Si dà per certo che la riforma della giustizia, una sorta di controriforma della Riforma Cartabia (a sua volta riformatrice della riforma Bonafede) destinata anche a bloccare, superandoli, i referendum promossi da Partito radicale e Lega, cui stanno lavorando il governo e il ministro della Giustizia nonché magistrato in pensione Carlo Nordio, sancirà, finalmente per alcuni, purtroppo per altri, quella separazione delle carriere di giudice e pubblico ministero di cui si parla da molti anni. Di recente alla schiera degli oppositori (l’Anm, politici dei partiti di opposizione, giornalisti) si è unito un mezzo migliaio di magistrati in pensione, per lo più iscritti alla sezione pensionati dell’ANM, che, sottoscrivendo il relativo “manifesto”, hanno aderito all’iniziativa per il mantenimento dello status quo che vede fra i principali promotori l’ex Procuratore della Repubblica di Torino Armando Spataro.
Tanto gli argomenti a favore della separazione quanto i contrari, in particolare nella versione semplificata a beneficio della pubblica opinione, sono in massima parte gli stessi da anni, con l’unica novità, per i contrari, che la legislazione più recente ha reso tanto difficile il passaggio dei magistrati dall’una all’altra funzione da far dire a molti che si tratta ormai di un problema obsoleto, perché superato dai fatti. Oggi, all’elencazione dei motivi a sostegno della riforma ha provveduto, in replica a Spataro, il presidente dell’Unione delle Camere penali, Giandomenico Caiazza: “La separazione delle carriere è uno schema che appartiene alla stragrande maggioranza delle democrazie, non solo in Europa. L’idea che la magistratura giudicante e quella inquirente appartengono a un solo corpo è una realtà minoritaria nelle democrazie contemporanee”, difatti, “tutti i Paesi con un sistema accusatorio separano gli ordinamenti di accusa e giudizio e la nostra idea nasce dalla convinzione che il processo di tipo accusatorio esiga questa separazione. È poco credibile che il giudice terzo sia legato a una delle due parti, che la formazione sia comune, che lo sia il giudice disciplinare”. Il riassunto degli argomenti contrari è stato affidato, quasi ufficialmente per conto della Sezione Autonoma Pensionati, al magistrato in pensione Elena Riva Grugnola, già presidente della Sezione Imprese del Tribunale di Milano, che in un’intervista all’Adnkronos ha evidenziato i rischi di un pubblico ministero che una volta fuori dalla giurisdizione o diventa un organo pubblico totalmente incontrollato, o un dipendente del Ministero della Giustizia o una specie di avvocato della Polizia, in ogni caso con riflessi negativi per le garanzie del cittadino. In aggiunta, i magistrati in pensione fanno valere il peso della loro esperienza col sostenere che l’avere svolto nel corso della carriera funzioni diverse ha costituito un grande arricchimento professionale.
Argomenti di qualche effetto propagandistico, ma quasi tutti abbastanza deboli, come i supposti rapporti di amicizia, di contiguità o d’interesse fra magistrati derivanti dalla comune formazione e dalla sottoposizione all’autorità di un unico CSM, o facilmente superabili– quelli dei contrari alla riforma – con la creazione di un secondo Consiglio Superiore per la magistratura requirente, come appunto previsto dalla proposta delle Camere Penali, in modo da evitarne sia la totale, incontrollata indipendenza, sia la dipendenza gerarchica dall’esecutivo, sia l’assorbimento nella Polizia (uno stretto rapporto fra il p.m., che ha anche funzioni inquirenti, e polizia è inevitabile, ma la questione è stata debitamente affrontata e risolta già nella seduta del 10 gennaio del remoto 1947 dalla Seconda Sottocommissione dell’Assemblea costituente, che all’unanimità, ha affermato l’assoluta esigenza – poi soddisfatta nei fatti con decenni di ritardo – di “ricondurre la polizia giudiziaria alle dipendenze del Pubblico Ministero”).
