1. Heine a Parigi (1830-1856), cenni biografici.
Nelle biografie degli scrittori spesso il critico si è chiesto se un artista sia un uomo del suo tempo ovvero un radicale sovvertitore della sua età, un uomo e un artista che in un’età di mezzo soffre del c.d. non ancora, ma dell’ormai che già si è compiuto. Questo stare nel centro fra una prima bufera e un prossimo tornado è la vita di Heinrich Heine, trascorsa fra la metamorfosi forzata dell’essere un Harry ebreo convertito con la speranza di una assimilazione in una società borghese di cui si sentiva estraneo. In esilio lo raggiunse un distacco nostalgico in tutte le sue poesie sempre più intrise di nostalgia di un passato non più rinvenibile e verso un futuro incerto e melanconico, come gli avvenne sul letto di morte per la incalzante malattia muscolare che lo porterà alla morte nel 1856, dopo aver visto tutte le tragiche rivoluzioni politiche francesi e dopo aver praticato la drammatica esistenza da ironico osservatore sociale nei cabaret parigini fra cancan e bohèmien, sotto l’ineffabile orchestrazione di Offenbach e Napoleone III. Chi voglia approfondire la parabola intellettuale di questo grande poeta romantico sappia che nacque nel 1797 in una ricca famiglia ebrea; studente di Hegel; viaggiatore in Italia sul modello di Goethe, ma con lui freddo per non dire ostile; seguace dei fratelli Schlegel, letterario avido di Lessing e di Schiller; autore di un libro di canti che lo lancerà nell’agone artistico romantico berlinese negli anni ’20 dell’800; rivale polemico con von Platen; battezzato cristiano protestante per una carriera prima di avvocato, poi di banchiere; soprattutto visse da giovane nella società filistea prussiana, fra dubbi e critiche dei suoi contemporanei. Poi fu profondamente pentito delle prime scelte di vita e per di più venne perseguitato da Metternich e dal governo di Federico Guglielmo III di Prussia, entrambi ottimi amministratori, ma sordi alle esigenze dei nuovi diritti di libertà politica ed economica nella politeistica costellazione di Stati e Staterelli in cui all’epoca era divisa l’attuale Germania. Di qui il profondo salto di qualità che Heine compì nel 1831, decidendo volontariamente di andare in esilio a Parigi, la città che da tempo lo affascinava culturalmente e politicamente, ma anche l’eden del suo eterno femminino, in quell’unica analogia col vecchio Goethe, da cui riceverà silenzi e battute critiche per interposta persona, salvo a sentirsi apostrofare direttamente come un inutile perdigiorno, nell’unico incontro che ebbero a Weimar, dove il Nostro, con una certa faccia tosta, gli parlava del suo progetto di riscrivere Faust in forma di balletto ….Certamente, il giovane Heine, pupillo dello zio banchiere di Düsseldorf e presidente dell’Unione dei commercianti locali, era espressione cosciente della nuova borghesia produttiva, mentre non sopportava il conservatorismo classico e non più rivoluzionario del Vate di Weimar. Cresceva del pari il suo disprezzo per la stessa classe cui apparteneva: nei Reisebilder – impressioni di viaggio – e nelle sparse poesie – divenuti presto testi di Lieder di successo – con fare esplicito e con una inusitata vena satirica, già nel 1822 si iscrive alla associazione ebraica di cultura e scienze, viaggia in Polonia, pubblica nei piccoli giornaletti locali un resoconto sui primi moti liberali anti prussiani e infine dà alle stampe due ortodosse tragedie romantiche ispirate da Schiller e Byron, Almansor e William Ratcliff, figure romantiche che ritorneranno nell’immaginario artistico di fine ‘800 nell’opera lirica di Mascagni. Al di là delle poesie erotiche per amori spesso contrastati e respinti; la prosa di Heine si specializza nelle cronache di viaggio, nei resoconti un po’ divaganti di incontri un po’ strani – alla maniera di un altro coevo autore, il bavarese Jean Paul Richter – fino ad accettare la fede protestante e ad abbandonare quella ebraica, il cui battesimo fungeva da lasciapassare sociale per esercitare la funzione di avvocato d’impresa, pretesa dallo zio finanziere, cosa che Heine fa mal volentieripur di continuare la vita di figlio di famiglia, fra amico del cuore – un esempio era un altro tragediografo Karl Immermann, a difesa del quale iniziò una famosa polemica con von Platen – donne celebri -perfino la celebre Bettina von Arnim nel salotto berlinese di Rahel Varnhagen – senza contare la nostra Cristina Trivulzio di Belgioioso, conosciuta a Milano nel suo salotto e poi ritrovata nella Parigi liberale e libertina degli anni ’40 dell’800, quando nel 1830 scoppia la