Nel 1725, a conclusione della prima stesura della Scienza Nuova, il filosofo Giambattista Vico dichiarava che la monarchia popolare, costituita nella Napoli ispanica in base ai princìpi della religione cristiana, era la più conveniente ai popoli che hanno raggiunto un alto grado di sviluppo civile: “Le monarchie sono spezie di governo sommamente conforme alla natura delle idee umane spiegate” [1].
Nella seconda e definitiva edizione della “Scienza Nuova”, pubblicata nel 1744, quando l’illuminismo, terminata la fase dell’incubazione, stava per spandere i suoi arroganti miti per tutta l’Europa, Vico ribadiva la tesi sull’eccellenza del regime monarchico quale strumento dell’emancipazione e dell’elevazione delle plebi [2]. Dopo aver rivelato la vera causa della resistenza oligarchica all’instaurazione di monarchie popolari è l’albagia degli aristocratici (“I nobili non si possono persuadere ch’i plebei abbiano la stessa natura umana ch’essi hanno”), Vico, nel mentre elogiava l’indirizzo popolare delle monarchie cattoliche, non poteva prevedere e criticare l’esplosione degli errori (assolutismo, dottrina gallicana, suggestioni massoniche) che avvelenavano il cesarismo del XVIII secolo; errori che avrebbero preparato la prima fase della rivoluzione francese. (2) Intravista dal padre Tapparelli d’Azeglio (autore del saggio sulla ‘Libertà tiranna’), la parentela di assolutismo monarchico, filosofia dei lumi e assolutismo democratico sarà dimostrata da Pio XII nel Radiomessaggio nel Natale del 1944, dove si denunciò il rischio di una democrazia assoluta [3]. Nel 1974, il cardinale Giuseppe Siri, riprenderà l’argomento di Papa Pacelli e definirà esattamente i limiti entro i quali il potere democratico può essere esercitato legittimamente: “Resta saldo il principio che la legittimità politica non si confonde con la legittimità morale: la maggioranza non prevale onestamente quando sancisce qualcosa contrario alla legge di Dio; la democrazia non cambia la verità come non cambia il corso del sole, i ciclo dei venti e delle piogge” [4].
A tal proposito occorre rammentare che il lontano ma effettivo preludio della rivoluzione francese è costituito dai quattro erronei princìpi formulati nel 1682 dal vescovo Jacques-Bénigne Bossuet, e approvati da Luigi XIV. Tali disgraziati princìpi preparavano la deviazione dal Diritto naturale affermando: l’indipendenza del potere regio nei confronti della Chiesa romana; la superiorità del concilio ecumenico sul papa; il rispetto che il Vaticano doveva tributare ai privilegi delle Chiese nazionale francese; ed infine, il categorico rifiuto dell’infallibilità del Papa. Lo storico Emanuel Le Roy Ladurie sostiene giustamente che la politica di Luigi XIV e dei suoi ministri era prossima all’assolutismo (pseudo) religioso di Oliver Cromwell (1599 – 1658). Un più approfondito e severo giudizio sulla dottrina monarchica del XVIII secolo, non diminuisce, tuttavia, il valore del ragionamento, che ha ispirato la teoria politica vichiana. Grazie alla magistrale analisi dei testi mitologici e delle deche di Tito Livio, Vico stabilisce, infatti, che il cammino verso l’umanizzazione della società incontra l’ostacolo costituito dalla tendenza delle oligarchie ad impedire l’elevazione delle plebi alla piena dignità civile. Il fine di questo atteggiamento (squisitamente egoistico e retrivo) è conservare e perpetuare il possesso di un’autorità superata dalla storia e infirmata dal dissenso. Il drastico e spietato potere delle aristocrazie, che nella prima fase della civilizzazione aveva contribuito al superamento dello stato di barbarie e di corruzione in cui si dibattevano i primitivi, fu giustamente rifiutato dalla mentalità dei popoli inciviliti ed umanizzati dalla prolungata obbedienza alla legge. Vico, dunque, sostiene che c’è un momento della storia in cui il regime aristocratico, non più idoneo a promuovere la crescita della società civile in quanto si abbandona al cieco istinto di conservazione e affida la sua sorte a quella politica di violenze, oppressioni e inganni che è simbolicamente rappresentata dalla congiura contro Giulio Cesare, il capo del partito popolare. Alle soglie della modernità, questa svolta cruciale della storia si verifica nello scontro che oppone l’ideologia ghibellina (in cui il filosofo Julius Evola ha visto il riflusso dell’antichità pagana) alla cultura autenticamente umanistica ispirata e diffusa dal Cattolicesimo. Senza tema di apparente paradosso, si può affermare che nel Medioevo il Cesarismo venne rappresentato dalla resistenza guelfa all’esorbitanza del potere imperiale. Iniziatore del Cesarismo cattolico fu San Gregorio VII, l’italiano Ildefonso di Soana, autore di una riforma intesa a ravvivare la vita cristiana, ridimensionando il potere esercitato dall’imperatore e dall’aristocrazia imperiale. Ora, appare dunque evidente che il punto di vista da cui Vico contempla il progresso civile e lo esalta quale conquista della Cristianità, è opposto – per diametrum – a quello di Jacques Maritain, che attribuisce il merito della conquista dei diritti umani non all’azione promossa dalla Chiesa romana, ma alle forze che mossero le rivoluzioni democratiche [5].
