Edward Croft-Murray, Mason Hammond, Rodolfo Siviero, Pasquale Rotondi, Emilio Lavagnino, e alcuni altri, sono nomi dimenticati dalla storiografia, eppure se oggi possiamo ancora ammirare dipinti, statue, documenti e testimonianze della storia dell’umanità, lo si deve a loro. Erano i Monuments Men italiani, membri della squadra di esperti americani resi celebri dal film omonimo diretto e interpretato da George Clooney nel 2014.
Monuments, Fine Arts and Archives.
L’operazione di recupero comprendeva squadre di uomini e donne di una quindicina di Paesi diversi riuniti nella cosiddetta Sezione MFAA, “Monuments, Fine Arts and Archives”, letteralmente “Monumenti, Belle Arti e Archivi”, organismo governativo del comando AMGOT (Allied Military Government of Occupied Territories), creato nel 1943 per la protezione dei beni culturali dalla violenza della guerra e la loro restituzione ai legittimi proprietari, fra collezioni private, musei, enti e fondazioni.
Era formato da circa 400 uomini e donne, sia militari che civili, esperti d’arte, critici, impiegati di importanti musei e istituzioni culturali, che dopo il conflitto hanno continuato, in maggior parte, a svolgere incarichi nell’ambito specifico, con ruoli di primo piano nella crescita delle più grandi istituzioni culturali degli Stati Uniti, tra cui la National Gallery of Art, il Metropolitan Museum of Art, l’Isabella Stewart Gardner Museum, e altri hanno intrapreso la carriera politica. L’eredità degli uomini e delle donne che hanno prestato servizio nel MFAA sopravvive attraverso la Monuments Men Foundation for Preservation of Art, organizzazione statunitense fondata dall’autore e filantropo americano Robert M. Edsel, che promuovere ancora oggi la missione MFAA.
Anche prima che gli Stati Uniti entrassero in guerra, professionisti e organizzazioni come l’American Defense Harvard Group e l’American Council of Learned Societies (ACLS) stavano lavorando per catalogare e proteggere le opere d’arte europee in pericolo o in pericolo di saccheggio nazista. I gruppi cercavano un’organizzazione nazionale affiliata ai militari che avesse lo stesso obiettivo. Francis Henry Taylor, direttore del Metropolitan Museum of Art, portò le loro preoccupazioni a Washington. I loro sforzi alla fine convinsero il presidente Roosevelt a formare la Commissione per la protezione e il salvataggio dei monumenti artistici e storici in guerra Aree” il 23 giugno ‘43., più nota come Commissione Roberts, dal nome del so presidente, il giudice della Corte Suprema Owen J. Roberts. Il gruppo, con sede presso la National Gallery of Art di Washington, fu incaricato di promuovere la conservazione dei beni culturali nelle aree di guerra, compresi i teatri operativi europei, mediterranei e dell’Estremo Oriente, a condizione che tali missioni non interferissero con le operazioni militari. Inoltre, la Commissione contribuì a creare la filiale MFAA all’interno delle sezioni degli affari civili e del governo militare degli eserciti alleati, guidata dal maggiore L. Bancel LaFarge.
Nell’ultimo anno di guerra, lo staff MFAA seguiva oltre mille indagini, per un totale di circa cinque milioni di opere d’arte e oggetti culturali rubati a ricchi ebrei, musei, università e istituzioni religiose, e per sei anni dopo la fine del conflitto, un gruppo di circa 60 Monuments Men ha continuato a perlustrare l’Europa, anche se ufficialmente la Sezione MFAA venne sciolta nel giugno 1946.
Le autorità militari non furono sempre collaborative con gli agenti MFAA, tuttavia il comandante in capo in Europa, generale Eisenhower, fu favorevole al loro impiego e prese provvedimenti per facilitare il loro lavoro, stabilendo severissime punizioni per chiunque si fosse reso responsabile di furti, saccheggi o rapine in luoghi di interesse culturale.
Mentre le forze alleate si facevano strada attraverso l’Europa, liberando i territori occupati dai nazisti, Monuments Men erano presenti in numero molto ridotto in prima linea. In mancanza di direttive precise o supervisione, questa manciata di ufficiali faceva affidamento sulla formazione e sull’intraprendenza complessiva per svolgere i propri compiti, poiché non esistevano nemmeno iniziative precedenti. Lavorarono sul campo alle dirette dipendenze dello SHAEF (comando supremo della forza di spedizione alleata in Europa) e sono stati attivamente coinvolti nei preparativi di diverse battaglie, ad esempio in occasione degli scontri per la liberazione di Firenze, utilizzata dai nazisti come centro di rifornimenti per la sua posizione centrale. Le truppe alleate si affidarono a fotografie aeree fornite dal MFAA che erano contrassegnate da monumenti di importanza culturale in modo che i piloti potessero evitare di danneggiarli durante le incursioni.
