La France à droit. Storia della resistibile rinascita della volontà francese. Di Fabio Bozzo.

I tre volti di Francia alle recenti elezioni.

Fondato nell’ormai lontano 1972 dalla vecchia roccia Jean-Marie Le Pen (1928-vivente) il Front National rappresentò fin dalla sua nascita sia un corpo estraneo che l’essenza stessa dell’anima politica della Francia profonda.

Corpo estraneo perché, nato in piena era progressista Sessantottina e con i reduci degli orrori della seconda guerra mondiale ancora in piena forma, un movimento di “destra-destra” che troppo spesso e senza imbarazzo strizzava l’occhio a Vichy non poteva non apparire fuori tempo ai più ed odioso alla maggioranza. Contemporaneamente il FN rappresentò, fin dall’origine, un tentativo di difesa della vera Francia, ovvero un Paese europeo sebbene avente una lunga tradizione di accoglienza, cristiano per quanto iper laicizzato, fondamentalmente contadino al netto di una discreta forza industriale e, sia detto, di etnia bianca nella storia e nell’anima.

Jean-Marie Le Pen.

E così, nel pieno del turbinio (e del pattume) ideologico rappresentato dalla Scuola di Francoforte, da Jean-Paul Sartre (1905-1980) e dalla diffusa (ma sempre minoritaria!) convinzione che il comunismo fosse una cosa buona, iniziò una longeva avventura politica che avrebbe sepolto molti dei suoi avversari apparentemente invincibili. Nella prima parte di questo percorso il FN si mise all’angolo da solo, perché troppo spesso accompagnava ragionamenti politici sacrosanti a scivoloni (quando non a vere e proprie cretinerie) fermi alla prima metà degli anni ’40. In un Paese dove il simbolo della Liberazione era quel grande conservatore sociale che fu Charles de Gaulle (1890-1970) il nemico numero uno dei frontisti fu il centrodestra antifascista erede della vittoria alleata e della Francia Libera del generale. Ciò non deve stupire: in politica come in natura un singolo spazio può avere un solo maschio alfa. La sinistra, sia comunista che socialista, per molto tempo invece non comprese il fenomeno lepenista, limitandosi ad additarlo come fascista. Sebbene l’accusa spesso avesse dei fondamenti, i “compagni”, convinti di avere il vento della storia in poppa e comodi nella loro autocelebrata “superiorità morale”, non compresero minimamente i perché socioeconomici del Front. La sveglia sarebbe suonata molti anni dopo.

Charles de Gaulle.

La sopravvivenza politica del FN all’inizio non fu facile. Dal ’72 all’81 le percentuali furono sempre sotto l’1%. Poi venne il miracolo, in gran parte figlio delle politiche del Presidente socialista (ed ex burocrate di Vichy) François Mitterrand (1916-1996). Mitterand fu un Presidente degno di passare alla storia, questo gli va riconosciuto. In modo ignobile diede asilo politico ai terroristi rossi, anche agli assassini, di tutta Europa. Tentò imbarazzanti sponde con l’Unione Sovietica all’inseguimento di un’impossibile restauro dell’antica potenza francese, risultando semplicemente un “voglio ma non posso” (malattia che affligge tutto lo spettro politico transalpino, FN in testa). Attuò le ultime nazionalizzazioni quando il resto dell’Occidente si lanciava nel neoliberismo che avrebbe sepolto il comunismo sovietico. Aprì, infine, le frontiere della Francia ad un’immigrazione massiccia e senza controlli dal Terzo Mondo, dando il via alla nascita delle banlieaus e della situazione di livello bosniaco-libanese che oggi affligge la Francia.

Philippe Pétain

Di fronte a tutto ciò la Francia profonda ebbe una scossa e, alle elezioni legislative del 1986, diede al FN il 9,7% e 35 parlamentari. Per le cosiddette anime belle fu uno shock. I “fascisti” erano tornati… la Repubblica era in pericolo… e così via. Ne nacque una reazione spontanea del Sistema, aiutata dalla difficoltà di Le Pen di togliersi alcuni vecchi macigni ideologici dalla schiena (e dalla lingua!). Questa reazione sfruttò (e sfrutta ancora) il sistema elettorale maggioritario a doppio turno, nel quale ogni collegio che non abbia un candidato che raggiunga il 50%+1 dei voti porta al ballottaggio tutti i candidati che hanno superato il 12,5. In caso di ballottaggio, dagli anni ’80 ad oggi, la regola è quasi sempre la stessa: tutti i partiti votano chiunque sia contro il candidato del FN. Questa situazione ha fatto sì che i voti della “destra-destra” aumentassero in maniera costante e progressiva (con l’eccezione della batosta del 2007), malgrado il bottino di eletti fosse sempre magrissimo.

