La storia degli intensi e complessi rapporti che, tra il 1933 e il 1945, intercorsero tra il Gran Mufti di Gerusalemme, Hajjī Muhammad Amīn al-Husaynī, capo spirituale dei musulmani palestinesi, i movimenti panislamici, panarabi e nazionalisti sorti negli anni Trenta in Africa Settentrionale (Marocco, Algeria e Tunisia e Egitto) e in Medioriente (Palestina e Mesopotamia) e la Germania nazista e l’Italia fascista, rappresenta una delle vicende a sfondo diplomatico, politico-religioso e ideologico più interessanti e meno note di quegli anni.
Il Gran Muftì di Gerusalemme Amīn al-Husaynī a colloquio con Adolf Hitler.
I motivi che spinsero la più venerata, discussa e chiacchierata, personalità religiosa del Medio Oriente e i movimenti nazionalisti mediorientali ad unire i propri destini a quelli del dittatore tedesco e – seppure con modalità e risultati diversi – a quelli di Mussolini suscitano infatti un’indubbia curiosità, aprendo le porte ad un dibattito che, nell’attuale contesto geopolitico ed economico internazionale caratterizzato dalla recrudescenza dell’estremismo islamico antisionista e antioccidentale, assume una valenza ancora maggiore e specifica, fornendo utili elementi di chiarificazione.
La condivisione dei programmi fortemente antisemiti (non soltanto antisionisti) e la comune avversione nei confronti dei sistemi democratici occidentali furono tra gli elementi che, oltre settant’anni fa, cementarono le basi di un’intesa politica e militare tra due mondi apparentemente molto distanti: le dittature tedesca e italiana e, nel suo complesso e nelle sue sfaccettature, il “movimento indipendentista arabo”. Una vicenda, questa, di cui, tuttavia, per molti anni poco si è detto e scritto (anche se non mancano opere di pregio) in Italia; fors’anche a causa di quel malinteso senso di tutela e di rispetto per la “causa palestinese” e per gli evidenti contraccolpi che una tale imbarazzate esperienza avrebbe potuto suscitare.
Fatta questa precisazione, occorre ricordare che il perdurante antisionismo e antiebraismo musulmano postbellico che ha impregnato, al di là dei contenziosi geopolitici mediorientali tra Israele e i vicini Paesi arabi, buona parte della Umma (cioè la “comunità islamica”), sta a testimoniare la non interruzione e l’immanenza del rapporto ideologico arabo-nazista, contiguità ben più solida di quella, ormai quasi estinta, arabo-fascista. Nel 1984, il professor Jeffrey C. Herf, docente di Storia alla University of Maryland, divenne famoso per avere coniato il termine modernismo reazionario. Nella fattispecie, Herf si è interrogato circa il paradosso dell’antisemitismo predicato anche a popoli che o erano anch’essi semiti (come gli arabi), o erano comunque visti dal nazismo come inferiori, sia sotto il profilo etnico-culturale, sia sotto quello biologico (in nome dell’arianesimo, l’ideologia hitleriana considerava untermenschen, cioè popoli inferiori non soltanto gli slavi, gli ebrei e gli zingari, ma anche i popoli africani e mediorientali, ad eccezione di quelli turchi uralo altaici, e di quelli indiani e iraniani).
Esponenti del Movimento Nazionalista Arabo.
L’analisi di una considerevole mole di documenti d’archivio ricorda come la difficile quadratura del cerchio venne ottenuta esasperando elementi di antiebraismo storicamente già insiti nel Corano. “Così come l’antisemitismo nazista non poteva prescindere da una radicalizzazione di elementi già esistenti nella cultura europea – osservava Herf – l’antisemitismo degli esuli arabi filonazisti era inseparabile da una radicalizzazione già esistente in elementi della tradizione islamica. Ma mentre nell’Europa postbellica, nell’insieme, le antisemitiche teorie di cospirazioni e l’assurdo odio radicato in antichi testi diventarono un nefasto relitto sepolto sotto le macerie del Terzo Reich, in Medio Oriente esse hanno invece continuato ad essere utilizzate per la propaganda antiebraica”.
