Mitteleuropa terra dai confini incerti in un quadro storico e concettuale che risale all’idea del Sacro Romano impero. Gli Asburgo lo rinominarono austriaco durante l’avventura napoleonica nel 1806. A seguito dell’avanzare del Regno d’Italia nel 1867 l’Impero austriaco si costituì in duplice monarchia austro-ungarica. Una categoria geopolitica sfumata, dove convivevano più popoli ed etnie, religioni e culture. Con il conflitto 1914-18 l’Austro-Ungheria si scontrò sul fronte sud anche col Regno d’Italia dal 24 maggio del 1915. È il punto di non ritorno per la Mitteleuropa apparsa alla metà dell’Ottocento come entità concettuale. Implode dopo l’armistizio con il Regno d’Italia il 4 novembre 1918. Nell’insieme del conflitto sul continente la prima fine delle ostilità avvenne sul fronte Sud. La diplomazia italiana ai tavoli della Pace di Parigi sosteneva, nel quadro del Trattato di Londra, solo un ridimensionamento e la conservazione dell’Impero austro-ungarico in chiave multietnica. Roma poteva dirsi soddisfatta con gli obiettivi raggiunti: unità della patria nei confini di Dante al termine del Quarnaro o il Carnaro della Reggenza dannunziana, l’aspirazione alla pace perpetua in Europa di ascendenza kantiana e l’autodeterminazione dei popoli con la Mitteleuropa. La Francia, nel corso del 1917, sostenendo al pari di ogni paese belligerante, una carneficina e uno sforzo sui civili senza precedenti, intende al contrario smantellare definitivamente gli imperi cosiddetti centrali di Germania, Austria-Ungheria e dei turco-Ottomani. La Russia zarista usciva stremata dal conflitto in quello stesso anno con la pace di Brest-Litovsk e una serie rivoluzionaria… a guerra vinta gli Alleati dell’Italia e il nuovo “Associato” cioè gli Stati Uniti, ai tavoli della Conferenza della Pace di Parigi preferirono la sofisticata formazione geo-politica della Ceco-Slovacchia e del Regno dei Serbi Croati Sloveni. Uno sconvolgimento ben inquadrato da Francoise Fejto in “Requiem per un impero defunto” (1988). Lo spazio danubiano centroeuropeo, la mitica Mitteleuropa, la sua eredità di civiltà secolare anziché assicurata e stabilizzata alla pace sarà in breve l’innesco, in meno d’una ventina d’anni, di un nuovo immane conflitto. Visioni del mondo, una grande cultura che attraversa un percorso dai Sudeti alle Alpi Giulie, fino a Trieste e Fiume-Rijeka che non vedrà in quel tempo un pacifico sviluppo. Il formarsi di una koinè letteraria, artistica, filosofica, tecnico scientifica e matematica per gli studi di illustri austriaci, italiani, ungheresi, mondo slavo ladino e istro-rumeno. La Mitteleuropa era destinata ad essere un’utopia sussurrata, solo consigliata come nell’opera di Immanuel Kant “Per la pace perpetua”. Volontà desiderata alla Conferenza della Pace di Parigi dalla diplomazia italiana – per uno spazio geopolitico condiviso in uno Stato plurinazionale o sovranazionale. Pensiamo alle tesi del mantenimento della Pace dei cent’anni 1815-1914 e la guerra dei Trent’anni 1914-45, il nuovo conflitto bellico industrializzato, tecnologico con la morte diffusa e massificata.
Karl Polany.
Un’opera in questi tempi dimenticata è l’impareggiabile lavoro storico, economico, d’analisi finanziaria e sociologica di Karl Polany “La grande trasformazione” (Torino, Einaudi 1974). L’Ottocento delle “magnifiche sorti e progressive” conduce a sperimentazioni continue applicate su scala industriale e globale, coinvolge intere popolazioni e generazioni di uomini attraverso gli Stati nazione che al contempo perseguono la ricerca della pace. È il tempo che Polany – osserva – pone un’attenzione per il mantenimento della pace dopo il Congresso di Vienna del 1815, attraverso varie fasi. Polany la chiama la Pace dei cent’anni, dal 1815 al 1914 perché, nonostante tutto, malgrado tutte le prove di forza militari, il meccanismo generale delle relazioni internazionali funzionava in modo da localizzare le guerre e in generale erano brevi e in un certo modo “umanizzate”, nel senso che non colpivano i civili e la fibra, ossia le strutture industriali economiche delle nazioni. Individua Polany, quattro meccanismi per l’equilibrio della civiltà del XIX secolo, crollata con il conflitto 1914-18. La Civiltà si poggiava su quattro istituzioni. La prima era il “sistema di equilibrio del potere”. Per un secolo impedì che i conflitti tra le grandi potenze degenerassero in guerre lunghe e devastanti. La seconda era la “base aurea” internazionale (monete legate all’oro) che simboleggiava un’organizzazione unica dell’economia mondiale, la parità aurea, o il “filo d’oro”, faceva sì che le monete dei vari Stati fossero intercambiabili avendo in comune il fattore oro: il tallone aureo. La terza istituzione era il mercato autoregolantesi che produceva un benessere economico senza precedenti; infine, la quarta istituzione era lo Stato liberale e sullo scenario mondiale la nascita di istituzioni internazionali quali: il sistema postale mondiale unificato, il mondo scientifico e accademico, i giochi olimpici, il premio Nobel, e così via. Erano i primi tentativi di dare base tecnica e scientifica ad una prima “Unità del Mondo” che richiedeva continui e costanti consessi internazionali, simposi, seminari, convegni e il dialogo più che tra i popoli tra le élite e rappresentanze.