Ma i cordoni sanitari, prima o poi, sono destinati ad infrangersi. In modo progressivo e quasi ininterrotto i voti del FN hanno continuato a crescere. Tale crescita è stata figlia sia di una situazione sociale sempre più fuori controllo (in primis a causa dell’immigrazione, con tanto di stragi islamiste e rivolte di massa) che di una maturazione interna. Nel 2011 il patriarca ha lasciato la leadership del partito, passandola alla figlia Marine Le Pen (1968-vivente). In possesso di tutte le qualità del padre ma meno aspra nel presentarsi, la Le Pen ha saputo svecchiare il partito, ripulendolo dalle ultime scorie di natura prettamente fascista e quindi politicamente alienanti. Questo ammodernamento inevitabilmente non è stato indolore, causando alcune scissioni (poi dimostratesi tutte fondamentalmente sterili) e portando anche a duri scontri tra il vecchio Jean-Marie e la figlia Marine. Ma il dado era tratto e la nuova via confermata, pur senza buttare il meglio della vecchia.

Simbolo del nuovo corso è stato il cambiamento del FN nei confronti di Israele, al punto che da malcelato punto di ritrovo degli antisemiti di destra oggi è il partito più sionista dello spettro politico francese. Questo cambiamento, né più né meno, è uguale e contrario a quello delle sinistre, sempre più dipendenti dal voto immigrato (in gran parte musulmano) e quindi sempre ferocemente antisemite, al punto che spesso non vengono nemmeno nascoste la speranza della distruzione di Israele o un giustificazionismo peloso alle sempre più numerose aggressioni contro gli ebrei francesi (queste ultime perpetuate in massima parte da immigrati islamici di prima o seconda generazione).

Società palesemente avviata ad una guerra etno-religiosa e ristrutturazione del partito: questo punto, come si suol dire, il Front National (nel 2018 ribattezzato Rassemblement National) ha messo il turbo. Per capire cosa intendiamo lasciamo la parola ai numeri, limitandoci alle elezioni legislative. Nel 2007 il RN ha eletto 0 parlamentari; nel 2012 2; nel 2017 8; nel 2022 89; nel 2024 142. E questo malgrado il ferreo cordone sanitario, che ha iniziato ad incrinarsi solo nell’ultima consultazione, quando i Repubblicani (il classico centrodestra gaullista) ha preferito lasciare libertà di voto al secondo turno ed una minoranza si è apertamente espressa per per il RN. Questa svolta dei gaullisti è il coronamento degli sforzi di Marine Le Pen: avendo defascistizzato il partito ha dato la possibilità (il desiderio probabilmente albergava già da tempo) a chi si sente di destra di poter sostenere ai ballottaggi la “destra-destra”, piuttosto che la sinistra. Anche perché il RN di oggi, a tutti gli effetti, è il principale erede di molte posizioni politiche che furono del De Gaulle originale.

Jordan Bardella e Marine Le Pen.

Abbiamo accennato alle elezioni legislative del 2024. Svoltesi pochi giorni prima della scrittura del presente articolo esse sono state una sorta di trionfo mancato. Il RN si è piazzato primo partito a livello nazionale, con uno spettacolare 37,06% (al secondo turno) e 142 deputati, ma grazie alle desistenze ed alle alleanze (a volte imbarazzanti) di quasi tutti i suoi avversari si è piazzato terzo come numero di eletti rispetto alle due coalizioni avversare. Esse erano composte dal Nuovo Fronte Popolare (cartello di 6 partiti di sinistra, dai socialisti mainstream ai marxisti-islamisti di Melenchon), che ha conquistato il 25,80% e 180 eletti, e dalla sigla di riferimento del Presidente Macron, la centrista Ensemble, che col 24,53% ha spuntato 159 seggi. Infine i gaullisti del Partito Repubblicano pur in piena crisi sono riusciti a strappare il 5,41% e 56 parlamentari (molti dei quali si stanno già dirigendo verso la Le Pen). Difficile dire se nel prossimo futuro i gaullisti resteranno l’usato sicuro del centrodestra francese (un po’ come a sorpresa sembra essere riuscita a fare Forza Italia nel nostro Paese) o sarenno cannibalizzati dal RN.

Il risultato di queste elezioni, in ogni caso, è un’Assemblea Nazionale divisa in tre blocchi numericamente abbastanza simili e teoricamente incompatibili tra di loro. Mentre scriviamo le consultazioni sono ancora in corso, ma una cosa appare certa: il Presidente Emmanuel Macron (1977-vivente) ha vinto la sua scommessa di indire le elezioni anticipate. Dato per politicamente azzoppato dal recentissimo trionfo del RN alle ultime elezioni europee (dove il partito della Le Pen ha preso il 31,4%) Macron ha visto la sua formazione crollare, ma ha spuntato un Parlamento incapace di garantire una maggioranza solida. Questo significa che nel sistema semipresidenziale francese, in assenza di un Primo Ministro forte, i poteri esecutivi del Presidente aumenteranno per inerzia. Macron, che lo si ami o lo si odi, si è pertanto dimostrato un pokerista ed un analista della politica assai più abile di quanto troppi avevano creduto.

Emmanuel Macron.