In realtà non si può ragionevolmente affrontare l’argomento se non partendo dalla disciplina costituzionale vigente, che, nonostante la contraria e non troppo motivata opinione di alcuni sostenitori della totale separazione, colloca, per espressa decisione dei padri costituenti, magistrati giudicanti e requirenti nello stesso Ordine, prevedendo a tutela della autonomia e indipendenza di entrambi, un unico Consiglio Superiore (art. 104 Cost.) con identici compiti e funzioni nei confronti degli uni e degli altri (art. 105 Cost.). Il verbale della appena ricordata seduta del 10 gennaio 1947 consente di rivivere quasi “in diretta” il dibattito fra le opposte tesi, con principali protagonisti gli onorevoli Calamandrei e Leone (quest’ultimo sosteneva con forza la tesi del p.m. organo del potere esecutivo), a conclusione del quale venne approvato il testo che assicurava al p.m. “tutte le garanzie del magistrato” e respinta la proposta di sottoporlo “alla vigilanza del Ministro della Giustizia”. Conseguenza dell’equiparazione l’obbligo anche del magistrato requirente di agire secondo il”principio di legalità”, dal quale la stessa Costituzione fa discendere l’obbligatorietà dell’azione penale e, ancor più significativamente, l’Ordinamento giudiziario l’obbligo di accertare anche i fatti favorevoli alla persona sottoposta alle indagini.
Sempre in tema di disciplina costituzionale, pur se l’argomento è senza dubbio meno decisivo in quanto la Costituzione rimanda gran parte della disciplina alle norme sull’Ordinamento giudiziario (art. 108 e, in particolare per quanto riguarda il pubblico ministero, art. 107/ultimo comma Cost.) non è priva di rilievo la circostanza che, come ha ricordato l’ex Procuratore Generale di Torino Marcello Maddalena in un’intervista al Fatto Quotidiano, la Costituzione non pone alcun divieto o limite al passaggio dall’una all’altra funzione, come invece previsto dalla sopra ricordata “Riforma Cartabia”.
I primi a esserne consapevoli sono proprio i fautori più coerenti della separazione, che, come ha ricordato il presidente dell’Unione Camere Penali, non solo hanno posto a base del progetto di riforma un disegno di legge costituzionale (del resto assolutamente indispensabile per la prospettata duplicazione del CSM), ma guardano con sospetto all’intenzione, ultimamente da più parti attribuita al governo, di evitare il percorso lungo e potenzialmente periglioso richiesto dal varo di una legge di questa natura per tentare invece (non si sa bene come) un aggiramento del disposto della Costituzione attraverso lo strumento di una legge ordinaria, che, come giustamente ritengono, non assicurerebbe una base certa e solida al risultato che si vuole conseguire.
In realtà la presa d’atto della situazione giuridico-costituzionale in essere non è sufficiente a risolvere di per sé in via definitiva il problema della separazione delle carriere (sempre che si garantisca, attraverso la costituzione di un apposito e separato CSM autonomia e indipendenza del Pubblico Ministero, in mancanza di che la proposta di separazione andrebbe senz’altro bocciata), ma rende indispensabile valutare la consistenza delle ragioni che impongono o, quanto meno, suggeriscono di modificare il sistema di base realizzato dall’Assemblea costituente. In particolare, data la consistenza di quel dibattito e di quell’esito, se siano intervenuti fatti nuovi o modifiche legislative che li rendano almeno in parte superati. In realtà un mutamento significativo vi è stato col varo nel 1988 del nuovo codice di procedura penale (entrato in vigore il 24 ottobre 1989) e il passaggio dal processo inquisitorio al processo accusatorio che, sopprimendo la figura del giudice istruttore e riservando l’assunzione delle prove alla fase dibattimentale, ha posto al centro dell’attività processuale il dibattimento, dove su un piano di parità si fronteggiano il rappresentante dell’accusa e quello della difesa. Una parità tuttavia – lamentano le Camere Penali e una parte della dottrina – solo parzialmente realizzata sicché si dovrebbe piuttosto definire quello vigente un sistema misto fra inquisitorio e accusatorio in attesa che la parità venga effettivamente realizzata dalla separazione delle carriere, definita difatti dal ministro Nordio in un recente convegno sulla giustizia organizzato dal ministro Casellati “consustanziale al rito accusatorio”.
Si tratta di una “consustanzialità” che corrisponde alle polemiche e agli entusiasmi per la riforma degli anni ’ 80, quando i mass-media, nel seguire il progetto del nuovo codice di procedura e la trasferta negli Usa di una commissione, composta di politici e magistrati, incaricati di studiare in loco l’autentico processo accusatorio, si entusiasmarono – i più – per un processo definito “alla Perry Mason” sulla scorta di una serie televisiva di successo, che, appunto grazie a questa parità delle parti processuali, vedeva il difensore pressoché sempre prevalere sull’accusatore.