La Mitteleuropa.
Nasceva dunque, dopo le guerre di Napoleone Bonaparte, un elemento del tutto nuovo, l’emergere di un acuto interesse per la pace e il suo mantenimento. Le quattro istituzioni ottocentesche a garanzia della pace ebbero tre fasi storiche. La fase della Santa Alleanza 1815-49; la fase intermedia o epoca di trapasso, tra il 1849 e il 1870. Dopo il 1871 appare l’ascesa della Germania dopo aver vinto la guerra franco-prussiana. Il mantenimento della pace fino al 1914 avveniva con l’Alta finanza e la “base aurea”: la finanza internazionale, le banche e il libero commercio, oltre che la comunità scientifica con le comunicazioni, prima col telegrafo a fili e con Marconi con la radiotelegrafia e lo sviluppo e il proliferare della stampa di quotidiani e dei periodici per informare una platea sempre più vasta che vide il formarsi di una sorta di “pre-storia” dell’opinione pubblica mondiale. Opinione pubblica che diventerà fondamentale a partire dalla seconda guerra italo-abissina 1935-36 per l’eco avuta nei paesi anche extraeuropei e nella sede allora della Società delle Nazioni. Dopo il 9 maggio 1936 proclamato l’effimero Impero italiano la formazione dell’opinione pubblica mondiale avrà nuova linfa con la Guerra di Spagna o guerra civile europea anticipazione della Seconda guerra mondiale. Non è un caso che la Pace dei cento anni 1815-1914 vedrà l’abbrivio dopo la guerra italo-turca del 1911, innesco per la prima e seconda guerra balcanica del 1912 e del 1913, piani inclinati al periodo cosiddetto guerra dei Trent’anni 1914-45. Una visione della grande storia, la lunga durata storica degli eventi cara a Fernand Braudel, evoca il precedente trentennio di tragedie belliche del 1618-48. Le guerre di religione concluse con i negoziati a partire dal 1644 e due i trattati per la Pace di Vestfalia 1648.
La vocazione per la pace nell’Europa dell’Ottocento emergeva dopo il ventennio di guerre dal 1796-97 per gli avvenimenti della rivoluzione in Francia e di coalizioni militari antifrancesi, poi con le campagne militari napoleoniche concluse a Waterloo nel 1815. Nel Novecento le guerre sono ben altra cosa gravate dal carico di potenze industrializzate, sembra apparire ingenua chimera la breve durata, i confronti bellici non sono risolti in poche settimane o mesi. È una sorta d’adolescenza nei decisori politici sulla sorte dei loro popoli, non conoscono ancora le nuove forze devastanti della scienza e delle tecniche, le applicazioni militari e la morte di massa, capace della distruzione totale, è un punto di non ritorno.
Il percorso del “Danubio blu” era legato al destino della corona imperiale degli Asburgo e sfuma come tanti rigagnoli nel deserto di Gobi, in una landa malinconica e passatista. Con la caduta dell’Impero la mitica Mitteleuropea è solo un ridotto tracciato da trincee dove il modernismo bellico oscura e getta un tetro grigiore, un acre odore di trapasso, una conta senza fine dei numeri dell’Olocausto che tenta l’inconciliabile aspirazione a un futuro solare, positivo, un nuovo e ricreato spazio culturale condiviso di civiltà. È in questo contesto complesso e problematico tra le due guerre mondiali che gli artisti hanno vissuto difficoltà importanti e differenti, sulla linea del non-ritorno, secondo la loro personalità dalla fine della Repubblica di Weimar al secondo dopoguerra. Ad esempio, si osservi la figura di Erwin Muller e la “Neue Sachlichkeit (Kunst)” la “Nuova Oggettività”. Un’intera generazione che il nazismo considerava Arte Degenerata e nel 1937 finiva, quasi interamente, sotto l’“inquisizione” del Terzo Reich con il rogo di libri e opere d’arte. Alcuni artisti dopo la catastrofe nazista tentarono come Karl Hubbuch e Franz Radziwill di continuare la Nuova Oggettività, tanto da ridipingere quadri precedentemente perduti – come ricorda Radziwill – ma non ebbero successo. Sarà dall’America con la Pop Art e con l’apparizione di un nuovo realismo che la “Nuova Oggettività” venne riscoperta negli anni Sessanta soprattutto grazie principalmente ad un mercante d’arte italiano Emilio Bertonati (nato a Levanto 1934 – morto a Milano nel 1981). “La nuova oggettività e altre cose. Il mondo di Emilio Bertonati” è il catalogo della mostra tenuta a Lerici (Castello Monumentale 15 luglio – 17 settembre 2000), rassegna dedicata a Emilio Bertonati architetto, artista, studioso e gallerista. La Mostra è stata l’occasione per far conoscere attraverso le opere degli artisti più significativi il movimento tedesco della Nuova Oggettività (Neue Sachlichkeit): Otto Dix, Rudolf Schlichter, George Grosz e molti altri.
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