Alla luce di queste considerazioni, occorre quindi affrontare il tema della compromettente “intesa” italo-germanico-islamica degli anni Trenta-Quaranta con la necessaria prudenza, sfatando soprattutto i luoghi comuni e cercando di ricostruire seppur sinteticamente la nascita e l’evolversi di un fenomeno storico – come si è già detto – oggettivamente importante, ma che può facilmente prestarsi a svariati fraintendimenti o a forzose e inutili manipolazioni ideologiche (così frequenti nella storiografia dell’ultimo secolo). Fermo restando che in ogni ricercatore, anche il più onesto epigone di Erodoto di Alicarnasso, la tentazione interpretativa dettata da radicati seppur inconsci convincimenti pregiudiziali indotti dalla passione ideologica o dal credo religioso, è sempre in agguato. Non ha caso, la Storia è e rimane – almeno, questo è il nostro modesto convincimento – una disciplina molto soggetta agli umori di chi la pratica, ma non per questo è inutile. Il tempo viene, infatti, sempre in aiuto ad essa, stemperandone ogni visione “mitologica” e ridando a questa disciplina la sua funzione di ancella della verità, quella indispensabile per accedere alla conoscenza e fare di questa un patrimonio di saggezza ed equità intellettuale.
Non è certo un mistero che, dall’inizio degli anni Trenta e la metà dei Quaranta, non pochi leader musulmani, arabi e no, abbiano intravisto nella Germania di Hitler e nei Paesi ad essa alleati una grande opportunità di libertà e di riscatto ed anche un modello ideologico da seguire o dal quale attingere insegnamenti. Perché se è vero che l’anelito autodeterminista e nazionalista spinse soprattutto taluni movimenti mediorientali ad cercare e ad agganciare l’alleato relativamente più affidabile – almeno in funzione anti britannica o anti francese e anti colonialista (atteggiamento comprensibile sotto il profilo politico) – è altrettanto vero che a favorire questa intesa fu anche un comune sentire e cioè l’odio nei confronti dell’ebraismo, sentimento nutrito dal führer, considerato da milioni di musulmani alla stregua di una specie di messia in divisa. E se si analizzano i documenti ufficiali non è facile accorgersi dell’accennata, discutibile condivisione di intenti, rinvigorita, tra l’altro, dalla esagerata convinzione, espressa da molti arabi nordafricani e mediorientali, che Adolf Hitler fosse addirittura un amante se non addirittura un occulto seguace dell’Islam.
A questo proposito, un poco credibile aneddoto della seconda metà degli anni Trenta narra che un giorno il ministro della Propaganda, Joseph Goebbels scorse il führer rinchiuso in una stanza segreta della Cancelleria nel mentre pregava su un tappeto persiano e con la faccia rivolta alla Mecca. Hitler mostrandogli il Corano gli avrebbe detto: “Guarda questo libro. Esso è la fonte di tutte le nostre vittorie”. E Goebbels, levando l’indice, avrebbe aggiunto: “Testimonio che non c’è altro Dio oltre ad Allah e Maometto è il suo Profeta”. (Stefano Pini, Rivista Heliodromos, nuova serie, n. 5, Edizioni Il Cinabro, 1989). Ma non è tutto, sembra infatti che, sempre nella seconda metà degli anni Trenta, in certi ambienti arabi circolasse la voce che le prime tribù germaniche fossero originarie di Jaramanah, un piccolo villaggio siriano situato non lontano da Damasco, a dimostrazione di ancestrali, comuni discendenza. Insomma, ce n’era abbastanza per giustificare una naturale oltre che opportuna alleanza islamo-nazista: intesa auspicata a gran voce da milioni di maghrebini, egiziani e mediorientali. “Fino dal 1934, in Siria, Marocco, Tunisia ed Egitto, sorsero numerosi partiti e movimenti nazionalisti, anticolonialisti e filo-nazisti che adottarono, in funzione anti britannica, anti francese e anti semita, programmi decisamente rivoluzionari e violenti, supportati da pubblicazioni e giornali. Perfino gli slogan di Hitler venivano tradotti in arabo. Una canzone mediorientale molto in voga verso la fine degli anni Trenta recitava: “Niente più ‘monsieur’, niente più ‘mister’. In paradiso Allah, sulla terra Hitler”. Il führer stesso fu perfino islamizzato sotto il nuovo nome di Abu Ali”. (Julian Schvindlerman, The Miami Herald , 7 giugno 2002).
Il Gran Muftì di Gerusalemme passa in rassegna un reparto bosniaco musulmano inserito nella Wehrmacht (1943).