Al di là delle suggestioni televisive, effettivamente il nuovo codice di procedura penale ha comportato un avvicinamento del processo italiano (più esattamente europeo continentale), ispirato al “principio di verità”, cioè alla ricerca, con il contribuito anche del magistrato requirente, di una verità sì necessariamente “giudiziaria”, ma il più possibile prossima alla verità dei fatti, alla concezione “agonistica” del sistema anglosassone, che individua il fulcro del processo nella risoluzione di un conflitto fra le parti (accusa e difesa) nel quale prevale, sportivamente, il migliore. Un avvicinamento che tuttavia non ha potuto modificare il fondamento costituzionale del nostro processo e dei compiti e funzioni dei suoi protagonisti, sicché p.m. e giudice vi operano muniti entrambi della garanzia della indipendenza e della inamovibilità e ugualmente tenuti al rispetto del principio di legalità e all’obbligo di ricerca della verità. Ciò non toglie che il nuovo rito abbia inciso, accrescendola, sulla caratteristica che da sempre distingue nel nostro ordinamento il magistrato requirente dal magistrato giudicante in quanto, come evidenziato dallo stesso Calamandrei nella già ricordata sessione della Commissione, il primo svolge una “preminente funzione di accusa nel processo penale”. Tale preminenza, evidentemente accresciuta dal rito accusatorio, che ha la sua essenza nel dibattimento, la fase processuale nella quale il rappresentante dell’accusa e quello della difesa si trovano accomunati in una posizione “altra” rispetto a quella del giudice, chiamato a giudicare sulla base di quanto avviene in quel momento di fronte a lui e delle loro richieste, porta senza dubbio argomenti alla tesi della separazione delle carriere caldeggiata dalle Camere Penali (e dal ministro Nordio), tuttavia insufficienti a renderla davvero “consustanziale” al rito accusatorio. Consustanziale può esserlo negli USA, dove la natura agonistica del processo accusatorio è totale, perché confermata dalla dipendenza dei Procuratori Distrettuali dal potere esecutivo e, soprattutto, nella grande maggioranza degli Stati della Federazione, dal sistema elettivo di nomina sicché la carriera e addirittura la conferma nell’incarico dipendono dal giudizio degli elettori, quindi, di fatto, dal numero delle condanne ottenute, con la conseguenza che il fine principale dell’Accusa non è la ricerca della verità materiale, ma la vittoria sulla Difesa, ottenuta anche con colpi bassi purché nel rispetto delle regole del match, la cui osservanza costituisce il compito principale del giudice.
In Italia la nomina dei pubblico ministero avviene per concorso e la carriera dipende dal CSM sicché il processo accusatorio resta compatibile, non solo in astratto ma in concreto, con la vigenza anche per il magistrato requirente del principio di verità, a differenza di quanto avviene per i difensori delle parti private, tenuti invece a tutelare gli interessi dei loro clienti.
In conclusione, ad opinione di chi scrive. pur se non sussistono i rischi temuti da chi vi si oppone, a patto che si provveda, con legge costituzionale, alla istituzione di un CSM per i magistrati requirenti e non si conceda spazio alcuno a quelle ipotesi di elettività che di tanto in tanto riaffiorano (di recente è riemerso il richiamo ad una mancanza di “rappresentatività” del p.m.), non vi è alcuna necessità di procedere alla separazione delle carriere. Da un lato, non è affatto dimostrato che l’identità di carriera fra giudicanti e requirenti nuoccia a ciò che nel nostro sistema continua ad occupare il primo posto: l’accertamento della verità, né ad altri rilevanti interessi di giustizia, se l’avvocato Franco Coppi, uno dei più esperti penalisti italiani, che si potrebbe immaginare schierato a favore delle richieste delle Camere Penali, nel corso del Convegno Casellati ha potuto dichiarare: “Non ho mai pensato di avere perso una causa, perché giudice e p.m. appartenevano alla stessa carriera” ed esprimere dubbi sulla rilevanza della separazione. Dall’altro, l’effettiva parificazione di Accusa e Difesa nel processo è comunque irraggiungibile non solo in Italia ma anche negli States, perché Procuratori Distrettuali e Pubblici Ministeri sono organi pubblici, che hanno alle spalle, a cominciare dalla Polizia, tutta l’organizzazione dello Stato, quindi un supporto che nemmeno i clienti miliardari dei vari Perry Mason sono in grado di procurarsi (se non vi provvede – in Italia – lo stesso p.m.), ricorrendo all’opera dei private eyes, che per di più, almeno in Italia, incontrano non pochi limiti e steccati nell’esercizio della loro attività investigativa.
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