Rivoluzione di Luglio a Parigi, mentre la polemica citata con Platen gli scatena fulmini ecclesiastici e conservatori, finiti come è noto con un triste pareggio per ambedue i contendenti. Platen fuggito in Italia e Heine malvisto e censurato dalla polizia politica austriaca e prussiana, respinto da università bavaresi a vantaggio del mediocre e reazionario collega Rückert. Eccolo di fronte al dilemma: vivere da borghese conformista e filisteo, rinunciare alle velleità rivoluzionarie e alla libera poesia di sentimenti e continuare la classica vita quotidiana a casa e ufficio, chiesa e banca, tribunale e circolo borghese, magari con l’amante segreta sul modello di quel Thomas, fondatore di una industria moderna, o di guida di un impero commerciale, che fra poco sarà il personaggio immortalato nei Buddenbrook di Mann. Oppure, scappare a Parigi e fare una vita libera e spensierata come l’amico Alexander von Humboldt gli scriveva negli anni d’oro della prima belle epoque, che Verdi con La Traviata e Puccini con La Boheme, divulgheranno al mondo nei decenni a seguire. Vivere di scrittura e poesie a Düsseldorf e a Berlino era diventato per lui impossibile. Di qui, quel salto di qualità e di vita che nel 1831 gli aprirà un quarto di secolo alternativo e foriero di profetica attività letteraria, tanto che la critica contemporanea lo inquadrerà come moderna e alla quale Wagner, Nietzsche e tutti gli artisti europei e americani, fino a Philip Roth e Pasolini, Vittorini e Calvino fra noi, dovranno pagare un salatissimo pegno.
2. Il mio amico Heinrich Heine: la vie parisienne.
Dallo sbarco nei caffé chantant di Parigi nel 1831, nella monarchia liberale, liberista e libertaria di Luigi Filippo, ma anche nella miseria e nello squallore sociale di Hugo; il poeta non cessò di visitare la Normandia, di frequentare i circoli letterari degli emigrati tedeschi, di conoscere Lassalle, Wagner e il giovane Marx, nonché gli intellettuali locali Balzac, Hugo e la George Sand, di ascoltare Chopin e Liszt, di leggere e commentare Claude Saint Simon, nonché di frequentare politici liberali che gli parlavano delle idee progressiste del giovane erede al trono di Prussia Federico Guglielmo IV, che le lettere dell’amica Bettina presentavano come il Luigi Filippo di una futura Germania unita e democratica. Erano gli anni del suo saggio polemico La scuola romantica, dove la lettura critica della letteratura romantica tedesca contemporanea – dallo stesso Goethe, fino a Börne e Platen – assumeva toni sarcastici e melanconici rispetto alle origini titaniche e libertarie di un Lessing e di un Tieck, un pamphlet contro la deriva conformista e pacifista della classe dirigente borghese, quando nel suo linguaggio ironico postebraico comparivano aggettivi come filisteo, limitato, opportunista, rivolti a caratterizzare una classe ancora statica e conservatrice (il periodo che lui stesso classificò come il biedermeier cioè conformista political correct). Sue poesie sparse entrarono intanto nella pubblicistica francese sul giornale letterario di Parigi, a connotazione internazionale perché letto in Germania, Austria, Inghilterra e Italia, fino alle Americhe e alla Russia, che lo vedono corrispondente dalla Francia su temi culturali, quali la musica, la pittura, la memorialistica e le opere di fantasia, quando spesso rileggeva l’epica classica in chiave realista, avventurosa ed esotica diversa dai primi romantici, da von Arnim a Brentano. Per esempio la riproposizione del mito della Lorelei, fino all’Olandese Volante, che autobiograficamente descriveva come un fantastico maledetto comandante di una nave fantasma. Spirito tragico egli stesso, che amerà e morirà per una donna a sua volta incontrata fra i fiordi norvegesi, con buona pace di Wagner che lo riprenderà musicalmente qualche anno dopo. Eppoi la fede sansimoniana di un Nuovo Cristianesimo sociale rivolto al popolo e la sua prima adesione alla Giovane Germania, che la Belgioioso gli aveva riportato dal Mazzini, altro vigoroso discepolo di Saint Simon. Ai pezzi giornalistici da inviato speciale in Italia – per esempio, di un suo soggiorno a Bologna nel 1942 – vanno aggiunte altre raccolte di poesia – Notti fiorentine – e infine un poema contemporaneo Il Rabbi di Bacherach, una biografia nostalgica di una religione ormai obsoleta che oggi si perpetua dolorosamente nelle opere dei fratelli Singer. Lungo questo venticinquennio di libero e contraddittorio esercizio del pensiero e delle forme nuove di linguaggio poetico – che ormai lo ponevano al pari dello stesso Goethe – un breve, quanto