‘Il massacro degli armeni è da considerarsi come il primo genocidio del XX secolo’.
Convenzione dei Diritti dell’Uomo delle Nazioni Unite.
La persecuzione scatenata nel 1915 dai turchi nei confronti del popolo armeno residente in Anatolia e nel resto dell’Impero ottomano rappresenta forse il primo esempio dell’epoca contemporanea di sistematica e scientifica soppressione di una minoranza etnico-religiosa. Un piano di eliminazione che non scaturì soltanto dall’ideologia panturchista e panturanista del sedicente partito “progressista” dei Giovani Turchi, ma che trasse le sue origini dalle antiche e mai del tutto sopite contrapposizioni tra la maggioranza musulmana turca e curda e la minoranza cristiana armena. Con l’espressione “genocidio armeno” (in lingua armena Metz Yeghérn, grande male) ci si riferisce a due eventi distinti ma legati fra loro: il primo, relativo alla campagna contro gli armeni condotta negli anni 1894-1896 dal sultano ottomano Abdul Hamid II; il secondo, collegato alla deportazione ed eliminazione degli armeni compiute nel corso del primo conflitto mondiale dal nuovo governo della Sublime Porta, controllato dai Giovani Turchi. L’eliminazione fisica di circa un milione, se non di un milione e mezzo di armeni (la cifra, come è noto, è ancora al centro di accese discussioni, a nostro parere non essenziali in quanto rischiano di ridurre la sostanza di un’appurata tragedia ad un mero e macabro esercizio contabile) da parte dei turchi rappresenta ancora oggi, a distanza di tanto tempo, uno scomodo e scottante tabù. Il sostanziale rifiuto da parte dell’attuale governo di Ankara di riconoscere le responsabilità storiche della Porta Sublime rappresenta un ingombrante ostacolo non soltanto alla conferma di una realtà storica, ma all’ingresso nel consesso europeo della Turchia, nazione retta da un regime laico ma fortemente permeato di religiosità (1). Un’ostinazione, quella di Ankara, che anche a fronte della eccessiva benevolenza palesata da Bruxelles nell’accondiscendere alla sensibilità e all’orgoglio patriottico turchi, rischia di vanificare gli indubbi sforzi compiuti in questi anni dall’attuale presidente della Repubblica turca, Recep Tayyip Erdogan, fondatore e indiscusso leader, almeno fino ad oggi, del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (Adalet ve Kalkynma Partisi), sulla strada della modernizzazione e dell’integrazione del suo paese nella UE.
1915: inizia la deportazione degli armeni cristiani.
La questione armena ritornò di attualità, dopo mezzo secolo dallo sterminio, nel 1974, quando rispondendo a una denuncia del Tribunale Permanente dei Popoli, il governo di Ankara ammise per la prima volta — anche se con molte riserve e distinguo — che tra il 1915 e il 1918 “il popolo armeno aveva patito effettivamente un certo numero di vittime attribuibili alle tragiche contingenze storiche del tempo di guerra, cioè scontri armati, fame, malattie”, guardandosi bene però dal riconoscere che tra il 1880 e il 1918, quindi per un periodo ben più lungo, prima i sultani e poi il governo controllato dal partito dei Giovani Turchi (che avrebbe dovuto, secondo i suoi programmi, “civilizzare e portare in Occidente l’Impero ottomano”) repressero ripetutamente e con estrema violenza questa minoranza cristiana. A questo proposito, nulla o quasi è mai stato infatti ricordato o ammesso con la convinzione e chiarezza dovute. Come se le montagne di documenti, di relazioni, di immagini fotografiche raccolte e le centinaia di memorie di ambasciatori e consoli stranieri residenti all’epoca dei fatti sulle rive del Bosforo non contassero nulla.
Bambini armeni rinchiusi in un orfanotrofio. Molti di loro vennero ‘convertiti’ a forza all’Islam, ma molti altri sparirono nel nulla.
La bibliografia a questo proposito è vastissima. Oltre agli scritti armeni (ovviamente numerosissimi), è possibile attingere a fonti francesi, statunitensi, portoghesi, italiane, greche, bulgare, inglesi e russe. Tra queste ricordiamo le testimonianze, molto importanti, dell’ambasciatore americano Henry Morgenthau, degli inglesi lord James Bryce e Arnold Joseph Toynbee, del francese Henri Barby e, non ultime per importanza, quelle del console d’Italia a Trebisonda, Giovanni Gorrini. Da segnalare infine, per quanto concerne la narrativa, il romanziere austriaco Franz Werfel che con il suo celebre I quaranta giorni del Mussa Dagh permise a larghi strati dell’opinione pubblica europea e nordamericana di venire a conoscenza della drammatica epopea armena. Ma il materiale a disposizione dei ricercatori comprende anche numerosi documenti e relazioni tedeschi (ricordiamo che tra il 1914 e il 1918 la Germania, assieme all’Impero austro-ungarico e alla Bulgaria, fu alleata dell’Impero ottomano) che confermano l’ampiezza dello sterminio armeno.
