Rosa Costanza Dainelli, nata a Cuveglio in Valle il 02 maggio 1901 ha una storia che vale la pena raccontare.Una storia da romanzo rimasta nell’ombra forse perché non era opportuno parlare di elementi legati al SIM, ovvero il Servizio di Informazione Militare del periodo fascista, anche se il suo operato, dettato dalle circostanze belliche, fu rivolto esclusivamente contro l’esercito inglese durante il II conflitto mondiale in Etiopia. Ma partiamo dall’inizio: nata a Cuveglio in Valle il 2 maggio 1901, allevata con una educazione severa e nel culto del dovere, riuscì a studiare e laurearsi in medicina. Nel 1937, per un certo periodo, trovò impegno a Varese negli uffici di Assistenza Sociale, un lavoro non certo di grande profitto e così, nel novembre del 1938, prese la decisione coraggiosa di emigrare in Etiopia da poco conquistata, attratta come molti altri dal miraggio di una vita più fortunata.
Rosa Dainelli in età matura.
Dopo un breve soggiorno ad Asmara, si trasferì ad Addis Abeba. Non passò molto che si scatenò la guerra. In Africa Orientale la resistenza italiana fu assai debole; già nell’aprile 1941 Addis Abeba cadde in mano inglese e il 17 maggio ci fu la resa di Amedeo d’Aosta. Non tutti gli italiani accettarono la sconfitta, parecchi tra militari e civili, sperando in una controffensiva italo-tedesca in Egitto, diedero vita a un movimento di resistenza contro gli inglesi organizzato attorno ad agenti del SIM. Anche Rosa fu tra quelli che non vollero arrendersi. Ad Addis Abeba vivevano 40.000 civili italiani oltre a un numero imprecisato di militari allo sbando e così decise di lasciare il lavoro e di rendersi utile entrando come infermiera volontaria nell’ospedale militare Regina Elena della città ad assistere feriti e malati sempre più numerosi e disperati in quella situazione di confusione che si era venuta a formare. Nelle sue carte si trova una relazione del suo operato a favore dei numerosi italiani, militari e civili. Rosa aprì anche un ambulatorio a casa sua, modesto, ma che dava soccorso a molti indigeni che versavano in misere condizioni, afflitti da piaghe, ulcere e gonfiori. Durante un viaggio nella regione Galla aveva anche riscattato uno schiavo, Woldemariam, figlio di schiavi. In quei mesi Rosa collaborò col Comitato di assistenza sorto ad Addis Abeba. Dinamica e risoluta, trattò più volte con i comandi inglesi e riuscendo spesso ad ottenere revoche o modifiche a dure disposizioni che gravavano sulla provata popolazione italiana. Era però in contatto anche con elementi della resistenza; aveva aderito infatti ai Gruppi Segreti d’Azione.
Una colonna motorizzata italiana in Etiopia.
Quell’attività di resistenza la portò ad azioni pericolose di sabotaggio una delle quali, particolarmente rischiosa, è rimasta nella storia. Fu una missione voluta dal Vice Re, Amedeo d’Aosta che culminò la sera del 16 settembre 1941, quando un boato cupo scosse la città intera: fu distrutto il Deposito d’Artiglieria, si trattava di due milioni di cartucce Fiocchi, preda bellica che gli inglesi pensavano di usare per i loro mitragliatori . Dopo il sabotaggio al deposito d’armi, Rosa e il fratello, già nel mirino dell’Intelligence, non poterono sfuggire all’arresto da parte degli Inglesi, il 7 novembre 1941. Rinchiusa nelle prigioni di Acaki, per cinque giorni fu sottoposta a torture fisiche delle quali ne porterà le ‘stigmate’ tutta la vita. Fu l’unica donna italiana ad essere torturata in Africa. Non cedette. Subì quindi due mesi di segregazione e altri sei di cella. Le torture e la dura detenzione ne minarono gravemente la salute tanto che gli inglesi decisero di trasferirla in isolamento nel campo di concentramento di Dire Daua da dove, sette mesi dopo, nell’estate del 1943, un poco ristabilita, fu rimpatriata su una nave bianca e ricoverata a Firenze. Quando si riprese ritornò al suo paese. Le navi bianche erano quattro piroscafi (Saturnia, Vulcania, Duilio e Giulio Cesare) dipinti di bianco con grandi croci rosse che furono adibite dal governo italiano a riportare dall’Africa Orientale donne, bambini e soldati feriti.
La motonave ‘Saturnia’.
Con una dozzina di viaggi rimpatriarono 50.000 persone che, per vari motivi, vennero accolte freddamente dalle istituzioni e con avversione dalla popolazione. Anche Rosa trovò un clima ostile che peggiorò dopo l’8 settembre. Non aderì al nuovo regime di Salò, ma rimase sgradita alla Resistenza e visse un periodo veramente difficile. Al momento della Liberazione, fu presa e incarcerata nella caserma dei carabinieri di Cuvio. Gli indizi contro di lei però non erano tali da inviarla in campo d’internamento e così fu liberata con il consiglio di allontanarsi. Avvilita attraversò clandestinamente il Tresa ed espatriò in Svizzera. Il suo carattere indomito non la fece perdere d’animo. trovò lavoro a Ginevra nelle Nazioni Unite, addetta al Bureau International de Travail (Ufficio Internazionale del Lavoro). Si dimostrò capace ed efficiente tanto da scalare le gerarchie e diventare funzionaria. Così come aveva fatto in Etiopia, anche in Svizzera la sua indole la portò a prestare soccorsi a molti italiani emigrati, povera gente bisognosa di aiuti materiali e assistenza burocratica, trovando a moltissimi di loro una sistemazione e un lavoro. Nel 1951 il sottosegretario al ministero dell’Africa Orientale Italiana (che cesserà solo nel 1953), gli chiese una relazione sulla sua attività ad Addis Abeba. Si voleva in qualche modo chiarire e liquidare quell’oscuro periodo storico. La compilò, ma andò incontro a una serie di difficoltà e scetticismi da parte di burocrati e militari probabilmente ognuno a salvaguardia del proprio particolare. Tutto ciò non le impedì di ricevere la decorazione al valore militare. Alta, appariscente, elegante, le sue origini non le impedivano di ben figurare nel mondo delle persone che contano e seguirne l’etichetta. Ebbe rapporti con importanti personaggi tra i quali Maria Josè, l’ex regina in esilio a Ginevra, dalla quale tutti gli anni riceveva l’invito a bere il tè nel castello di Merlinge, dove viveva separata dal Re Umberto II. In età avanzata sposò Mathias Giuseppe Martegani, benestante svizzero, di origine italiana, figlio dell’ex vicesindaco di Ginevra. Poco dopo i settant’anni una subdola infezione alle gambe si propagò al corpo portandola alla morte. Era il 17 marzo ’73. Volle essere sepolta al cimitero di Cuveglio, dove ancora riposa.
(*) Fonte: http://curiosonevarese.blogspot.com
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