significativo, rapporto di amicizia con Karl Marx, che ha fatto scrivere fiumi di critiche ambivalenti nel secondo dopoguerra del ‘900, specialmente dopo la scoperta di alcune note del filosofo, i Manoscritti economico-filosofici del 1844, editi a Mosca solo nel 1939. Già nel Capitale del 1867, nel libro I nella nota nr. 63, Marx lo definiva un amico nel conflitto col campione della scuola economica conservatrice Jeremy Bentham, mentre nel libro III, alla nota 44, alla luce del Romanzero – altra raccolta di poesie di Heine molto importante dal lato estetico moderno – Marx si domanda ironicamente – proprio alla maniera di Heine – se i commenti tradizionali al Talmud avessero ancora un valore attuale. Ma poi i biografi di Marx e della sua vita privata, insistevano nella notevole indulgenza critica del filosofo per Heine, che con quella penna può scrivere ciò che vuole. E si racconta delle visite personali fra le due famiglie, prima fra tutte l’opera soccoritrice del poeta che di fronte alle convulsioni della figlioletta dell’amico, le fa fare un bagno e le salva la vita. E quindi la testimonianza di Eleonora Marx: Mio padre gli fu sempre grato. Lo amava per le sue opere fin da giovane, lo giudicava con la massima indulgenza e soprassedeva alle sue debolezze politiche. Già, le debolezze: il poeta aveva una coscienza politica, ma non aveva una coscienza di classe e la questione dei territori Slesiani, oggetto di un ode sprezzante e libertaria, che Carducci tradusse con lo spirito anarchico che lo distinse a metà ‘800; Marx la interpretò come una rivolta che minacciava l’intera società prussiana, ormai l’emblema di una comunità disumana. Anzi, Marx cominciava proprio nel 1844 a estendere al proletariato europeo e francese le conquiste sociali del più maturo proletariato inglese sul tema dei diritti civili e del lavoro. Insomma le teorie sansimoniste erano state una condizione necessaria ma non più sufficiente. La libertà di stampa, l’emancipazione della donna, l’abolizione delle costrizioni religiose, la fine dei fidecommessi ereditari, idee che l’amato politico di Heine – Ferdinand Lassalle – difendeva fin dal 1848, anno dell’ultima Rivoluzione Francese. Erano cioè obiettivi che anno dopo anno Marx anteponeva alla vera Rivoluzione, quella economica e dei rapporti di produzione da invertire, decontestualizzando e decostruendo quella società ultraliberista e finanziaria del periodo capitalista pieno in cui viveva l’Europa . Il comunismo economico e politico proposto da Marx e da Engels – entrato nella sfera degli amici esiliati a Parigi negli anni ’40 – ruppe la sintonia fra il poeta e il filosofo. E già nel 1848, nel Manifesto, reminiscenze della satira La Germania di Heine, sembravano chiudere la parentisi di tolleranza politica fra i due, come nel passo quasi satirico sugli aristocratici, ipocritamente portatori di libertà, che nella storia avevano portato per interesse personale le culottes dei poveri proletari, per poi scoppiare a ridere di loro non appena avevano preso il potere col loro rilevantissimo appoggio. Il Romanzero del 1851, simboleggiava nel balletto quasi pornografico del Dottor Faust censurato in Prussia e in Austria non solo per le oscenità rappresentate e l’Atta Troll del 1847 – dove la danza macabra dell’orso russo prefigurava la caduta dello zar – e le Memorie del 1854; non solo propendevano a una riapertura e alla fede religiosa naturale e pura del Cristianesimo delle origini; ma disegnavano una figura complessiva di giornalista arguto e popolare che sa ben cogliere le novità del momento, senza dimenticare gli amori perduti, le vicissitudini politiche e le varie circostanze della vita quotidiana. Prose e poesie di un sarcasmo fra la vita e la morte che solo un analogo principe della battuta fulminante, il Karl Kraus del 1910, riuscì a ribadire traendo folgoranti conseguenze sulla capacità di comunicazione nella odierna società cibernetica. Fu un radical chic secondo la sferzante critica di Marx? Oppure un sarcastico e melanconico cantore di un tempo passato forse mai esistito?
Bibliografia:
Sulla biografia di Heine, vd. MARCEL REICH-RANICKI, Il caso Heine, Giuntina, Firenze, 2007. Per i rapporti fra Heine e la critica letteraria italiana, cfr. PAOLO CHIARINI; Alle origini dell’intellettuale moderno, Roma,1987.
Sui rapporti personali fra Marx e Heine, cfr. FRANCIS WHEEN, Marx, vita pubblica e privata, Mondadori, Milano, 2000.
Sulle critiche ad Heine da parte di Karl Kraus, cfr. Heine e le conseguenze, edizione Graphos, Verona, 1993.
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