L’accordo dello scorso 19 aprile tra Armenia e Azerbaigian per la definizione di una sezione del confine tra la regione armena di Tavush e quella azera di Gazakh è stato salutato con soddisfazione dalla comunità internazionale in quanto visto come un piccolo passo verso un definitivo accordo di pace. Ma ha anche dato vita a particolari dinamiche politiche che hanno prodotto in Armenia manifestazioni di dissenso e atti di disobbedienza civile. Vale la pena soffermarsi, per quanto sinteticamente, su alcuni aspetti della questione per provare a capire cosa stia effettivamente accadendo in Armenia e quali possano essere le ricadute su scala regionale.
Questione di confine
L’accordo di cui sopra ha riguardato un breve tratto di una dozzina di chilometri di un confine lungo circa mille chilometri. Questa definizione è stata fortemente “caldeggiata” dalla leadership azerbaigiana perché l’area in questione ha un alto impatto strategico: infatti, con la delimitazione di tale porzione di frontiera l’Azerbaigian ha preso il controllo di alcune centinaia di metri della statale che porta in Georgia (uno dei tre principali accessi verso Tbilisi) e del territorio dove passa il gasdotto proveniente dalla Russia. Inoltre, Baku ha spostato il confine verso ovest e lo ha avvicinato sempre di più alle exclave di epoca sovietica il cui controllo con ogni probabilità sarà il prossimo passo nelle richieste di Baku. All’indomani della demarcazione materiale del nuovo confine, i soldati azeri si sono posizionati nella porzione di territorio a loro assegnata con tanto di cerimonia di alzabandiera e slogan patriottici. Nelle stesse ora l’autoritario presidente dell’Azerbaigian, Ilham Aliyev, in un discorso celebrava l’ennesimo successo personale e si vantava di aver costretto ancora una volta l’Armenia a soddisfare le sue richieste. Parole rivolte certamente a un pubblico interno (come ha commentato il presidente dell’Assemblea nazionale armena, Simonyan) ma che poco si conciliavano con le dichiarazioni di tutt’altro segno provenienti da diverse capitali.
Nagorno Karabak: carri armati azeri.
Le proteste dei residenti armeni
La cessione di territori all’Azerbaigian è avvenuta sulla base di una mappatura del confine risalente al 1976, successivamente confermata nel 1979 dall’istituto cartografico dell’URSS. Nel corso di una riunione di governo, il 16 maggio, il premier armeno Pashinyan ha ricordato come questa mappatura sia l’ultima ufficialmente disponibile e pertanto la definizione del confine secondo tali parametri è in linea con i principi della dichiarazione di Alma Ata (oggi Almaty). La demarcazione (che ha permesso la restituzione all’Azerbaigian di quattro piccoli insediamenti in rovina conquistati dagli armeni con la guerra degli anni Novanta) ha creato preoccupazione fra i residenti armeni di alcuni villaggi di confine (Voskepar, Baganis e Berbaker) ma soprattutto le proteste dei residenti del villaggio di Kirants. In questo insediamento, oltre a tratti di strada statale, sono finite agli azeri alcune costruzioni e attività produttive. Inutilmente la municipalità aveva proposto alla controparte lo scambio di queste aree con altre di maggior estensione utilizzate per il pascolo: Baku è stata irremovibile nel non scostarsi dalla mappa ufficiale. Le proteste delle comunità locali sono state incanalate nel movimento “Tavush per la madrepatria” alla cui guida si è posto il cinquantatreenne arcivescovo della locale diocesi Bagrat Galstanyan che ha dato vita a una marcia di protesta fino alla capitale Yerevan, culminata con una grande manifestazione in piazza della Repubblica il 9 maggio alla quale hanno partecipato oltre trentamila persone. Alla base dell’insoddisfazione locale non vi sono solo i problemi tecnici legati alla cessione territoriale pressoché unilaterale, ma il fatto che la stessa è stata di fatto obbligata dall’Azerbaigian nonostante questi occupi oltre 200 kmq di territorio armeno lungo altre sezioni del confine. Nel corso dei successivi mesi, tuttavia, la forza di questo movimento di opposizione è venuta progressivamente meno nonostante l’incessante attività del suo capofila.
Villaggio armeno bombardato dagli azeri.