Hitler incominciò, dunque, ad essere acclamato come Abu Ali (“il redentore”): l’uomo del destino che sarebbe stato in grado di eliminare per sempre la dominazione coloniale franco-inglese e la “pestilenza ebraica”; il condottiero che avrebbe consentito alle genti musulmane nordafricane e mediorientali di affrancarsi e di costituirsi come confederazione di Stati autonomi. Non a caso, giovani ufficiali egiziani nazionalisti, fra cui i due futuri presidenti egiziani Gamal Abd Nasser (1918-1970) e Muhammad Anwar al-Sadat (1918-1981) – che, tra l’altro, inviò al leader nazista una lettera personale densa di elogi – parteciparono con entusiasmo ai raduni runici di Norimberga, mescolati alla gioventù hitleriana, per acclamare Hitler “liberatore dell’Islam”. E nell’ottobre del 1933 contribuirono a fondare il movimento fascista del “Giovane Egitto” (Misr al Fatah), compagine ideata dal leader Ahmed Husayn, che si alleò con la radicale “Fratellanza Musulmana” (Al-ikhwan al-muslimun) dell’antisemita e filo-nazista egiziano Hassan el Banna (personaggio legato ad Husaynī, di cui avremo modi di parlare più avanti).
Nel 1942, Nasser e Sadat tentarono di stabilire un filo diretto (cosa soltanto in parte riuscita) con emissari dell’Abwehr (il Servizio Segreto tedesco diretto dall’ammiraglio Wilhelm Canaris) e del Comando dell’Afrika Korps del generale Erwin Rommel, impegnato nell’offensiva estiva su El Alamein, contro i britannici. “Approfittare di queste circostanze così favorevoli era per l’Egitto un dovere”, raccontò in seguito Sadat. “Prendemmo contatto con il quartier generale tedesco in Libia e ci muovemmo in completa armonia con esso nelkla speranza di cacciare gli inglesi dalla valle del Nilo”. Abortita per deficienze organizzative l’intesa con le avanzanti forze italo-tedesche giunte nell’agosto del ’42 non distanti da Alessandria, Nasser, Sadat, il generale Muhammad Naguib (1901–1984) e il leader Ali Mahir Pasha (1882–1960) fomentarono una ribellione da parte dei volontari egiziani dell’Ottava Armata britannica: sommossa che tuttavia fallì grazie alla pronta reazione dei servizi segreti di Sua Maestà e che portò all’arresto di Nasser, Sadat e circa 5.900 tra militari e funzionari governativi egiziani incriminati di connivenza con il nemico.
La particolare predilezione da parte dei nazionalisti mediorientali, egiziani ed anche iracheni nei confronti del nazismo – passione che, di fatto, superò per intensità quella nei riguardi del fascismo italiano e di Mussolini che, come vedremo, fu il primo convinto, anche se interessato sostenitore della causa indipendentista palestinese – traeva dunque le sue origini dal fattore aggregante dell’anti-colonialismo e dell’antisemitismo che albergava nei cuori e nelle menti di non pochi leader arabo-palestinesi. Occorre, infatti, precisare a scanso di equivoci che personaggi comeHusaynī non erano soltanto avversi al “movimento sionista” (cosa di per sé comprensibile anche se non del tutto giustificabile: i coloni ebrei giunti in Palestina a partire alla fine del XIX secolo, “acquistarono” dai maggiorenti palestinesi le terre, non le strapparono a questi ultimi), ma mal tolleravano, anzi odiavano l’elemento ebraico in quanto tale. Circa gli antichi e non facili rapporti tra musulmani ed ebrei, lo storico Bernard Lewis (nel suo Gli ebrei nel mondo islamico, Sansoni Editore, Firenze, 1991) riferisce che già “in una fase iniziale della sua carriera di governatore di Medina, il Profeta entrò subito in conflitto con le tre tribù ebraiche della regione, che furono tutte sopraffatte” in quanto gli ebrei venivano reputati come elementi ‘infedeli’ ben più pericolosi ed ostili rispetto ai cristiani e ai pagani. “L’amarezza provata da Maometto dalla opposizione (alla conversione) delle tribù ebraiche si riflette nei riferimenti, per lo più negativi, agli ebrei contenuti nel Corano”.
Se da un lato le rivendicazioni indipendentistiche arabe o più in generale musulmane potevano risultare lecite, il desiderio di porre, contestualmente, fine all’esistenza del popolo di David, induce a ragionare più a fondo circa la sostanziale doppiezza etico-politica di quei capi islamici che con il loro agire malsano e scomposto adombrarono ed ostacolarono nella sostanza le lecite finalità dei movimenti indipendentisti mediorientali e nordafricani degli anni Trenta-Quaranta. In buona sostanza, l’esacerbato anti-ebraismo e l’oltranzismo nazionalista di un Husaynī finirono – come vedremo – per nuocere alla stessa causa arabo-palestinese, impedendo alle fazioni indipendentiste più moderate, come quella di Raghib al Nashashibi, leader del Partito della Difesa Nazionale, di patteggiare utilmente – anche sporcandosi le mani – con l’Inghilterra e la Francia la creazione di Stati arabi mediorientali sì controllati, ma pur sempre in grado di costituire una propria nomenclatura politico-amministrativa capace in un futuro di contrapporsi ed avere la meglio sulle potenze coloniali europee, ormai in declino, soprattutto dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale.
