Breve storia della cultura occitana. Di Alberto Rosselli.

Raduno occitano. In nome della memoria e delle radici culturali.

Quando nel Tredicesimo secolo i linguisti italiani, primo fra tutti Dante Alighieri, tentarono una prima classificazione di massima degli idiomi “romanzi”, essi presero come fondamentale riferimento la particella che nelle varie lingue solitamente indica l’affermazione. E Dante, nella fattispecie, rilevò su questa base tre particolari e distinti idiomi: la lingua d’oc (l’occitano o provenzale), la lingua d’oil (il francese) e la lingua del sì, cioè l’italiano. E per designare l’insieme dei territori nei quali veniva usato il primo idioma, cioè la lingua d’oc, venne coniato, nel 1290, il termine geografico-culturale di Occitania, la cui radice “oc” deriva dal latino hoc est. La storia della lingua occitana è molto antica, affascinante e, nel corso dei secoli, si accompagna ed intreccia con lo sviluppo della cultura provenzale o del Midì di Francia e, più in particolare, con fenomeni storici di notevole rilevanza, come l’eresia catara o albigese. In epoca pre-romana, la civiltà occitano-provenzale – che sotto il profilo geografico, si sviluppò grosso modo nell’area compresa tra le Alpi Occidentali e i Pirenei – conobbe influssi linguistici ellenici soppiantati successivamente – dopo la colonizzazione romana della Francia meridionale – da latino, lingua destinata ad esercitare una profonda e duratura influenza sullo sviluppo futuro dell’idioma occitano. Nel periodo tardo imperiale e soprattutto durante le invasioni barbariche del IV e V secolo e le posteriori scorrerie saracene, questa lingua captò altri influssi, alcuni di matrice germanica (ad esempio: elementi gotici e franchi) ed altri – seppure in misura molto minore – di origine berbera ed ebraica. L’Occitano è attualmente considerata a tutti gli effetti una lingua a sé stante, appartenente di diritto al gruppo delle nove lingue romanze (assieme all’italiano, il francese, il portoghese, lo spagnolo, il catalano, il sardo, il rumeno e il ladino), ed essa viene attualmente parlata da circa tre milioni di individui, mentre altri sette sono in grado di comprenderla. Ai giorni nostri, l’”area linguistico-culturale” occitana – che si estende in gran parte in terra di Francia per 190.000 chilometri quadrati per un totale di circa 15 milioni di abitanti – comprende il Delfinato meridionale, la Provenza, l’Alvernia, la Linguadoca, la Guienna, il Limosino, la Guascogna, più la Valle di Aran (Pirenei spagnoli). Discorso a parte ( e che ci tocca da vicino) merita la cosiddetta Occitania “italiana” che include 14/15 vallate piemontesi (tra cui la Val Tanaro, la Val Gesso, la Valle Stura, la Val Grana, la Val Maira, la Val Varaita, la Valle del Po, la Val Pellice, la Val Germasca e la Val Chisone), alle quali bisogna però aggiungere l’enclave “brigasca” dell’estremo ponente ligure, corrispondente alla valle Roya e a parte della Valle Argentina. Va subito precisato che, tuttavia, a questa vasta regione non corrisponde una lingua occitana diciamo ufficiale e comune, ma tre dialetti:l’occitan-moyen (languedocien+provençal), il nord-occitan (limousin+auvergnat+provençal alpin) e il gascon.

Mappa linguistica dell’Occitania.

I primi scritti in lingua d’oc risalgono al 900 dopo Cristo, mentre i primi versi dei troubadour (cioè i trovatori o poeti provenzali) vengono datati intorno al 1100 (da ricordare questo proposito le liriche del Duca di Aquitania Guglielmo IX). Tra il 1100 e il 1200, la lingua e la letteratura d’oc iniziò a diffondersi in tutta Europa, spingendo molti illustri poeti francesi, ma anche italiani (tra cui il già citato Dante) e catalani ad adottarla per esprimere attraverso le loro opere  e la loro immaginazione una sorta di ardore amoroso piuttosto liberale e quindi distante dai casti registri fino ad allora utilizzati. A differenza dei trouviers delle terre del nord, che cantavano le gesta eroiche di re Carlo e dei suoi paladini, i troubadour utilizzavano, infatti, la dolce lingua provenzale per cantare ed elogiare la passione, riavvicinando l’uomo medioevale ai piaceri della mente ma anche della carne. Giunti in Italia alla corte di Federico II di Svevia, i trovatori provenzali divennero gli ispiratori di quella Scuola Siciliana che segnò il nascere della poesia in Italia e che a sua volta influenzò i poeti toscani e il Dolce stil novo. Arnaut Daniel, Bernart de Ventadorn, Bertran de Born e altri cantori il cui nome è purtroppo andato perduto, furono in qualche modo tra i protagonisti della rinascita dell’Europa medioevale alla riscoperta – dopo secoli di barbarie – delle gioie della poesia e dei piaceri dell’arte.