Lo strappo della Chiesa armena
Il movimento, guidato da Galstanyan (che era stato nominato arcivescovo nel febbraio dello scorso anno, ha avuto immediato appoggio da parte della Chiesa Apostolica armena che ha preso una netta posizione a favore dei manifestanti e ha attaccato come mai era accaduto nel passato il governo di Pashinyan. I rapporti tra questi e la Santa Sede si erano, a dire il vero, già guastati da tempo. Basti pensare che la televisione pubblica armena aveva deciso di non mandare in onda il tradizionale messaggio di Capodanno di S.S. Karekin II, Catholicos di Tutti gli Armeni. Negli ultimi tempi, soprattutto dopo la sconfitta nella guerra del 2020, la chiesa armena ha assunto una posizione sempre più critica nei confronti del governo Pashinyan accusato di aver ceduto al nemico l’Artsakh (nome armeno per il Nagorno Karabakh) ed di essere troppo arrendevole di fronte alle minacce di Aliyev. L’istituzione apostolica armena, dal 1991 garante della stabilità istituzionale della repubblica armena indipendente, è andata così assumendo posizioni più politiche e Karekin II si è progressivamente avvicinato ai toni narrativi adoperati da Aram I, Catholicos di Cilicia, molto vicino alla diaspora armena. Da ultimo, entrambi i Catholicos hanno appoggiato l’iniziativa di Galstanyan e l’apice dello scontro con il governo si è avuto lo scorso 28 maggio (Festa della Repubblica) allorché la polizia ha impedito loro l’accesso al memoriale della vittoria di Sardarapat. La presenza di membri del governo alla cerimonia di riconsacrazione della cattedrale di Etchmidzin ha rappresentato un segnale di disgelo fra potere laico e religioso.
Protesta debole
La prima manifestazione a Yerevan ha raccolto, come detto, oltre trentamila persone e stimolato Galstanyan a impegnarsi in una serie di colloqui con politici di opposizione e personalità della società civile per dare vita a un movimento unitario contro Pashinyan. Ma il suo tentativo di creare una coalizione forte non ha sortito i risultati sperati anche a causa di una serie di veti incrociati delle varie fazioni politiche armene. Al punto che l’arcivescovo è stato indicato come soggetto super partes per guidare un governo di transizione. Si è parlato di impeachment per Pashinyan (ma di impossibile attuazione stante la maggioranza in parlamento) e della impossibilità per Galstanyan (che ha anche la cittadinanza canadese) di ricoprire il ruolo di Primo ministro. La seconda manifestazione, il 26 maggio (giorno che peraltro è stato segnato da un’inondazione nel nord del Paese), ha visto un’affluenza di circa ventimila persone, in calo rispetto alla precedente sicché il movimento ha cominciato a dare vita a una serie di azioni di “disobbedienza civile” quali ad esempio il blocco delle strade con le auto che hanno finito con l’irretire la popolazione della capitale. Ci sono stati alcuni tafferugli, circa trecento fermi (quasi tutti rilasciati in breve tempo). Non ha poi giovato all’iniziativa sapere che l’ex presidente Kocharyan appoggiava l’arcivescovo. Pashinyan e il suo partito “Contratto civile” hanno avuto vita facile nell’accusare la vecchia dirigenza armena dietro il tentativo di scalzarlo dal potere.
L’Armenia reale di Pashinyan
In un intervento televisivo il 24 maggio, giorno dell’attuazione dell’accordo di delimitazione del confine, Pashinyan ha spiegato il suo progetto che guarda a un’Armenia reale da contrapporre all’Armenia “terra promessa” che non può essere attuata. Il premier armeno ha sostenuto che per garantire la sovranità sui 29.743 km2 della repubblica è necessario stabilire un principio condiviso con la controparte azera; quindi la delimitazione, sia pure a costo di dolorose rinunce, è l’unico strumento che può garantire la futura sicurezza dell’Armenia stessa. Tuttavia i rapporti con il bellicoso Azerbaigian rimangono tesi e le recenti dichiarazioni dell’autoritario presidente Aliyev non inducono all’ottimismo su una veloce conclusione dei negoziati di pace. Per quanto salutato dalla comunità internazionale come un successo e un primo passo verso la pace tra le due nazioni belligeranti, è apparso chiaro sin da subito che la portata di questo accordo era ed è molto limitata riguardando solo una modesta sezione di circa dodici chilometri sugli oltre mille che dividono l’Armenia dall’Azerbaigian.