L’occasione per imbastire i primi negoziati ebbe a concretizzarsi il 20 aprile 1939, grazie anche all’arrendevolezza e all’ingenuo cinismo (“Se Hitler vorrà inglobarsi i Sudeti, poco male. In fondo non molti cittadini inglesi sanno cosa sono i Sudeti”), di un ministro come Neville Chamberlain che, dopo la secca sconfitta diplomatica subita nel 1938, a Monaco, ormai convinto dell’imminente inizio della guerra, pubblicò un Libro Bianco in cui l’Inghilterra si impegnava – pur di assecondare le mire di Hitler sulla Boemia e Moravia e di rompere l’intesa islamo-tedesca maturata alcuni anni prima – a consegnare agli arabi e ai palestinesi tutti i territori sottoposti al mandato britannico. “Si trattò – commenta a tale proposito lo storico e giornalista Carlo Panella – di una pagina vergognosa, motivata soprattutto dalla volontà di non irritare alcune centinaia di migliaia di soldati indiani di religione musulmana, che Londra si preparava a mobilitare per la guerra incombente. Una mossa stigmatizzata da Winston Churchill con parole di fuoco: “E’ un’altra Monaco e una resa alla violenza degli arabi”. I “nemici” inglesi, dunque, nulla più potevano dare al Gran Mufti di Gerusalemme al possente movimento palestinese, reduce nel 1939 da una intifada triennale che aveva mietuto non meno di 6.000 vittime (quanto le due Intifada recenti). La riprova si ebbe con la reazione del vero movimento nazionalista palestinese, quello alternativo alla leadership del Gran Muftì e diretto da Raghib al Nashashibi, così come del re di Trangiordania Abdallah al Hashemi, che ovviamente accettarono in pieno l’offerta del Libro Bianco (Nasashibi verrà ucciso da un sicario del Gran Muftì ad Amman nel 1941 e re Abdallah da altri suoi sicari nel 1950). Ma il Consiglio Palestinese, egemonizzato dal Gran Muftì –dando prova della usuale cecità tattica e strategica che caratterizzerà anche Yasser Arafat- rifiutò seccamente un’offerta che, se accettata, avrebbe ostacolato definitivamente qualsiasi progetto futuro di nascita di uno Stato sionista”.
L’ex leader egiziano Nasser che, alla fine degli anni Trenta, quando ancora era un giovane ufficiale, dichiarò apertamente le sue simpatie per Adolf Hitler.
Anche l’Ex Presidente egiziano Muhammad Anwar al-Sadat fu, da giovane, un sostenitore della causa nazionalsocialista.
Ora, se ambire all’indipendenza e all’autodeterminazione è diritto di ogni popolo, ipotizzare – come si è detto – il suddetto sogno su un progetto di sterminio di una minoranza etnica o religiosa non soltanto svilisce la portata ideale dell’ambizione stessa, ma fa sì che questo sogno – più simile ad un incubo – debba essere combattuto e possibilmente contrastato e vanificato. Parafrasando il filosofo spagnolo Miguel de Unamuno (1864–1936) in una sfida di principi per vincere occorre convincere, ma per convincere non è sufficiente la forza bruta; è infatti indispensabile l’attitudine a persuadere il prossimo circa le oneste finalità della lotta: capacità derivante unicamente dalla valenza etica insita nel progetto stesso di lotta. Alla luce di queste brevi e semplici considerazioni, risulta quindi imbarazzante verificare quanti storici occidentali continuino ad analizzare il fenomeno della fallita intesa nazi-islamica con una mal celata simpatia e con il “quasi-rimpianto” che essa non si sia potuta concretizzare in un progetto politico più vasto e definitivo, anche se germogliato all’ombra della svastica. Come ha osservato, a questo proposito, il già citato Panella, “la compromissione tra il nazismo e una parte consistente del mondo islamico si sviluppò durante gli anni trenta e quaranta su tre livelli: l’azione di alcuni gruppi dirigenti nazionali, la definizione di programmi politici e ideologie poi determinanti nel dopoguerra (nasserismo e baathismo) e infine lo schieramento combattente di consistenti settori popolari musulmani (…) Trattasi, questa, di una vicenda incredibilmente travisata e addirittura giustificata dalla storiografia europea. Storici e saggisti come Maxime Rodinson e Sergio Romano, attribuiscono infatti la scelta di campo filonazista del Gran Muftì alla “realpolitik”: per conseguire l’indipendenza nazionale della Palestina contro la potenza mandataria inglese, il leader palestinese sarebbe stato praticamente costretto ad allearsi con i “nemici dei suoi nemici”. Tesi realpolitiker e giustificazionista apparentemente attendibile, ma invece totalmente destituita di ogni fondamento e non solo perché smentita dal grande esempio opposto di Ghandi, Nehru e dello stesso Jinnah, leader della Lega Musulmana indiana, che invece operarono per una piena vittoria inglese contro il nazismo”.