Come spiega la professoressa Federica Pessotto, “Dante ammirava immensamente i poeti occitani, considerandoli suoi maestri per quanto concerneva la poesia in volgare. Già nel De Vulgari Eloquentia, il Sommo Poeta ebbe modo di lodare le capacità espressive dei trovatori, ribadendo infine l’utilità e l’unicità di questa scuola. Non a caso, ne la Divina Commedia il Sommo Poeta “incontrerà”, non certo casualmente, , un poeta provenzale in ognuna delle tre cantiche: Bertram de Born nell’Inferno, Folchetto da Marsiglia nel Paradiso e Arnaut Daniel nel Purgatorio (1). Arnaut è forse il più celebre dei trovatori, noto soprattutto per il suo poetare difficile e oscuro, il trobar clus. L’antica Vida di Arnaut scrive di lui : ” e pres una maniera de trobar en caras rimas, per que soas chansons no son leus ad entendre ni ad aprendre”. “Dante – continua la Pessotto – scelse di collocare questo poeta nella settima cornice dell’Inferno, cioè quella dei lussuriosi, attribuendogli la colpa di avere cantato l’amore terreno e non quello del Cielo”: peccato che il poeta toscano dovette però imputare anche a se stesso. Nel Paradiso terrestre, Beatrice lo rimproverà, infatti, per essersi rivolto a false immagini di bene. Per quanto concerne poi l’alta considerazione di Dante nei confronti della lingua occitana, vale la pena di ricordare che proprio nella Commedia, l’Arnaut appare libero di esprimersi nel suo idioma. “Evento abbastanza insolito e che rappresenta – conclude la Pessotto – un grandissimo onore giacché le sole altre due lingue che compaiono nel poema sono il latino, lingua della poesia classica e l’italiano o volgare: chiaro segnale del fatto che Dante riteneva gli occitani maestri assoluti della tradizione poetica in lingua volgare”. Un lingua ‘volgare’ dai tratti comunque ‘aristocratici’. L’occitano presentava, infatti, una straordinaria peculiarità, essendo esso un perfetto modello di parlata ‘sopradialettale’. D’altra parte, la sua sostanziale uniformità, raffinatezza e diffusione derivavano da importanti fattori socio–culturali. L’occitano troubadorico era la lingua di una classe sociale egemone, cioè l’aristocrazia feudale, cui si ispirava anche una nascente, forte e colta borghesia mercantile, ma nella quale si rispecchiava anche il popolo che percepiva proprio in questa lingua l’elemento fondamentale, e condiviso, di appartenenza ad una nobile e indipendente ‘nazione’ a sé stante. In questo senso, si può affermare che la lingua occitana (al pari di altri fenomeni similari osservabili nel divenire millenario della storia) cementò in un popolo l’idea di nazione intesa come stato.