Una pace ancora lontana
Nonostante la leadership armena e quella azera abbiano ripetutamente dichiarato che la firma di un accordo di pace è possibile in tempi brevi, un accordo negoziato tra i due Paesi è ancora lontano. Baku e Yerevan si sono scambiate numerose versioni del testo finale e sembra acclarato che su sedici articoli dello stesso ben tredici siano stati pienamente concordati dalle parti. L’Armenia ha proposto di firmare un trattato di pace sulla base di quanto già concordato e in considerazione del fatto che i tre articoli non ancora avallati da entrambe le parti contengono brevi disposizioni secondarie. L’Azerbaigian, invece, ha pubblicamente fatto sapere che la firma dell’accordo deve riguardare il pacchetto completo delle disposizioni. Per la parte armena questo è l’ennesimo pretesto per allungare ancora di più i tempi di raggiungimento della pace anche perché sembrerebbe (condizionale d’obbligo, nulla è trapelato ufficialmente sul contenuto delle disposizioni) che il testo indichi chiaramente il meccanismo da considerare nel definitivo tracciamento del confine tra i due Stati. A parte queste schermaglie procedurali, altri ostacoli tuttavia si frappongono alla pace nel Caucaso meridionale.
Il problema della Costituzione
L’Azerbaigian, infatti, ripetutamente ha richiesto che l’Armenia cambi la propria Costituzione in quanto la stessa, nel preambolo, fa riferimento alla dichiarazione di indipendenza del 1991 che contiene un passaggio relativo alla riunificazione con l’Artsakh (Nagorno Karabakh).1
Per il presidente azero Aliyev questo punto ostacola il processo di pace e la mancata modifica impedisce la chiusura dei negoziati. Peraltro cambiare la Costituzione di un Paese non è un percorso semplice e rapido in quanto sarebbe comunque necessaria l’approvazione popolare tramite referendum e con un quorum votanti da raggiungere, un rischio politico che il premier armeno Pashinyan non vuole e non può certo correre. Ripetutamente da Yerevan sono giunti messaggi rassicuranti alla controparte sul fatto che il suddetto preambolo deve considerarsi superato così come altre parti del dettato costituzionale in quanto non più attuale a trentatré anni dalla indipendenza. La stessa Corte costituzionale armena ha recentemente stabilito che le disposizioni del preambolo non hanno la stessa efficacia giuridica che investe invece la Carta in quanto gli articoli di un trattato internazionale devono essere in linea con i principi stabiliti dalla Costituzione ma preamboli o corollari non hanno alcuna rilevanza su essi.
Inoltre, numerosi commentatori (ma anche esponenti del governo di Yerevan) sottolineano che il problema delle sgrammaticature costituzionali non riguarderebbe solo l’Armenia ma anche lo stesso Azerbaigian dal momento che la sua Carta prevede un espresso richiamo alla prima Repubblica democratica dell’Azerbaigian (1918-1920) che vantava pretese territoriali per oltre centomila chilometri quadrati (rispetto agli 86mila attuali) comprese vaste porzioni dell’attuale Armenia. Il richiamo costituzionale alla repubblica pre-sovietica potrebbe anche essere ininfluente nelle trattative negoziali se non fosse che la leadership azera sta da mesi insistendo con minacciose rivendicazioni che riguardano sia la parte meridionale dell’Armenia (il cosiddetto “Corridoio di Zangezur” corrispondente alle regioni armene del Syunik e del Vayots Dzor) sia ampie porzioni di territorio lungo il confine orientale dell’Armenia fino alle sponde est del lago Sevan. Tali reiterate pretese territoriali si inseriscono nel quadro di una narrazione ufficiale azera sul cosiddetto “Azerbaigian occidentale” che altro non sarebbe che la stessa Armenia: sono stati organizzati convegni, creato un canale televisivo ad hoc, istituita la “comunità dell’Azerbaigian occidentale”. Le minacce non hanno risparmiato neppure la capitale armena Yerevan (Irevan per gli azeri), anch’essa considerata “storica terra azerbaigiana”. Il che farebbe anche sorridere (considerato che l’Azerbaigian ha poco più di un secolo di vita e si interfaccia con una popolazione armena presente da oltre tre millenni nella regione) se non fosse che tali assunti provengono anche dallo stesso presidente Aliyev.