Fermo restando che la Storia non è fatta di “se” o di “ma”, all’inizio degli anni Quaranta un’eventuale vittoria dell’Asse avrebbe forse permesso alle genti islamiche mediorientali – ed anche a quelle nordafricane e a quelle caucasiche e centro asiatiche oppresse dall’Unione Sovietica (cioè le ex Repubbliche Socialiste a maggioranza etnico-religiosa turanico-musulmana: Azebaigian, Kazakistan, Turkmenistan, Uzbekistan, Tagikistan e Kirghizistan ) – di affrancarsi dal dominio e dal controllo esercitato su di esse dalla Gran Bretagna e dalla Francia. Anche se (simpatie ideologiche islamo-naziste a parte) a questo proposito rimangono in sospeso pesanti interrogativi. Se, infatti, nella seconda metà degli anni Trenta e tra il 1940 e il 1942, sia Mussolini che Hitler, seppure con modalità e obiettivi diversi, palesarono e non di rado concretizzarono il loro appoggio al variegato “mondo rivoluzionario islamico” in funzione anti britannica, anti francese e anti sovietica, appare, infatti, evidente che si trattò, almeno in parte, di interessi squisitamente strumentali.
Se è vero, come è vero, che Mussolini dimostrò una certa solidarietà nei confronti, ad esempio, del popolo palestinese sottomesso al mandato di Sua Maestà, è altrettanto vero che il duce mai avrebbe concesso ad altre genti islamiche, cioè quelle di Libia, Eritrea e Somalia facenti parte del suo impero, alcuna speranza di autodeterminazione. Di qui, come, nella sostanza, ha osservato lo storico Stefano Fabei: “il giustificato timore di alcuni tra i più avveduti leader nazionalisti islamici i quali – nonostante le loro spiccate simpatie per gli “avversari” naturali di Francia e Inghilterra – scorsero il pericolo che in un futuro post colonialista franco-britannico” che una Roma neo imperiale potesse di fatto sostituirsi a Parigi o Londra in qualità di potenza occupante o predominante. E il tutto “nonostante il fatto che, nel 1937, Mussolini (che gli arabi chiamavano Mûssa- Nili, il Mosè del Nilo) avesse impugnato la spada dell’Islam” in difesa di genti che in buona misura risultavano suoi diretti sudditi (come ad esempio i libici) In ultima analisi – come spiega Roberto Festorazzi (La Provincia, di Como, 19/04/2003), recensendo la citata opera di Fabei –”il duce, forte dell’impegno di Hitler ad assicurargli il pieno controllo del Mediteraneo, garantì l’indipendenza a tutti i Paesi arabi che non erano oggetto delle rivendicazioni territoriali italiane (escludendo, in particolare, il Nordafrica: Tunisia e Algeria). Ma, al tempo stesso, non fu in grado di vincere la diffidenza di chi aspirava a una soluzione unitaria del problema arabo”.
Attivisti palestinesi filonazisti.
D’altra parte, neppure Hitler, altro fervente quanto interessato filo-islamista, finì per soddisfare appieno le aspettative di un leader idealista, volitivo e violento come il Gran Mufti Hajjī Muhammad Amīn al-Husaynī che vagheggiava la costruzione di un grande Stato arabo comprensivo di Siria e Libano, regioni sottoposte a mandato francese. “La collaborazione tra la Germania di Hitler e la Francia di Pétain – osserva Festorazzi sulla falsariga di Fabei – imponeva infatti che il Reich temporeggiasse nel fornire assicurazioni circa la decolonizzazione dell’aréa siro-libanese, e che inoltre che non pregiudicasse il destino di altri territori dell’Oltremare francese, come quelli maghrebini”.