Verso la metà del XIII secolo, allorquando ebbe inizio il declino politico ed economico dei feudi occitani (tra cui Carcassonne, il più importante) entrati in conflitto con il potere regio francese e con la Chiesa romana, la lingua occitana iniziò a frammentarsi e a perdere l’antico prestigio. La sempre più evidente ostilità palesata dalla popolazione occitana – gelosa della propria autonomia politica e culturale – nei confronti del papato e la concomitante diffusione nel Midì dell’eresia catara (movimento religioso di origine bulgara che professava un ritorno al Cristianesimo delle origini), indussero papa Innocenzo III, sollecitato dall’abate l’Abate Arnaud-Amaury di Citeaux, il re Filippo Augusto di Francia e il condottiero Simon de Montfort a bandire ed organizzare una crociata per estirpare la pericolosa eresia e porre sotto controllo l’intero Midì, soprannominato ormai il “cuore ribelle di Francia”. Tra il 1208 e il 1242, le armate al comando del re e dei nobili di Francia fedeli al papato scagliarono le proprie armate contro le roccaforti càtare o albigesi, sterminando, dopo una lunga e feroce guerra nel corso della quale entrambe le parti si macchiarono di orrendi crimini, gran parte dell’intera comunità del Midì, i cui sopravvissuti cercarono rifugio nei castelli disseminati intorno alla roccaforte principale di Carcassonne, resistendo ancora per un certo tempo, per poi soccombere definitivamente alla metà del Tredicesimo secolo. (2) Seppure completato lo sterminio degli “eretici” e stabilito il dominio culturale e religioso franco-papalino su tutta la regione, alcuni gruppi di superstiti, nascostisi nelle più remote valli dei Pirenei e delle Alpi Occidentali, iniziarono a tramandarsi, di generazione in generazione, il retaggio di una lingua che ancora oggi mantiene integre le sue radici. Per qualche tempo, addirittura, la parlata occitana sopravvisse negli atti e negli editti emanati dal parlamento del Regno di Navarra. Nel 1400, nonostante i veti della cultura ufficiale francese, molti intellettuali occitani continuarono a scrivere opere e poemi (addirittura alcune traduzioni della Bibbia) nella loro lingua madre. Nella fattispecie, per quanto riguarda le popolazioni occitane del versante alpino italiano, furono i Valdesi stanziati nelle valli piemontesi Pellice, Germasca e Chisone, ad avviare una delle più solide produzioni letterarie autonome. Nel 1539, con l’editto di Villers-Cotterets, il re di Francia Francesco I abolì e bandì ufficialmente l’uso dell’idioma d’Oc, imponendo la lingua d’Oil, destinata a diventare, sia nel contesto culturale nazionale che in quello amministrativo e burocratico, la lingua di stato francese. Per tutto il Seicento, i linguisti francesi relegarono l’occitano nel limbo dei semplici dialetti, disconoscendone le nobili origini. Anche se proprio nel XVII il tolosano Godolin ne rinverdì i fasti e la letteratura: opera portata avanti in seguito dal romanziere Jean Bodon Verso la fine del XVIII secolo, i rivoluzionari francesi, in nome della “fraternità e dell’uguaglianza”, cercarono di imporre un’unica lingua, il francese, combattendo ferocemente non soltanto l’occitano, ma anche il bretone e il basco. E in questa lotta repressiva ebbe modo di distinguersi, nel 1789, l’Abate Grégoire il quale considerava queste lingue non soltanto dei volgari patois, ma anche il retaggio di una vecchia società feudale da abbattere (3). La protervia con le quali la cultura ufficiale francese ha sempre cercato di sopprimere la minoranza linguistica occitana non ha comunque impedito a quest’ultima di resistere fino ai nostri giorni, grazie al contributo di altri coraggiosi studiosi, come il poeta e linguista Fréderic Mistral (premio Nobel nel 1904) che nel 1854 fondò il movimento culturale Felibrige per poi creare il primo Dizionario occitano, Lou Tresor dou Felibrige. Mistral scelse come lingua letteraria il dialetto provenzale rodaniano e per la grafia fonetica, il modello francese, creando quello che si sarebbe in seguito chiamato modello ‘mistraliano’. Proprio seguendo questi criteri, il poeta del ‘Rinascimento Linguistico Occitano’ compose gran parte delle sue opere più celebri, da Mereìo a Calendau a Lo poema dau Rose. In risposta all’espandersi della grafia selezionata dai ‘Felibre’ provenzali, nacque l’Escòla Occitana, che si pose come obiettivo un ritorno all’impiego della grafia classica utilizzata in tempi antichi dai trovatori. Nel 1935, Louis Alibert propose, infine, una grafia etimologica utilizzabile da tutte le varietà occitane, detta ‘classica’ o alibertina. Essa poneva in rilievo l’unità della lingua basandosi sull’etimologia latina: sistema che portò ad una sostanziale unità grafica secondo principi di coerenza etimologica e permise realizzazioni fonetiche diverse, rispettando le caratteristiche di variabilità della lingua stessa.

Frederic Mistral.
Una danza occitana (Val Varaita).

