gli azeri sono, infatti, dilaniati da faide politiche interne, e la conquista armena della roccaforte di Shushi (dalla quale gli azeri bombardavano la sottostante capitale Stepanakert) e del corridoio di Lachin (striscia di territorio azero che separava il NK dall’Armenia) consentono di ribaltare le sorti del conflitto. I partigiani armeni formano l’Esercito di Difesa del NK, arrivano volontari dalla Diaspora (fra i quali lo statunitense Monte Melkonian, che contribuirà in maniera decisiva ai successi militari, riorganizzando gli improvvisati reparti di autodifesa), il rinato collegamento con l’Armenia alimenta un flusso di aiuti e risorse.
Nel 1993, gli azeri sono in rotta e gli armeni, poco alla volta riescono a liberare tutta l’ex oblast sovietica e a conquistare nuovi territori: in primo luogo quelli contigui all’Armenia sì da assicurarsi la protezione alle spalle; oltre a ciò si spingono anche verso est e sud. Perdono la regione di Shahoumian (che Gorbaciov con la “Operazione Anello” ha dearmenizzato) ma conquistano la città di Agdham e poi, in successione, Fizouli, Jebravil, Gubatly e Horadiz con una avanzata che sembra inarrestabile. A fine 1993, gli armeni controllano poco più di undicimila chilometri quadrati (corrispondenti grosso modo all’antica regione di Artsakh) rispetto ai 4400 originari. Si dice che possano arrivare fino a Baku. Ma si fermano.
La Turchia ha chiuso la frontiera con l’Armenia (unico caso di blocco dei confini per solidarietà con una terza parte…) e soprattutto ha allertato il suo imponente esercito: gli armeni capiscono e, stremati dal conflitto, si fermano. Nel maggio del 1994 rappresentanti della repubblica di Armenia, dell’Azerbaigian e del Nagorno Karabakh-Artsakh firmano a Biskek (Kirghizistan) un accordo di cessate-il-fuoco.
Venti anni dopo sono sostanzialmente due i processi in corso: innanzi tutto il progressivo consolidamento della statualità de facto della piccola repubblica del Nagorno Karabakh (150.000 abitanti) accompagnato da un miglioramento delle condizioni economiche, delle infrastrutture e da riconoscimenti internazionali di secondo livello (membri di stati federati negli Usa, in Australia, da ultimo il Parlamento basco); dall’altro una costante tensione lungo la linea di demarcazione con l’Azerbaigian e lungo la frontiera tra questo e l’Armenia.
I negoziati, inquadrati nell’ambito del format del Gruppo di Minsk dell’Osce, non sono riusciti ancora a portare le parti alla firma di un definitivo trattato di pace.
L’Azerbaigian, dove da due dinastie il potere è controllato in modo autoritario dalla famiglia Aliyev, punta sull’orgoglio nazionale e sulla armenofobia, cavalcando il sogno della conquista militare della regione con un occhio ai rapporti internazionali (gestione delle risorse energetiche) e l’altro ai problemi interni (nella ultima classifica sulla libertà di informazione nel mondo il Paese è al 163° posto su 180 stati); dal canto suo l’Armenia non intendere cedere le posizioni guadagnate sul campo e sia pure non essendosi apertamente dimostrata contraria ai “Principi di Madrid” (una sorta di exit strategy varata dall’osce che prevede da un lato il riconoscimento della statualità del Nagorno Karabakh ma limitata ai confini del vecchio oblast sovietico sia pure con il mantenimento di una fascia di protezione tra questo e l’Armenia) non può accettare alcuna risoluzione del contenzioso che non preveda preliminarmente il riconoscimento dello status della piccola repubblica armena.
In questo contesto di incertezza, il diritto di autodeterminazione raggiunto dal NK attraverso un percorso democratico e legale rischia di essere costantemente minato da violazioni dell’accordo di cessate-il-fuoco che si fanno via via sempre più frequenti e gravi e che provocano alcune decine di morti l’anno da ambo le parti. Un cosiddetto “conflitto congelato” che è in realtà un vulcano pronto a esplodere con tutte le gravissime conseguenze, sia politiche che economiche, non solo per la regione ma per l’intero sistema europeo.