Vico è lontano dall’ipocrita disprezzo che i giacobini rivolgeranno contro l’aristocrazia. Vero è che egli riconosce la provvidenziale, insostituibile funzione storica svolta dai regimi paternalistici nella prima fase dell’incivilimento. Afferma che, nella fase iniziale del progresso civile “non si può intendere in civil natura uno stato il quale a sì fatte aristocrazie fusse superiore”. Vico avverte nondimeno che, in condizioni storiche mutate, l’eccessiva asprezza e l’esclusività del potere aristocratico si traduce facilmente negli abusi che destano l’insofferenza e suscitano la rivolta dei sudditi “che commovendo civili guerre nelle loro repubbliche le mandano ad un totale disordine. Di conseguenza, Vico chiarisce che, esaurito il loro compito storico, i regimi aristocratici, prima attraversano una fase della corruzione dispotica e poi vengono aggrediti dalle passioni anarchiche sorgenti dal basso. L’unica alternativa alla tirannide rivoluzionaria e all’anarchia è dunque l’abolizione del privilegio oligarchico e l’attuazione dei principi umanistici del Diritto naturale, princìpi che sono ostinatamente rifiutati dal potere giustificato dalla leggenda intorno al sangue blu degli ‘eletti’. Il Cesarismo appare nella storia del mondo classico come espressione di quel potere carismatico che Max Weber attribuirà all’irriducibile volontà di rinnovare la tradizione, volontà perfettamente espressa nella formula evangelica “sta scritto, ma io vi dico”. Secondo Vico, il senso della storia è quello di fare evolvere il potere, trasformando i regimi aristocratici in monarchie popolari cesariste: “Perché questa è la natura de’ principii: che da essi primi incomincino ed in essi ultimi le cose vadano a terminare”.
Vico sostiene che la divina Provvidenza dispone che dal popolo “uno come Augusto vi surga e vi si stabilisca monarca, il quale, poiché tutti gli ordini e tutte le leggi ritruovate per la libertà punto non più valsero a regolarla e a tenerlavi dentro in freno, egli abbia in sua mano tutti gli ordini e tutte le leggi” [6].
Che questa sia l’indirizzo voluto dalla Provvidenza e attuato per mezzo della libertà degli uomini, lo conferma il fatto che nell’Europa progredita d’inizio Settecento, i governi aristocratici sono ristretti ad alcune piccole regioni, al margine della storia: “non sono d’aristocrazie più di cinque … e quasi tutte sono di brievi confini. Ma dappertutto l’Europa cristiana sfolgora di tanta umanità che vi si abbonda di tutti i beni che possono felicitare l’umana vita, non meno per gli agi del corpo che per gli piaceri così della mente come dell’animo” [7].
La teoria “cesarista”, cui Vico aderì ponendosi in sintonia con l’insegnamento di Sant’Agostino, di San Tommaso e di Gregorio VII, aiuta a comprendere la ragione della scelta maturata dalla gerarchia cattolica nel 1925, quando, alla politica del Partito popolare, fu preferito il regime Cesarista instaurato in Italia da Benito Mussolini. Non senza ragione Pio XI ritenne che l’ideologia cattolico – liberare di Sturzo e De Gasperi fosse inadatta ad imporre la giustizia sociale e a promuovere le classi sociali più disagiate. Qualunque sia il giudizio storico su Mussolini, non si può, infatti, negare che, nel regime fascista, prevaleva una forte componente “cesarista” (in senso propriamente vichiano). Nel Novecento, le riforme di stampo cesarista hanno dimostrato al mondo moderno la legittimità della tesi sul primato civile degli italiani. Lo storico Raffaele Francesca ha puntigliosamente elencato le conquiste della legislazione fascista: Tutela del lavoro di donne e fanciulli (1923), Riduzione dell’orario di lavoro a otto ore (1923) Assistenza ospedaliera per i poveri (1923), Assicurazione per invalidità e vecchiaia (1923), Istituzione dell’Opera Nazionale Dopolavoro (1925), Opera Nazionale Maternità e Infanzia (1926), Carta del Lavoro (1927), Assistenza agli illegittimi abbandonati o esposti (1927), Assistenza obbligatoria contro la Tbc (1927), Esenzioni tributarie per le famiglie numerose (1928), Assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali (1929), Istituto Nazionale Fascista Assicurazioni Infortuni sul Lavoro INFAIL (1933), Istituto Nazionale Fascista di Previdenza Sociale – INFPS, Riduzione della settimana lavorativa a 40 ore (1937); Istituzione dell’Ente Comunale Assistenza ECA (1937), Cassa integrazione guadagni (1942), Istituto Nazionale Assistenza Malattie INAM (1943) [8].