Dopo la seconda guerra mondiale nacque l’Institut d’Estudis Occitans e negli anni Cinquanta un altro personaggio, abbastanza discusso, Francois Fontan non soltanto si batté per l’autonomia linguistica, ma iniziò anche a lottare per ottenere l’indipendenza politica della “nazione” occitana: entità statuale a dire il vero molto virtuale e in quanto tale mai riconosciuta (4). Ciononostante, alla fine degli anni Sessanta, la “questione occitana” riprese quota e nelle valli piemontesi nacquero gruppi culturali e politici, alcuni dei quali piuttosto radicali come il MAO (Movimento Autonomista Occitano) che tentarono senza successo di perseguire l’obiettivo di Fontan. All’inizio degli anni Novanta, con l’entrata in campo della Lega, alcuni circoli autonomisti occitani piemontesi credettero, invano, di potere realizzare il proprio sogno secessionista. Oggi, il rinato attaccamento verso la cultura occitana ha finalmente ottenuto un importante riconoscimento ufficiale a livello nazionale, attraverso l’approvazione da parte del Parlamento Italiano della legge 482/99, che tutela proprio l’occitano come minoranza linguistica storica. Da tempo, però, le amministrazioni locali dell’area montana cuneese si sono fatte carico della necessità di conferire alle diverse parlate locali la necessaria unità linguistica e grafica. Studi in questa direzione sono stati condotti dall’ente istituzionale Espaci Occitan di Dronero, nata dall’Iniziativa Comunitaria Interreg II (94- 99) Italia/Francia, al fine di ricercare una varietà linguistica occitana referenziale d’ambito alpino, autonoma, ma legata all’insieme linguistico occitano. Obiettivo che, secondo gli studiosi dell’ente, potrebbe rappresentare un valido antidoto al decadimento dei valori della cultura alpina occidentale. Di similare matrice appare anche il progetto Occitan lenga viva (Occitano lingua viva), finanziato dalla Commissione Europea (DG XXII, bando 95/c 322/13 del 1998 e 95/c 17804 del 1999), che (al pari de L’escolo dou Po – La scuola del Po – specializzata in poesia e delle Calandretas, le scuole di lingua occitana) ha come scopo quello di attivare esperienze pedagogiche e culturali volte a radicare nelle giovani generazioni l’orgoglio di appartenere ad una ‘civiltà’ ancora viva e facente riferimento ad un comune e ricco linguaggio. Anche grazie a tutte queste iniziative, a tutt’oggi lungo 14 vallate alpine piemontesi circa 180.000 individui sono riusciti a conservare non soltanto la conoscenza dell’antico idioma, ma anche quelle pratiche economiche agro-silvo-pastorali, e quelle manifestazioni culturali e folcloristiche ad esse legate o connesse. In molte località delle Alpi Occidentali non è infatti difficile assistere al festeggiamento di periodiche o stagionali ricorrenze, sia di natura religiosa che pagana. Come ad esempio le feste del Lou Fantome di Torrette, della Beò de Blins di Bellino e del Baìo di Sampeyre. Per non parlare dei numerosi raduni dedicati alla musica occitana: espressione artistica che vide in Claudi Martì il primo tenace alfiere. Tra i numerosi gruppi musicali e corali delle valli piemontesi troviamo l’Abourasqui, i Callhiolait, il Corou de la Cevitou, i Gai Saber, i Jouvarmoni, Lhi Sonaires, l’Estorio Drolo e i Senhal, che nelle loro rappresentazioni, caratterizzate talvolta da interessanti arrangiamenti, sono soliti utilizzare una vasta gamma di strumenti, alcuni dei quali molto particolari, come l’arpa, il mandolino, la cornamusa, il flauto, la ghironda, la fisarmonica diatonica, il semitoun, il buzuki e il galoubet.

Note:

(1) Arnaut Daniel, poeta provenzale nato intorno al 1170 in Dordogna (Francia), nel vescovado di Périgord. Fu tra i maggiori seguaci di quel genere di poesia ermetica e tecnicamente ardua (trobar clus) che ebbe in Marcabruno il proprio iniziatore.

