Genocidi di ieri, paure di oggi. Di Emanuele Aliprandi.

La regione caucasica.

Esiste un sottile filo rosso che unisce il “Grande Male” (Metz Yeghern) degli armeni all’attuale scenario politico nel Caucaso meridionale.

Il 24 aprile del 1915 l’intera classe dirigente della laboriosa comunità armena dell’impero Ottomano venne arrestata a Costantinopoli, incarcerata e poi eliminata. Politici, artisti, intellettuali, prelati, imprenditori; circa 1200 persone, la testa ‘pensante’ dei circa due milioni di armeni che vivevano nell’impero.

La data è presa a simbolo dell’inizio del genocidio degli armeni anche se già sul finire dell’Ottocento (1893-96) il sultano Abdul Hamid II ne aveva sterminati più di trecentomila.

Tolta di mezzo la classe dirigente degli armeni, toccherà alla forza lavoro maschile a essere avviata, disarmata, nelle fila dell’esercito e poi eliminata; infine sarà l’anello più debole della catena (anziani, donne, bambini) a venire soppresso, sfiancato nelle lunghe marce della morte verso il deserto siriano.

Tre quarti della comunità armena nel giro di pochi mesi risulterà annientata dal furore dei “Giovani turchi” ispirati alle teorie panturaniche[1] che auspicavano un’unica contiguità territoriale delle popolazioni turche, dalle sponde del Mediterraneo fino ai confini con la Cina. Gli armeni rappresentavano un ostacolo (culturale, religioso, linguistico) che andava eliminato per l’attuazione di tale folle piano.[2]

108 anni dopo, la cronaca che giunge dal Caucaso meridionale sembra richiamare al tragico passato e cresce l’angoscia nelle comunità armene che nuovo sangue scorra nella sostanziale indifferenza del resto del mondo oggi come allora preoccupato da difficili riposizionamenti politici e alleanze, da tornaconti economici e forniture energetiche.

Dopo la vittoria nella guerra del 2020 contro la piccola repubblica de facto del Nagorno Karabakh (Artsakh), l’Azerbaigian ha ottenuto molti vantaggi territoriali: ha rioccupato i distretti extra oblast’ sovietico (Regione Autonoma del Nagorno Karabakh) che aveva perso con la prima guerra degli anni Novanta ma anche molti chilometri quadrati dello stesso riducendo la presenza armena a un fazzoletto di terra di poco meno di 3000 chilometri quadrati.[3]

Nonostante il successo ottenuto, l’autocrate Aliyev nel dopo guerra non ha perseguito una politica inclusiva e finalizzata alla costruzione di un rapporto di fiducia fra le parti, preferendo piuttosto mantenere un atteggiamento aggressivo e minaccioso non solo verso la popolazione armena dell’Artsakh (circa 120.000 persone) ma anche nei confronti della stessa repubblica di Armenia.

Forte della patente di “affidabilità” assegnatagli dalla presidente della Commissione europea von der Leyen[4] e assicuratosi il favore dell’Occidente grazie al suo gas (che però in parte è anche russo…), Aliyev ha alzato il tiro.

A partire dal maggio del 2021, decine di chilometri quadrati dell’Armenia sono occupati militarmente dalle forze armate dell’Azerbaigian: si tratta di posizioni strategiche lungo la linea di confine (sulla cui esatta demarcazione lavora da un paio d’anni con scarsi risultati un’apposita commissione) che consentono di controllare il territorio armeno e le sue principali linee di comunicazione viaria lungo l’asse nord-sud; circa 215 km2 strappati a più riprese a un’Armenia ancora troppo debole dopo la precedente sconfitta militare, incapace di presidiare adeguatamente la propria frontiera e forse più desiderosa di apparire davanti all’opinione pubblica internazionale come soggetto debole “aggredito”, sottovalutando però l’attuale peso politico ed economico  del rivale azero accresciutosi notevolmente dopo l’inizio della guerra in Ucraina.

A settembre 2022 un’invasione senza precedenti nella storia dei due Paesi ha provocato 250 morti fra le fila armene con bombardamenti che non hanno risparmiato insediamenti abitati molto distanti dal confine, esecuzioni sommarie di soldati armeni catturati e atti di barbarie contro soldatesse di Yerevan.[5] L’ultimo episodio, l’11 aprile, riguarda la zona di confine nei pressi del villaggio armeno di Tegh dove l’ennesima occupazione di territorio armeno ha prodotto uno scambio a fuoco con un bilancio complessivo di sette morti.