La cultura del cesarismo, oltre che dall’indole e dal carisma di Benito e Arnaldo Mussolini, era infatti diffusa da quella filosofia di Giovanni Gentile che conteneva i princìpi dell’umanesimo del lavoro. Purtroppo, nel secondo dopoguerra, la lezione vichiana (interpretata da Mussolini e dalla scuola di Mistica fascista) è stata fraintesa e avversata da Julius Evola, diventato pensatore egemone nell’area della destra italiana. E in conseguenza degli abbagli evoliani, la dottrina politica di Vico fu intitolata alla democrazia cristiana e contrastata proprio dagli uomini più qualificati e adatti a interpretarla ed applicarla all’attività politica [9].
I seguaci di Evola, quasi senza rendersene conto, hanno esposto la cultura di destra agli influssi dell’oligarchismo ritornante attraverso le suggestioni regressive dell’ultramoderno (si pensi, ad esempio, al paradossale neonazismo del sessantottino Jacob Taubes). Suggestioni labilmente propagandate dai trans-pensatori delle scuderie di Massimo Cacciari e di Roberto Calasso. A differenza di Gentile, che aveva intravisto il profondo significato cristiano e umanistico della dottrina vichiana, Evola aveva capovolto il significato della Scienza Nuova, confondendola con le stralunate teorie di Oswald Spengler e riducendola, infine, ad un improbabile elogio delle mitologie intorno ai “sapienti” vissuti nell’età primordiale. Un attento studioso del tradizionalismo, Ettore Marano, ha infine dimostrato che Evola travisò la politica sociale condotta da Mussolini, vedendo e denunciando in essa il trionfo dell’economia sulla spiritualità, “trionfo che non tarderebbe a fare del fascismo una brutta copia del bolscevismo”[10].
L’ideale cesarista predicato da Vico, invece, risulta del tutto compatibile con l’umanesimo del lavoro e perciò lontanissimo dalla cultura oligarchica di Evola, cultura che ha fondamento nell’ideologia ghibellina e nelle leggende iniziatiche (la mistica del graal) fiorite intorno alla sapienza prevalente nell’immaginario medioevo ariano. Non per niente, nel saggio sul fascismo dal punto di vista della destra, il barone nero (Evola)dichiarò apertamente l’adesione all’ideale monarchico rappresentato dai sostenitori dei Savoia. Necessariamente, le leggende che interessavano Evola sono andate incontro alle due concordi (e discordi) pulsioni della reazione oligarchica: l’orgoglio codino, non ancora sopito dalla nobiltà crepuscolare, e le fantasticherie dei nazisti intorno al mito teosofico di Agarthi. Evola, pertanto, condivise la furente disapprovazione del cesarismo dichiarata da Oswald Spengler e lo snobistico disprezzo dei cosiddetti salotti buoni nei confronti di Mussolini. Il fatto è che Evola aveva assunto (da Helena Blawatskij, Rudolf Steiner e in modo speciale da René Guénon [11]) alcuni dogmi della cultura regressista e per questa ragione era diventato incapace di vedere la dipendenza del Progresso dalla Tradizione. Ad Evola, pertanto, si adattano le parole di un suo critico geniale, l’autentico tradizionalista Francisco Elias de Tejada: “E’ assurda la posizione che soleva contrapporre la tradizione al progresso, giacché non esiste progresso senza tradizione né tradizione senza progresso. Progredire è naturalmente cambiare e moralmente migliorare ciò che costituisce la Tradizione ricevuta; mancando questa, cioè la materia da riformare, il progresso è impossibile. Parimenti la Tradizione come fatto immodificabile è qualcosa di morto, archeologia pietrificata, un blocco di pietra inutile. Se gli uomini non trasmettessero la Tradizione ricevuta imprimendole il proprio sigillo personale, la Tradizione sarebbe un cadavere” [12].