(2) L’eresia catara si diffuse nel Midì di Francia nel XII secolo, sposandosi con la cultura autonomista occitana. Il Catarismo, setta fondata nel X secolo dal prete slavo gnostico-manicheo Bogomil, si dissociava radicalmente dai dettami della Chiesa romana. I catari professavano una dottrina dualista, predicano la purezza e desideravano liberare l’uomo dal Male materiale. Si trattava di un movimento religioso molto rigoroso, ma nel contempo e sotto taluni aspetti libertario: di qui le non poche contraddizioni comportamentali. I catari credevano infatti che l’uomo potesse vivere nella gioia o nel dolore e che questi fosse l’artefice del proprio destino attraverso le sue azioni: visione confusamente antropocentrica e di fatto eretica. I catari, che rigettando la mondanità del papato desideravano tornare al cristianesimo dei primordi; non credevano nell’esistenza dell’inferno e del giudizio universale. La loro chiesa era formata da credenti, uditori, preti e vescovi sia di sesso maschile che femminile, contraddicendo i dettami della vera Chiesa. I catari vivevano in comunità piuttosto laboriose e dedite ai commerci e all’agricoltura dove dominavano un buon tenore di vita e una notevole libertà di pensiero, anche se i loro costumi si spingevano verso evidenti orizzonti gnostici. In ragione del loro già citato, forte rigore religioso, i catari evitavano ogni contatto con tutto ciò che è materiale. Questo significava il rifiuto del matrimonio, di tutti i cibi che erano il prodotto della generazione sessuale, di tutti elementi materiali nel culto, e di ogni coinvolgimento in cose di questo mondo, che fosse l’amore per i beni materiali o ogni tipo di comportamento mondano, inclusa qualsiasi tipo di violenza. Ne risultavano un ascetismo e un’austerità estremi, che nella loro espressione morale e pratica avevano strette affinità con l’ideale cristiano di perfezione evangelica. Proprio questo loro atteggiamento austero ed il distacco che riuscivano a manifestare dalle cose materiali, probabilmente, furono la ragione del grande successo che i catari riuscirono ad ottenere. Poiché le esigenze del catarismo erano eccezionalmente rigorose, coloro che lo praticavano in modo più rigido erano un piccolo numero di adepti, detti i perfetti. Questi rappresentavano la gerarchia catara e, a differenza della gerarchia cristiana, erano un’élite davvero esigua e chiamata a dare continua prova di sé. La massa degli ordinari credenti conducevano delle vite ordinarie, sotto la guida dei summenzionati perfetti. Sembra che il catarismo fosse praticato secondo due forme: una che professava un dualismo mitigato ed una che ne propugnava uno di tipo assoluto. È probabile che il dualismo mitigato derivasse da influenze bogomile. Questo, come il cristianesimo tradizionale, concepiva un solo Dio creatore, che aveva creato ogni cosa come buona, compreso Satana, il quale era da identificarsi col suo figlio maggiore, Lucifero, che poi gli si era ribellato. La corruzione di Satana, quindi, era stata la conseguenza di una sua libera scelta. Anche le anime che questi aveva imprigionato successivamente nei corpi (anche se non si capisce come) avevano subito questa sorte in ragione di una loro scelta. Questa corrente del catarismo fece propria l’idea, che era già stata dei succitati bogomili, secondo cui il protagonista del racconto biblico della creazione sarebbe stato Satana, ma che per creare il mondo questi avesse utilizzato una materia preesistente creata in principio da Dio a partire dal nulla. Il mondo in cui l’uomo vive era quindi il dominio di Satana e l’Antico Testamento era la testimonianza di questo dominio. I catari accettavano la rivelazione contenuta nel Nuovo Testamento, ma ne davano un’interpretazione particolare, inserendola all’interno di un complesso teologico di tipo sincretistico, espresso con un linguaggio allegorico che solo gli iniziati (i perfetti) sapevano interpretare correttamente. Il catarismo aveva quindi non solo i suoi principi e le sue pratiche, ma anche una sua letteratura canonica.