A premere sull’acceleratore della tensione è ovviamente l’Azerbaigian preoccupato che il passare del tempo consolidi la statualità dei rivali e porti all’inevitabile riconoscimento internazionale.
In questo contesto la posizione della Turchia è stata altalenante; se da un lato Ankara – storico e fraterno alleato degli azeri – ha sempre appoggiato le rivendicazioni di Baku e fornisce un supporto di assistenza tecnica e militare che è andato crescendo negli ultimi anni, dall’altro ogni suo (sfumato) tentativo di avvicinamento allo storico rivale è stato bacchettato dallo stesso Azerbaigian impedendo di fatto lo sviluppo di quella politica estera “zero problemi con i vicini”) che negli anni passati il governo turco ha cercato con difficiltà di portare avanti.
Accenni alla possibilità di una riapertura del confine con l’Armenia (soluzione sollecitata soprattutto dalle province orientali turche che soffrono l’isolamento commerciale) hanno incontrato il fermo monito dell’alleato azero. Sicché, in concomitanza del centenario del genocidio armeno, la Turchia di Erdogan è andata collocandosi su posizioni ancora più radicali nei confronti degli armeni, chiudendo apparentemente le porte a ogni possibilità di dialogo.
È altresì evidente il suo tentativo di inserirsi nel processo di negoziato del Gruppo di Minsk al punto che l’Azerbaigian ha chiesto la sostituzione del co-presidente in quota Francia (accusata di parteggiare per gli armeni) con uno di espressione turca; ma anche di creare nuovi formati di negoziato, come accaduto nei mesi passati all’interno dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa dove la possibilità di “indirizzare” i singoli parlamentari è più agevole.
È evidente il peso di un Paese, membro nato, nell’attuale criticità del contesto mediorientale e quello dell’Azerbaigian che trae dal petrolio non solo il proprio sostentamento economico ma anche la forza politica di pressione su Russia, Stati Uniti ed Europa alimentata anche grazie a quella cosiddetta “politica del caviale” (sinonimo di corruzione), ormai entrata di fatto nel vocabolario diplomatico internazionale.
E tuttavia la forza dirompente del petrolio, se da un lato è una sorta di assicurazione per Baku, dall’altro ne vincola i movimenti futuri: giacché infatti una guerra nella regione avrebbe effetti devastanti a cominciare dalle pipe line che portano gas e greggio nel vecchio continente e che in caso di conflitto sarebbero inevitabilmente coinvolte con il rischio di lasciare l’Europa al freddo e al buio.
Si impone dunque la necessità di un soluzione politica che veda finalmente riconosciuto il diritto ai centocinquantamila armeni del Nagorno Karabakh-Artsakh a vivere liberi, a casa propria, in uno stato che già di fatto è pienamente organizzato all’interno di una società civile che – riportano le organizzazioni internazionali di settore – ha profili di democrazia superiori a tutti gli altri soggetti in campo.
Atteso che è impensabile e impraticabile qualsiasi altra soluzione, l’Europa, l’Italia, devono avviare una politica di progressivo riconoscimento del Nagorno Karabakh finalizzata alla stabilità della regione; non si vede per quale ragione gli imponenti sforzi prodotti dalla politica europea per vedere riconosciuta la statualità del Kosovo o del Sud Sudan (etnicamente molto meno compatti del Karabakh Montuoso) non possano essere impiegati anche a favore di una piccola terra abitata da un grande popolo i cui valori culturali sono alla base delle radici della nostra Europa.
Bibliografia italiana
E. Aliprandi, Le ragioni del Karabakh, &MyBook (2010)
E. Aliprandi, Karabakh, urlo senza fine, in Corgnati-Volli (a cura di), Il genocidio infinito, Guerini e Associati (2015)
N. Hovhannisyan, Il problema del Karabakh, Ed. Studio 12 (2010)
P. Kuciukian, Giardino di tenebra, Guerini e Associati (2003)
M. Melkonian, Una vita per la libertà, Edizioni Clandestine (2008)
N. Pasqual, Armenia e Nagorno Karabakh, Guide Polaris (2010)
S. Shahmuradian, La tragedia di Sumgait, Guerini e Associati (2012)
Sul web, in italiano:
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