Pur se fallita – come avremo modo di spiegare – nei suoi intenti di anteguerra, ricordiamo che l’intesa islamico-nazista ebbe però modo di proseguire egualmente negli anni Cinquanta, soprattutto in ambito egiziano e siriano, grazie anche all’intervento dell’Unione Sovietica che, oltre a favorire l’espatrio clandestino in Medio Oriente ed Egitto di funzionari e militari nazisti, appoggiò anche la cooptazione da parte del già citato leader Nasser e del regime di Damasco di Ṣalaḥ al-Din al-Biṭar (uno dei due fondatori, assieme Michel Aflaq, del partito Baʿth, che rappresentò nel secondo dopoguerra una delle forme più diffuse e organizzate del nazionalismo arabo) di scienziati ed esperti militari tedeschi fatti prigionieri dai russi alla fine della Seconda Guerra Mondiale, ai quali venne affidato il compito di addestrare le truppe destinate a schiacciare il neonato Stato di Israele e ad approntare armi di distruzione di massa da utilizzare all’occorrenza sia in funzione anti-israeliana che anti-americana o anti-occidentale. Tra i collaboratori nazisti di spicco che operarono in Medio Oriente ricordiamo Walter Rauff (1906–1984), entusiasta utilizzatore dei Gaswagen (un tipo di autocarro a circuito di scarico chiuso originariamente inventato nel 1936 dall’allora direttore del NKVD Isay Berg per l’eliminazione fisica di parte dei condannati nelle Grandi Purghe staliniane) utile per sterminare gli ebrei nell’Europa dell’Est. Rauff organizzerà, inoltre – grazie all’aiuto fornito dal vescovo austriaco filonazista Alois Hudal (1885–1963) – la fuga verso la Siria di una cinquantina di gerarchi, tra cui Franz Stangl (1908–1971) e Gustav Wagner (1911–1980), comandanti dei campi di sterminio di Sobibor e di Treblinka.
Come conferma Stefano Gatti, ricercatore e redattore del portale “Osservatorio antisemitismo” della Fondazione CDEC di Milano, “nel secondo dopoguerra, grazie e soprattutto ai buoni uffici del famigerato Hajj Amin al-Husseini, ex Muftì di Gerusalemme e grande amico di Hitler, migliaia di criminali nazisti trovarono rifugio ed incarichi di rilievo al Cairo e Damasco, da dove, spesso dopo la conversione all’islam, divennero i responsabili e le eminenze grigie delle politiche repressive e delle campagne antiebraiche dei nuovi regimi nazionalisti, riproponendo al mondo arabo la loro propaganda incentrata sui Protocolli, sulla denuncia del complotto ebraico per il dominio del mondo, sull’accusa del sangue, a cui aggiunsero infine le tematiche negazioniste. Non bisogna scordare che il Ba’ath, il principale partito di massa del mondo arabo costituito a Damasco nel settembre del 1940 dal siriano Michel Aflaq (1910–1989), trae le sue radici oltre che nel marxismo-leninismo anche – e forse soprattutto – nel nazifascismo. Inoltre, durante la Seconda Guerra Mondiale i movimenti nazionalisti arabi si schierarono con le potenze dell’Asse, non solo per anticolonialismo ma per comunanza ideale”.
Il politico e religioso egiziano Hasan al-Banna, fondatore de ‘I Fratelli musulmani’, il più importante movimento nazionalista panarabo.
Il siriano Michel ʿAflaq, fondatore del Partito Ba’ath.
A dimostrazione del perdurare delle simpatie nei confronti della Germania hitleriana uscita sconfitta dal secondo conflitto, sempre degli anni Cinquanta/Sessanta, parecchi partiti nazionalisti arabi, come il già citato Partito Ba’ath (nome completo: “Partito Arabo Socialista della Resurrezione”) rispolverarono non pochi punti del programma nazionalsocialista tedesco, rinsaldando antichi e mai interrotti legami ideologici. Come puntualizza Panella, “l’influenza che ebbe il nazismo nella formazione dell’ideologia dei gruppi dirigenti nazionali arabi che presero il potere negli anni del secondo dopoguerra – tutti stretti alleati del comunismo sovietico, così come lo erano stati del nazismo tedesco- è efficacemente sintetizzata da Sami al Jundi, uno dei fondatori, nel 1937, assieme a Michel Aflaq, del partito Baath che poi prese il potere in Siria e in Iraq con Hafez al Assad e Saddam Hussein: “Eravamo nazisti, ammiratori del nazismo, e leggevamo i suoi testi e le fonti della sua dottrina (…) Fummo i primi a pensare di tradurre il Mein Kampf. Chiunque fosse vissuto in quegli anni a Damasco, si sarebbe reso conto della propensione del popolo arabo verso il nazismo, il nostro modello politico. Nel 1940 cercai di procurarmi una copia de Il mito del XX secolo di Alfred Rosenberg, ma riuscii a trovarne una sola in francese, nella biblioteca personale di Michel Aflaq””.