Dal 12 dicembre, l’unica strada di collegamento tra Stepanakert (repubblica di Artsakh) e l’Armenia è bloccata da un presidio azero che dietro presunte, infondate, motivazioni “ambientali” ha in realtà lo scopo di isolare la popolazione armena e costringerla all’esodo.[6]

Oltre quattro mesi di blocco (quasi senza cibo, medicine, carburante salvo qualche aiuto umanitario fornito dalla Croce Rossa Internazionale e dal Comando della forza di pace russa di stanza nella regione), senza gas e con poca corrente elettrica autoprodotta (gasdotto ed elettrodotto dall’Armenia sono interrotti nel territorio occupato dagli azeri) nonostante gli inviti della comunità internazionale e una sentenza della Corte Internazionale di Giustizia dell’Onu per riaprire la strada.

È evidente il fatto che Aliyev vuole tutto il Karabakh ma lo vuole senza armeni che costituirebbero una minaccia interna in uno Stato che l’ultimo report di “Freedom house” ha collocato agli ultimissimi posti della classifica mondiale per rispetto dei diritti civili e politici.[7]

Ma la minaccia più grave arriva dalle pretese di riconquista delle “terre storiche azerbaigiane” che Aliyev indica nel Syunik (Armenia meridionale) e nelle sponde orientali del lago Sevan. Già la patente di storicità per un Paese nato nel 1918 sembra inopportuna; però è chiaro che dietro tale pretesa sta la volontà di creare una continuità territoriale con l’exclave azera del Nakhijevan e quindi la Turchia.

Detto che l’Iran non accetterebbe mai una modifica dei confini con l’Armenia per non perdere il corridoio commerciale verso nord,[8] il rischio di una nuova guerra è altissimo e questa volta non riguarderebbe (solo) la repubblica de facto del Nagorno Karabakh-Artsakh ma l’Armenia stessa. Con tutto quelle che ne deriverebbe in termini di stabilità regionale ma anche di ripercussioni sulle forniture energetiche in Europa e in Italia in particolare.[9] In fondo, 108 anni dopo l’inizio del genocidio armeno le teorie panturaniche dei Giovani Turchi sono sempre nel pensiero di Baku e Ankara. E nessuno poi dica “no


[1] Il turanismo è un’ideologia nata nel XIX secolo per promuovere l’unione e il “rinascimento” di tutti i popoli turanici, ovvero ugro-finnici (ugrici in particolare), turchici e mongolici.

[2] Sulla vicenda del genocidio segnaliamo, tra le tante pubblicazioni, alcune uscite nell’anno del centenario: A. Rosselli, L’olocausto armeno, Mattioli 1885, F. Giansoldati, “La marcia senza ritorno. Il genocidio armeno”, Salerno Ed., Corgnati-Volli, “Genocidio infinito”, Guerini e Associati.

[3] Sull’ultima guerra si veda: E. Aliprandi, “Pallottole e petrolio”, Amazon libri (2021) e C. Ultimo, “Il grande gioco del Caucaso”, Passaggio al bosco (2020).

[4]von der Leyen: L’Azerbaigian è un partner affidabile, raddoppieremo gli acquisti di gas”, suADN Kronos, 19.07.2022

[5]Armenia-Azerbaijan: settembre 2022, tornano a parlare le armi” su ‘Osservatorio Balcani Caucaso’ del 21.09.2022

[6]Quattro mesi di blocco. Nuovo report dell’ombudsman dell’Artsakh sulla grave situazione” su ‘Karabakh.it’ del 12.04.2023

[7] Su ‘Freedomhouse.org’ la classifica completa per nazioni e territori contesi. Per quanto attiene alla regione caucasica e dintorni: (in scala da 1 a 100) Georgia 58, Armenia 54, Nagorno Karabakh 37, Turchia 32, Iran 12, Azerbaigian 9. L’Italia totalizza 90.

(https://freedomhouse.org/countries/freedom-world/scores?sort=asc&order=Total%20Score%20and%20Status)

[8] Le relazioni tra Iran e Azerbaigian sono andate peggiorando a seguito del progressivo miglioramento delle relazioni tra Baku e Israele: l’Azerbaigian fornisce idrocarburi e lo Stato ebraico ricambia con armi sofisticate fra le quali i droni che, unitamente ai Bayraktar TB” turchi, tanta parte hanno avuto nella vittoriosa guerra del 2020. Teheran accusa l’Azerbaigian di fare da testa di ponte per gli israeliani in caso di attacco all’Iran.

[9] Attraverso la tap (Trans Adriatic Pipeline) che dal Caspio arriva in Puglia.

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