Che tale fosse il pensiero cataro ‘eretico’ (avversato da Roma) trova conferma in quanto scrisse l’inquisitore mons. Bernardo Gui O.P. (1261-1331), sulla scorta di interrogatori da lui effettivamente svolti e riportati negli atti processuali del tempo: “L’eresia consiste nel credere che Dio non sia unico bensì che vi siano due creatori, ovvero Dio e il diavolo e così (essi) credono nella esistenza di due creazioni: l’una invisibile ed incorporea e l’altra visibile e corporea. Per la stessa ragione credono vi siano due chiese: una benevola che identificano nella loro setta e l’altra che sarebbe la vera chiesa, considerata da loro maligna.”. I papi che combatterono l’eresia catara furono Alessandro III e Innocenzo III. Dopo scomuniche e vani tentativi di predicazione (come quello tentato nel 1206 da Domenico di Guzmann) e l’assassinio del legato papale Pietro di Castelnau (1208), il papato chiamò a raccolta  Re Filippo Augusto di Francia, l’Abate Arnaud-Amaury di Citeaux e il condottiero Simon de Montfort invitandoli  ad allestire un forte esercito per schiacciare l’eresia. Ben presto le armate cattoliche invasero l’intero Midì, mettendo sotto assedio tutte le città catare. A Bezier i crociati massacrano 20.000 cittadini e nell’agosto del 1209 espugnarono la grande fortezza di Carcassonne, difesa dal Visconte Raimond Roger Trencavel. Nel luglio 1210, i crociati di Simon de Montfort conquistarono anche il bastione di Minerve. Seguirono l’occupazione di Albi, Termes e dei castelli di Puivert e Motségur (preso il 2 marzo 1244, dopo 9 mesi di assedio) e molteplici stragi. Ultimo bastione cataro, Castello di Quéribus, venne espugnato nel 1255, mentre l’ultimo prelato cataro, Guglielmo Delibaste, venne catturato e arso vivo nel 1321.

(3) In Francia, il multilinguismo sopravvisse fino alla Rivoluzione Francese, alla fine della quale, l’idea girondina di uno stato federale fu sconfitta da quella giacobina favorevole alla creazione di uno stato centralista e monoculturale. Detto ciò, ricordiamo che il problema dell’unificazione linguistica era già stato affrontato nel XVI secolo. Con l’ordinanza di Villers-Cotterêts del 1539, promulgata dal re di Francia Francesco I, era stato stabilito il primato e l’esclusività della lingua ‘francese’ nei documenti pubblici, con l’esclusione del latino e delle altre lingue del Regno. Quest’ordinanza, che venne redatta dal cancelliere Guillaume Povet, avvocato e membro del Consiglio Privato del re, eliminò e proibì le cosiddette lingue ‘popolari’ (lingua d’oïl al nord e la lingua d’oc al sud).

(4) “Gli occitanisti si rifanno, per crearsi un precedente ‘istituzionale’, al 1213: in quell’anno anche se per pochi mesi, si formò infatti una confederazione pan-occitanica attorno al Conte di Barcellona (che era anche conte di Provenza oltre di Aragona), cui il conte di Tolosa e alcuni feudatari si sottomisero formalmente. Mancavano però, nella confederazione, le terre aquitaniche mentre vi erano comprese tanto la Catalogna (che poteva, allora, essere considerata occitanica) quanto l’Aragona, che era invece etnicamente spagnola. Ad ogni modo la sconfitta di Muret mise fine alla confederazione. Questo, naturalmente, non vuole affermare che non esista un territorio occitanico omogeneo, caratterizzato da una lingua ma anche da una cultura, una società e un’economia originali: la nazione occitanica esiste, infatti, da quasi dieci secoli. Proprio per questa ragione, l’Occitania costituisce il modello tipico di “nazione proibita” dell’Occidente europeo: è la più “nazione” e, allo stesso tempo, la più “proibita” di tutte (dal corso storico degli eventi e da altre nazioni più forti)”. Fonte:Laboratòri Polìtic Occitan, Sito http://www.paratge.it/occitan/occ_01.htm

Bibliografia:

M.Roquebert, L’épopée cathare, Toulouse, 1970.

Franco Cardini, La Crociata contro gli albigesi, Storia Illustrata, aprile 1989.

La Stampa (Torino), Valli Occitane, Viaggio tra gli eredi dei trovatori, di Diego Anghilante e Fredo Valla.

Elena Mantaut, Linguadoca: cuore ribelle di Francia, Vie del Mondo (Touring Periodici), Milano, settembre 1987.

Asperti, Stefano, Dante, i trovatori, la poesia, a Le culture di Dante: Studi in onore di Robert Hollander , Firenze, Franco Cesati, 2004

Barbiellini Amidei, Beatrice, Il ‘sirventese contro Dio’ di Peire Cardenal e il tema della disputa con Dio, Studi Mediolatini e Volgari, 2003

Beltrami, Pietro G., Arnaut Daniel e la bella scuola dei trovatori di Dante, a Le culture di Dante: Studi in onore di Robert Hollander , Firenze, Franco Cesati, 2004

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