Una copia del Mein Kampf in lingua araba.
Per la cronaca, a partire dal secondo dopoguerra, nei Paesi arabi il Mein Kampf fece registrare un notevole boom di vendite. Secondo l’associazione Hateprevention, dal 2008 al 2014 sono state vendute circa 70 milioni di copie del volume in tutto il mondo, 50 delle quali nei Paesi musulmani (soprattutto nell’Iran sciita di Hassan Rouhani). In questo contesto, il caso più clamoroso rimane tuttavia quello della Turchia a prevalenza sunnita del presidente Recep Tayyip Erdoğan, dove le vendite hanno raggiunto i picchi maggiori. A questo proposito, va ricordato che già nel 1939 l’allora presidente della repubblica turca İsmet İnönü (succeduto a Mustafa Kemal Atatürk) permise la prima traduzione del libro di Hitler ad opera del giornalista Huseyn Yalcin. Da allora, il Mein Kampf venne smerciato da librerie, bancarelle e negozi dell’usato, anche in una versione super economica da circa 3,5 euro. L’ultima edizione pubblicata alla fine del 2004, sempre in Turchia, dall’editore Bilge Karinka, andò letteralmente a ruba, vendendo 100.000 copie in soli tre mesi (dal gennaio al marzo del 2005). Come racconta il giornalista Domenico Quirico nelle sue memorie di viaggio (www.informazionecorretta.com, 17 dicembre 2015): “…Al Cairo, appena dietro piazza Tahrir ( il Cairo), dove nel 2011si consumò l’ennesima, imperfetta “primavera araba”, scorsi una libreria… In vetrina il Mein Kampf (in lingua araba) era al centro: con il volto dell’imbianchino pestifero, disteso su una fila di croci runiche…Il libraio, saldo e aitante, sordo al tumulto che gli rombava intorno, mi mostrò il testo: “Si vende, si vende; soprattutto a giovani, venti, trent’anni…”“
Il leader palestinese Yāsser ʿArafāt elogiò più volte il contenuto del Mein Kampf di Hitler.
Ma non è tutto. Sempre a proposito dell’infatuazione islamica contemporanea nei confronti delle teorie naziste, il giornalista Antonio M. Suarez (www.rightsreporter.org, 12 marzo 2016) rammenta un articolo pubblicato il 6 marzo 2016 dal quotidiano iracheno Al-Zaman a firma del giornalista Karim Al-Taee. L’articolo, intitolato Iraq Needs Hitler (“l’Iraq ha bisogno di Hitler”), denunciava che gli ebrei stanziati nel nord dell’Iraq ed aiutati dagli “imperialisti occidentali” avrebbero predisposto un piano segreto per prendere in consegna la città petrolifera di Mosul per poi accaparrarsi (non è dato di sapere in che modo) tutte le risorse energetiche irachene. “A parte il contenuto allucinante dell’articolo – ha commentato Suarez – ciò che dovrebbe farci riflettere è il sempre più evidente avvicinamento del mondo musulmano alle posizioni naziste e post naziste. Non è un caso che il Mein Kampf sia uno dei libri più letti nel mondo islamico e non è solo perché riguarda in qualche modo lo sterminio pianificato degli ebrei ma soprattutto perché il nazismo ricalca il pensiero arabo circa il concetto di “razza superiore” destinata a dominare il globo, anche se, nella fattispecie, la razza ariana viene in realtà sostituita dal “mondo islamico” inteso come “mondo religioso”“. Concetto, quest’ultimo, ribadito più volte dal leader salafita dell’Isis Abu Bakr al-Baghdadi.
Suarez precisa inoltre che “non è un caso che il Mein Kampf sia uno dei libri più letti nel mondo musulmano in quanto il nazismo è il concentrato delle idee arabe e persiane riguardanti il concetto di razza superiore che domina il mondo, dove la razza ariana viene sostituita dal mondo islamico inteso come mondo religioso. I concetti del nazismo si avvicinano molto a quelli espressi dai Fratelli Musulmani e dagli Ayatollah iraniani, i primi sunniti e i secondi sciiti, da secoli in guerra tra di loro per la supremazia sul’intero Islam, ma uniti dalla stessa ideologia di ‘conquista’ del mondo:, la stessa identica visione di Hitler anche se adattata alla religione.” Tesi, questa, sostenuta anche dal premio Nobel per la letteratura (2001) Vidiadhar Surajprasad Naipaul: “Lo Stato islamico – dichiarò il 25 marzo del 2015 a Il Giornale, lo scrittore nativo di Trinidad – è proteso ad un “olocausto contemporaneo” (l’omicidio di sciiti, ebrei, cristiani, copti, iazidi) e potrebbe quindi abbandonare l’etichetta di “Califfato” e farsi tranquillamente chiamare Quarto Reich”.