Non solo Zangezur
Ma le richieste azere non si limitano alla sola Armenia meridionale e orientale o al cambio di costituzione. Ripetutamente da Baku è stata avanzata la richiesta di smilitarizzazione del Paese confinante. Mentre l’Azerbaigian continua ad armarsi all’inverosimile soprattutto da Israele e Turchia, l’Armenia dovrebbe rinunciare a ricostruire una forza armata pesantemente colpita dall’attacco del 2020. Quel che innervosisce Aliyev è il fatto che gli armeni hanno cominciato ad acquistare armamenti soprattutto dall’India (alleata dell’Armenia in chiave anti-Pakistan alleato degli azeri) e dalla Francia; il leader azero vorrebbe un’Armenia assolutamente incapace di difendersi di fronte a un possibile nuovo attacco e mal ha digerito le recenti acquisizioni da Parigi (50 veicoli Bastion e tre radar GM-200) al punto da ingaggiare con la Francia una battaglia politica senza precedenti. Nel frattempo Baku ha siglato un contratto da 1,6 miliardi di dollari per acquistare aerei da combattimento di produzione sino-pakistana JF-17 Block 3 e non manca di rifornirsi anche sul mercato italiano (da Leonardo, tra l’altro, per aerei da trasporto militare C 27-J).
L’Azerbaigian, in chiave antifrancese, ha dato vita a un gruppo di coordinamento per supportare le istanze dei territori francesi d’oltremare (Gruppo di iniziativa di Baku), ha aiutato le rivolte in Nuova Caledonia e ha promosso campagne social contro Parigi arrivando a contestare apertamente il supporto transalpino agli armeni. Tra le richieste dell’Azerbaigian c’è anche quella dello scioglimento del Gruppo di Minsk dell’Osce che per quasi trent’anni ha condotto le trattative sul Nagorno Karabakh; la sua cancellazione significherebbe la chiusura di ogni questione sulla regione occupata e metterebbe la parola fine su un possibile ritorno degli armeni sfollati. Baku inoltre mal ha digerito la presenza europea lungo il confine dalla parte armena e chiede a più riprese la fine della missione di monitoraggio EUMA in linea con il pensiero di Mosca che considera la presenza europea alla stregua di un’ingerenza politica. Quanto al Nagorno Karabakh (Artsakh) dovrebbero essere presenti solo 14 armeni per lo più anziani e/o malati di mente che non hanno voluto o potuto lasciare la propria casa. Difficile ipotizzare in questo momento un ritorno degli armeni: la retorica sempre minacciosa verso di loro, la progressiva occupazione del territorio da parte degli azeri e la assoluta mancanza di libertà (per ‘Freedom house” l’Azerbaigian è fra le dieci peggiori dittature al mondo) sconsigliano un rientro alle case che nel frattempo vengono saccheggiate e vandalizzate.
Nuovi scenari
Dunque, non è facile prevedere una pace a breve termine tra Armenia e Azerbaigian mentre si intensificano piuttosto le voci di coloro che credono che il regime di Aliyev tenterà un’altra spallata militare magari subito dopo COP 29 in programma a Baku a novembre. A meno che la conferenza delle Nazioni Unite non dia un’improvvisa accelerata alle trattative tra le parti. Nel Caucaso meridionale stiamo assistendo a un riposizionamento dei principali attori internazionali: la Russia, un tempo garante della sicurezza armena, a partire dal febbraio 2022 ha ritenuto più opportuno agganciare (anche in chiave turca) l’Azerbaigian e quindi lo ha supportato e lo sta supportando politicamente. A farne le spese sono stati in primo luogo gli armeni del Nagorno Karabakh che pure confidavano nella forza di pace russa come strumento di protezione. L’Armenia del premier Pashinyan guarda invece sempre più a occidente: Stati Uniti e Unione europea (peraltro colpevolmente assenti mentre gli azeri bloccavano le vie di accesso al NK e poi lo occupavano del tutto) ora cercano di portare Yerevan dalla loro parte in funzione antirussa. Ma l’Armenia è un soggetto debole, non ha le risorse di idrocarburi dell’Azerbaigian (“partner affidabile” per la presidente Von der Leyen) e non ha le spalle coperte dalla Turchia come invece Baku. Rischia dunque di rimanere in mezzo a pericolosi giochi politici tra superpotenze e vittima di nuove aggressioni da parte di vicini autoritari.
1 Nello specifico: “(…) Basato sulla decisione congiunta del Consiglio supremo della RSS Armena e del Consiglio nazionale dell’Artsakh sulla ‘Riunificazione della RSS Armena e la regione del Karabakh montuoso’”
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