Il libro di Felice Benuzzi che racconta l’avventura.
Questa storia incredibile riguarda tre amici, il triestino Felice Benuzzi, il genovese Giovanni “Giuàn” Balletto, e il camaiorese Vincenzo Barsotti evasi per scalare la vetta del monte Kenya e piantarci, il 6 febbraio 1943, il tricolore. Un’impresa meravigliosamente folle: conquistare una montagna di 5000 metri per il gusto di beffare i carcerieri e ribadire il proprio diritto alla libertà.
Per una fortunata coincidenza, Il Corbaccio — su probabile suggerimento dell’ambasciatore Sergio Romano, prezioso collaboratore dell’editore — ha appena rieditato “Fuga sul monte Kenya”, scritto da Benuzzi nel 1947. Il libro, ormai un classico della letteratura di montagna, nell’immediato dopoguerra ebbe uno straordinario successo e la sua versione inglese “No Picnic on mount Kenya” fu persino adottata dalle scuole britanniche e, nel 1994, ispirò anche “the Ascent”, purtroppo un brutto film pieno d’errori e travisamenti.
Con scrittura fluida e levità tutta triestina, l’antico prigioniero ricostruisce le vari fasi della detenzione, dalla cattura ad Addis Abeba ai primi campi — dipingendo con maestria la monotonia quotidiana, le angosce di quell’ “umanità in conserva” che affolla le baracche — sino al suo trasferimento all’ennesimo lager, a Nanuyuki, alle pendici del monte Kenya. È l’improvvisa visione della vetta fa scattare nella mente di Benuzzi — alpinista esperto e, anni più tardi, socio fondatore di “Mountain Wilderness” — l’idea: scappare e scalare il gigante di pietra e ghiaccio. Poi tornare in prigionia, perché il triestino considera — a differenza di Corsini e i suoi amici — il Mozambico irraggiungibile. Assieme a Balletto e Barsotti, Benuzzi inizia a raccogliere un’attrezzatura di fortuna: le piccozze sono ricavate da martelli, i ramponi sono forgiati battendo a freddo pezzi d’acciaio recuperati da una discarica e legati con frammenti di filo spinato. Le corde sono quelle delle reti ai giacigli, le coperte diventano guanti e giacche, le scarpette da roccia hanno la “suola d’agave da branda”. E poi, c’è la bandiera italiana, barattata al mercato nero del campo, da issare in vetta.
Il massiccio del Monte Kenya.
Il 24 gennaio 1943 i tre scivolano fuori dai recinti e partono per l’avventura. L’avvicinamento è difficile, oltre che da britannici bisogna guardarsi anche dagli animali feroci e da una natura stupenda quanto difficile. Poi la montagna: «la meta per cui avevamo penato tanto, irta di guglie, corazzata di ghiacci, irrorata contro la luce del primo sole che la bacia dopo l’attesa della notte».
Da subito la scalata si rivela durissima. Mentre Vincenzo, sfinito e malato, rimane al campo base, Felice e “Giuàn” continuano; sopravvissuti a una bufera di neve, i due giovani devono rinunciare alla vetta principale e ripiegare sulla seconda cima, punta Lenana, un colosso di 4985 metri. Qui alzano il tricolore e una bottiglia con un messaggio che certifica la loro vittoria. Poi prendono la via del ritorno. Rientrano al campo il 10 febbraio in condizioni pietose, ma prima di consegnarsi si nascondono ancora qualche giorno per ritrovare le forze, per rendersi presentabili. Come si conviene a degli ufficiali italiani. Una mattina si annunciano al comandante del campo: «puliti, sbarbati, con i capelli tagliati e le scarpe lucide, camicia e calzoncini accuratamente stirati. Con l’aria più candida e trionfante lo salutammo: “Good morning”».
Il Kenya attuale.
I carcerieri sono strabiliati. I tre finiscono in cella d’isolamento, ma ricevono subito cure e cibo. Intanto una comitiva di alpinisti inglesi scorge il tricolore che sventola su Punta Lenana. Vanno su e trovano anche il messaggio nella bottiglia. Il 20 febbraio il quotidiano di Nairobi “East African Standard” titola: “Escaped italians prisoners fled to Mount Kenya!”. La notizia fa il giro del mondo e arriva anche in Italia. Nonostante la sconfitta ormai vicina i tre misteriosi evasi — la censura alleata non fornisce nomi e gradi — sono celebrati come eroi.
Dal canto loro i britannici, con sportività, annullano ogni provvedimento disciplinare contro Benuzzi, Balletto e Barsotti. Il tricolore, affidato al Mountain Club of East Africa, viene donato nel 1948 al Club Alpino di Milano. Purtroppo cade in mani incaute, in mani sbagliate. Da decenni della bandiera si è persa ogni traccia. Un triste, malinconico epilogo che si poteva e si doveva evitare. Per fortuna, autori coraggiosi come l’Isacchini (Benuzzi è mancato nel 1988) ed editori intelligenti hanno ritrovato la memoria di una vicenda straordinaria, impreziosita dall’immagine di un piccolo tricolore che garrisce per sempre nel vento dell’Africa.
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