Ma ritorniamo al passato. Se da un lato la Germania (e in seguito, come abbiamo visto, l’Unione Sovietica) ambiva a sottrarre all’Inghilterra o agli Usa il controllo diretto o indiretto dei grandi giacimenti mediorientali iracheni e dell’area del Golfo Persico, dall’altro i leader nazionalisti arabi e mesopotamici cercarono di utilizzare questa allettante opportunità come carta vincente, anche se nei loro progetti si intravedeva già la volontà di affrancarsi definitivamente dall’Europa, più in generale dall’Occidente e, in seguito anche dall’URSS, dando vita ad organismi statuali indipendenti e fortemente impregnati di ideali nazionalisti ([1]), venati talvolta di laicismo (come ad esempio l’Egitto e l’Iraq della seconda metà degli anni Cinquanta), ma pur sempre legati al credo musulmano.
[1] In quanto ideologia, il nazionalismo arabo puntava ad una sorta di federazione di tutti gli Stati compresi tra il Marocco e la Penisola araba aventi in comune retaggi storici, lingua e cultura. Il nazionalismo arabo si differenzia dal panarabismo– sebbene sia ad esso strettamente connesso – in quanto lo scopo di quest’ultimo è la creazione di un ‘unico’ Stato arabo, mentre l’indipendentismo arabo si riferisce invece all’eliminazione o alla minimizzazione dell’influenza occidentale sul mondo arabo. Fino all’inizio della Prima Guerra Mondiale, l’attivismo politico dei fautori del nazionalismo arabo fu quasi sempre improntato alla moderazione in quanto le loro aspirazioni non andavano oltre l’applicazione da parte del potere centrale (vuoi ottomano, vuoi colonialista franco-anglo-italiano) di riforme miranti a garantire una certa autonomia di tipo culturale e amministrativo (ad esempio: un più liberale e diffuso uso della lingua araba nel settore dell’istruzione e la possibilità di espletare il servizio militare nella regione di appartenenza). L’area geografica in cui il nazionalismo arabo ebbe maggiore presa fu il Medio Oriente e la penisola araba: territori sottoposti fino all’autunno del 1918 alla potestà d’imperio della Sublime Porta. Va comunque ricordato che a quel tempo il nazionalismo arabo non poteva ancora definirsi un movimento di massa, nemmeno in Siria, paese in cui esso risultava più forte per via dell’ambizioso progetto, maturato negli ambienti nazionalisti di Damasco, di creare appena possibile una “Grande Siria” comprensiva del Libano e della Palestina (inclusi i territori appartenenti all’attuale Giordania). Detto questo, verso il 1910 – anche in conseguenza del rafforzarsi dell’ottomanismo turco e del panislamismo – la maggioranza delle tribù e dei clan arabi mediorientali preferirono barattare con Istanbul una sorta di moderata autonomia gestionale del territorio in cambio della propria lealtà al sultano e al comune credo religioso islamico. Nel 1913, a Parigi, nell’ambito del primo Congresso Arabo, un gruppo di intellettuali e politici arabi stilò di comune accordo un documento da presentare alle autorità ottomane contenente una serie di richieste per una maggiore autonomia all’interno dell’impero: documento che, tuttavia, la Sublime Porta – da tempo in preda ad una forte crisi istituzionale ed economico-militare – accolse con molto sospetto, nel timore che essa potesse favorire una rovinosa disgregazione dell’impero. Tra il 1915 e il 1916, in concomitanza con l’avvio da parte del Movimento dei Giovani Turchi del processo di ‘turchizzazione’ promosso proprio per salvare l’unità dell’impero, le autorità ottomane soppressero con la forza tutti i movimenti nazionalisti di Damasco e Beirut rafforzando inevitabilmente quel sentimento di rivalsa che in seguito la Gran Bretagna seppe ben sfruttare in funzione anti-ottomana. Dopo la Prima Guerra Mondiale, il nazionalismoarabo fu sostenuto e propagandato da noti intellettuali tra cui Amin al-Rihani, Constantin Zureiq, Zaki al-Arsuzi, Michel Aflaq e Sati al-Husri. Mentre ideologie concorrenti, quali l’islamismo e il nazionalismo libanese furono sostenuti da altri politici e uomini di pensiero, soprattutto cristiani (fatta ovviamente eccezione per l’islamismo), come il cristiano ortodosso libanese Antun Saadeh (1904-1949), leader del Partito Nazionalsocialista Siriano.
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