Bambini armeni imprigionati nei campi di concentramento ottomani.
Qualche esempio: nel 1919 il pastore evangelico nonché storico Johannes Lepsius, che durante la guerra aveva avuto modo di osservare da vicino quegli avvenimenti, pubblicò Deutschland und Armenien, testo che racchiude stralci di documenti diplomatici tedeschi tesi a scagionare, almeno in parte, le colpe e la presunta connivenza del Kaiser, ma che rivelano anch’essi la portata della tragedia dei cristiani anatolici. Alla documentazione di Lepsius va aggiunta quella, sempre di parte tedesca, di un militare in servizio tra il 1914 e il 1917 in Anatolia e Medio Oriente, Armin T. Wegner (1), che con la sua preziosa raccolta fotografica ha fornito prove inconfutabili dei massacri compiuti dai turchi e dai curdi in Siria. Queste opere di testimonianza sono state poi portate avanti nel tempo da numerosi altri intellettuali di varia nazionalità. Rimarchevoli, anche perché riguardano il periodo attuale, le molteplici e minuziose ricerche effettuate da un altro storico tedesco, Hilmar Kaiser, che ha setacciato oltre trenta archivi mediorientali, europei e statunitensi alla ricerca di prove, “violando” persino quelli anatolici: azzardo che nel 1996 gli costò l’espulsione dalla Turchia per “motivi politici”. Kaiser è stato il primo studioso a denunciare pubblicamente la presunta esistenza nell’archivio di Stato di Ankara e in quello del primo ministro Erdogan di “importanti documenti top secret relativi allo sterminio armeno”.
Una famiglia di armeni cristiani.
A dimostrazione di quanto attuale risulti essere la “questione armena”, va ricordato che in questi ultimi tempi anche il cinema ha iniziato ad interessarsi all’argomento. Tra i nove film che saranno presentati a Berlino spicca l’ultimo lavoro dei fratelli Paolo e Vittorio Taviani, La masseria delle allodole tratto dall’omonimo romanzo di Antonia Arslan (titolo originale The Lark Farm), interpretato da Paz Vega, Moritz Bleibtreu, Arsinée Khanjian e Angela Molina. Ambientato nel 1915, il film (una coproduzione italiana, bulgara, francese, spagnola e britannica che uscirà nelle sale il 4 maggio 2007) racconta la storia di una famiglia che vive in Armenia e che in attesa dell’arrivo di parenti che si sono trasferiti in Italia, restaurano una masseria per accoglierli. Ma la guerra farà sì che l’incontro con i familiari italiani non avverrà mai. Di loro si saprà che sono stati coinvolti nell’orrendo genocidio armeno da parte turca avvenuto durante la prima guerra mondiale. Stando alla cronaca, sembra che anche l’attore e regista Sylvester Stallone sia intenzionato a seguire le orme dei Taviani, avendo egli stesso annunciato nel corso di una recente e contestata conferenza stampa svoltasi ad Ankara, la volontà di trasporre in celluloide il celebre e già citato romanzo di Franz Werfel.
Bambini armeni trucidati dai turchi.
Ciononostante, più forte del ricordo, dell’ammissione di una colpa grave e oggettiva sembra essere l’oblio testardo ed insensato del governo turco che, per evitare di affrontare una realtà storica lesiva del proprio spiccato orgoglio nazionale, si ostina da sempre a negare ogni pregressa responsabilità. Sullo sterminio armeno molto, come si è detto, è stato scritto ma evidentemente non abbastanza, soprattutto perché, a differenza dell’olocausto ebraico — riconosciuto, pianto e condannato nel secondo dopoguerra dall’intero popolo tedesco — gli attuali governanti turchi sembrano restii ad assumersi l’onere di ammettere e di chiedere ammenda al popolo armeno per gli orrendi e documentati torti fatti dai loro predecessori a questo sfortunato popolo, a questa etnia minoritaria nazionale, colpevole soltanto di professare un credo religioso diverso da quello statuale. Quella del genocidio armeno (il termine “genocidio” fu coniato negli anni Quaranta dal giurista americano di origine ebreo-polacca Raphael Lemkin proprio in riferimento alla repressione armena(2) è una verità scomoda che secondo Ankara l’Europa e il mondo non sembrano avere il diritto di indagare e di impugnare come arma di ricatto contro la Turchia…(continua).
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