Senza ombra di dubbio, nelle pagine conclusive di entrambe le edizioni della Scienza Nuova, Vico intende elogiare l’esempio dell’ordine politico realizzato nel Regno di Napoli grazie all’incontro delle culture italiana e ispanica. La monarchia partenopea, mettendo a freno l’arroganza delle oligarchie, realizzò alcuni fra i più autentici valori della tradizione aristocratica. Questa verità fu riconosciuta perfino da Benedetto Croce. Nell’introduzione alla “Storia del Regno di Napoli”, il filosofo di Pescasseroli confessa di aver scoperto la grandezza dell’antico Regno di Napoli grazie alla lettura di un saggio del giurista cattolico Enrico Cenni: “Il vecchio regno di Napoli mi si trasfigurò innanzi agli occhi della mente non solo in uno degli stati più importanti della vecchia Europa, ma in tale che aveva sempre tenuto, nell’avanzamento sociale, il primato o almeno uno dei primi posti. Sorse esso, infatti, nuovo e singolare esempio nella semibarbarica Europa, come monarchia civile, fondata da Ruggiero, conservata e rassodata dai successori, innalzata al sommo fastigio dalla gloria di Federico Svevo: uno stato moderno, in cui il baronaggio era contenuto in istretti confini, ai popoli si garantiva libertà e giustizia, la mente del sovrano, rischiarata da nobili concetti morali e politici, regolava il tutto”. Il cesarismo, nell’aspetto valorizzato da Vico, da Giovanni Gentile, da Ugo Spirito ed anche dal migliore Croce, è l’essenza di quella tradizione italiana di matrice cattolica, che giustifica, ancor oggi, la rivendicazione del primato civile. Il fatto che i tentativi (naturalmente imperfetti e rivedibili) compiuti nel Novecento italiano per attuare i princìpi del Cesarismo siano falliti oltre che per intrinseca insufficienza, a causa della potente reazione scatenata dai poteri forti non ne diminuisce il significato e la dignità storica.
[1] Scienza Nuova prima 1725, Capo ultimo, Età degli huomini.
[2] Prima che da Vico, la funzione provvidenziale della monarchia popolare fu riconosciuta dall’umanista fiorentino Coluccio Salutati [come Vico, pensatore di formazione agostiniana]. Al proposito Daniela De Rosa ha dimostrato che secondo Salutati “Dio ha istituito l’ufficio di re in ratione peccati per frenare con grandissima autorità accordata al monarca gli istinti distruttivi che, senza coercizione, non sempre si sottopongono spontaneamente alla legge“. Cfr.: Daniela De Rosa, Coluccio Salutati Il cancelliere e il pensatore politico, La Nuova Italia, Firenze 1980, pag. XIV.
[3] Pio XII fece cenno a “quella corruzione che attribuisce alla legislazione dello stato un potere senza freni né limiti e che fa anche del regime democratico, nonostante le contrarie ma vane apparenze, un puro e semplice sistema di assolutismo”.
[4] Cfr. “Divorzio e libertà”, in “Renovatio”, gennaio marzo 1974. Ai banditori della democrazia assoluta e ai contestatori della dottrina che afferma l’inviolabilità del diritto naturale Siti obiettava: “A ciò si oppongono speciose obiezioni … ad esempio, regola suprema è la coscienza. Nella mente di molti questa massima suona in realtà così: le leggi le fa la mia coscienza. Niente di più falso. La norma ha la stessa sorgente dell’essere; se ci fossimo creati da noi (è ridicolo solo il dirlo) potremmo anche farci legge a noi stessi. Ma non ci siamo creati da noi e, pertanto, la legge viene di là della coscienza (eteronomia), in ultima analisi dalla stessa fonte dalla quale abbiamo avuto l’essere”.
[5] Nel saggio”À travers la victoire”, Maritain sostenne che “Lo spirito della Resistenza ha modellato tra gli uomini della rivoluzione e quelli della speranza cristiana vincoli d’intesa e di collaborazione, che, liquidando i vecchi pregiudizi, hanno aperto la strada ad una nuova democrazia”.
[6] Scienza Nuova seconda, Conchiusione dell’opera.
[7] Ibidem.
[8] Cfr.: Antirevisionismo di un revisionista Appunti di storia contemporanea, Ed. Pagine, Roma 2011, pag. 79 e segg..
[9] Il brillante politologo Marco Tarchi, ad esempio.
[10] Cfr.: Una critica aristocratica al fascismo, Idee in movimento, Genova 2004.
[11] Nel Re del mondo, Guénon sosteneva che “gli atti considerati come immorali dall’etica corrente o essoterica possono tuttavia servire da supporto a una pretesa contemplazione, come insegna la storia della gnosi“. Di qui l’apertura del discepolo Evola alle più spericolate trasgressioni
[12] Cfr. La monarchia tradizionale, a cura di Pino Tosca, Controcorrente, Napoli 2001, pag. 104.
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