Ma chi ha votato il Rassemblement National? Quando un partito arriva a prendere poco più di 10 milioni di voti in un Paese avente poco più di 68 milioni di abitanti questa diventa una domanda retorica: ormai non vi è categoria o strato sociale da cui il RN sia del tutto assente. Possiamo però cercare di scoprire dove si trovi il cosiddetto nocciolo duro del suo elettorato. Esso è sia rurale che urbano.

Rurale, ovvero costituito dagli agricoltori della Francia profonda, in crisi per la globalizzazione e spaventati dall’aumento spropositato di popolazione immigrata, che ormai tracima dalle grandi città per riversarsi anche in quella che un tempo era una campagna bucolica, che ancora negli anni ’80 coltivava in modo un po’ romantico una visione idilliaca della vita e del cristianesimo. Una sorta di Vandea di ritorno, per fare un paragone storico un po’ tirato per i capelli.

L’elemento urbano dell’elettorato frontista invece nasce, diciamolo chiaramente, dall’esaperazione. Immigrazione e conseguente criminalità fuori controllo, impossibilità di ottenere giustizia a causa del termondismo ormai istituzionalizzato, intere città in mano a non-francesi nelle quali gli indigeni (ovvero i francesi bianchi) possono entrare solo a loro rischio e pericolo, banlieaus in stato di perenne rivolta neanche si stesse parlando dei ghetti di Johannesburg, interi quartieri dove ormai la sharja islamica conta più della legge francese (con tutto ciò che ne consegue, specie per le donne) e classe operia bianca tradita dalla sinistra, che ormai preferisce inseguire i voti degli ultimi arrivati sui barconi che tutelare i diritti di chi si è spaccato la schiena per una vita intera. Non è un caso che nelle città i voti del FN prima e del RN adesso aumentino nelle periferie devastate dalla sostituzione etnica, per diminuire  nei centri ancora eleganti e ben protetti dalla Force Pubblique. Anche in Francia, come in Italia ed in tutto l’Occidente, è facile avere buoni sentimenti se si è ricchi, annoiati e si vive nella ZTL. Non a caso il candidato di punta lepenista delle ultime elezioni è stato Jordan Bardella (1995-vivente). Giovane, figlio della classe media, cresciuto in una banelieau, con tre nonni piemontesi ed uno algerino: Bardella rappresenta al tempo stesso l’immigrazione virtuosa e la Francia esasperata dall’isicurezza socioeconomica.

Tuttavia è solo recentemente che il RN ha fatto il vero salto di qualità e quantità nell’elettorato cittadino, ovvero da quando ha iniziato a conquistare la classe media, la cosiddetta media borghesia. Da sempre odiata dai marxisti in quanto fulcro e fondamento della democrazia, tale classe sociale è storicamente centrista in tutto l’Occidente. In Francia ciò significa che essenzialmente è stata per lungo tempo zona di caccia dei socialisti e dei gaullisti. Ma oggi la situazione è cambiata, e non in meglio. Tassazione esasperata, potere d’acquisto in crisi, concorrenza sleale dai colossi asiatici ed insicurezza diffusa per i motivi già esposti a seguito dell’incombente sostituzione etnica. Per tali motivi oggi anche il fracese medio, e non solo quello povero o arrabbiato, scegli di votare il Ressemblement National.

Concludiamo con uno sguardo all’Europa. Le recenti elezioni hanno confermato una crescita delle forze cosiddette sovraniste in tutto il continente e, al contempo, hanno prodotto un europarlamento diviso in 7 gruppi (oltre ai non iscritti) estremamente distanti dal punto di vista ideologico. Il terzo gruppo per numero di deputati (84) è quello denominato Patrioti per l’Europa. In esso collaborano 14 partiti di 12 Stati. La rappresentanza maggiore, con 30 eletti, è quella del RN francese, mentre l’Italia è rappresentata dalla Lega di Matteo Salvini coi suoi 8 parlamentari. Grande assente è il partito tedesco identitario per eccellenza, Alternative für Deutschland. Alleato fino a pochi mesi fa degli altri sovranisti e seconda forza politica più votata della Germania, tale movimento politico si è scioccamente messo all’angolo da solo con alcune dichiarazioni fuori luogo dei suoi leaders. Inevitabili peccati giovanili di un partito potenzialmente salvifico, ma che soffre ancora di una certa confusione interna (pro Israele ed antislamico, ma funestato da stupide battute antisemite, filo NATO e filo USA, ma ambiguo nei confronti dell’Ucraina. E così via).

Il gruppo dei Patrioti, appena nato, ha già ottenuto un obbiettivo psicologicamente importante: superare per appena 6 membri il suo principale concorrente di destra, il gruppo dei Conservatori e dei Riformisti Europei (nel quale milita, non a caso, Fratelli d’Italia). È ancora presto per sapere cosa riusciranno ad ottenere i Patrioti, ma ad oggi una cosa è certa: i sovranisti sono sempre stati bravi a mostrare il marcio che alberga nelle istituzioni europee, ma poi faticano a trovare delle soluzioni condivise. Questo perché, proprio in quanto sovranisti e Patrioti, sono ontologicamente portati a pensare all’interesse della propria patria, anche a discapito di quella degli altri se i rispettivi interessi non risultano compatibili.

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