Quando si sono verificati danni ai monumenti, il personale dell’MFAA ha lavorato per valutare i danni e guadagnare tempo per l’eventuale lavoro di restauro che sarebbe seguito. L’ufficiale addetto ai monumenti Deane Keller ha avuto un ruolo di primo piano nel salvare Pisa. Keller ha guidato una squadra di truppe e restauratori italiani e americani nel recupero dei frammenti rimanenti degli affreschi e nella costruzione di un tetto temporaneo per proteggere la struttura da ulteriori danni. Innumerevoli altri monumenti, chiese e opere d’arte sono stati salvati o protetti dal personale MFAA. Entrando frequentemente nelle città e nelle città liberate prima delle truppe di terra, i Monuments Men hanno lavorato per valutare i danni e fare riparazioni temporanee prima di passare con gli eserciti alleati alla conquista di nuovi territori.
Due ufficiali MFAA furono uccisi in Europa, entrambi vicino alla prima linea dell’avanzata alleata in Germania. Il capitano Walter Huchthausen, studioso e architetto americano assegnato alla 9a Armata, morto nell’aprile 1945 a nord di Essen, in Germania. Il maggiore Ronald Edmond Balfour, studioso britannico assegnato alla 1a Armata canadese, fu ucciso nel marzo ‘45 da un’esplosione a Cleves, in Germania.
Le forze alleate in Europa hanno poi scoperto nascondigli con tesori inestimabili. Molti furono il prodotto del saccheggio di Adolf Hitler, e soprattutto di Hermann Goring. Altri erano stati legittimamente evacuati dai musei per la custodia. I Monuments Men si occuparono del lungo e minuzioso lavoro di catalogazione dei beni ritrovati.
In Italia, i funzionari dei musei avevano inviato i beni in varie località di campagna, come la villa toscana di Montegufoni, che ospitava alcune delle collezioni fiorentine. Mentre le forze alleate avanzavano attraverso l’Italia, l’esercito tedesco si ritirò a nord, rubando dipinti e sculture da questi depositi. Quando le forze tedesche si avvicinarono al confine austriaco, furono costrette a immagazzinare la maggior parte del loro bottino in vari nascondigli, come un castello a Campo Tures e in una cella della prigione di San Leonardo.
Dal marzo ‘45, le forze alleate iniziarono a scoprire depositi nascosti in quella che divenne la più grande caccia al tesoro della storia. Nella sola Germania, le forze statunitensi hanno trovato circa 1.500 depositi di arte e oggetti preziosi, saccheggiati in tutta Europa, oltre a collezioni museali tedesche e austriache che erano state evacuate per custodia. Anche le forze sovietiche fecero scoperte, come i tesori dello straordinario Museo dei Trasporti di Dresda.
Molti nascondigli furono rivelati dal generale delle SS Karl Wolff, plenipotenziario in Italia, come merce di scambio durante le trattative di resa con l’OSS. (operazione Sunrise). Questi includevano i contenuti dei palazzi degli Uffizi e Pitti con dipinti di Tiziano e Botticelli.
Alcuni depositi scoperti dalla 101a Divisione aviotrasportata americana in Germania, più di 1.000 dipinti e sculture rubati dal Reichsmarschall Goring. Il deposito era stato trasferito dalla sua tenuta di campagna, Carinhall, nell’aprile ’45; a Bernterode gli americani hanno trovato quattro bare contenenti i resti dei più grandi leader tedeschi, inclusi quelli di Federico II di Prussia e il feldmaresciallo Paul Von Hindenburg. Nella miniera sono stati trovati anche 271 dipinti, inclusi ritratti di corte del palazzo Sanssouci a Potsdam, nascosti dietro una porta chiusa a chiave e un muro di mattoni spesso quasi un metro e mezzo; a Merkers, nella miniera Kaiserode, le avanguardie della 3a Armata americana del generale Patton nell’aprile 1945, scoprirono l’oro della Reichsbank, insieme a 400 dipinti dai musei di Berlino e numerose altre casse di tesori. Scoperte più tristi includevano oro e oggetti personali delle vittime dei campi di concentramento nazisti. Al castello di Neuschwanstein sono stati trovati oltre 6.000 oggetti rubati dall’ERR (Einsatzstab Reichsleiter Rosenberg, la task force di Alfred Rosenberg che si occupava del saccheggio degli ebrei) da collezionisti privati in Francia, inclusi mobili, gioielli, dipinti e altri oggetti. I Monuments Man del capitano James Rorimer supervisionarono l’evacuazione del deposito, che conteneva anche molti documenti riservati dell’ERR. Nei presso di Altaussee, in Austria, in un vasto complesso di miniere di sale, trasformate in deposito per l’arte rubata dai nazisti, furono scoperti anche fondi provenienti da collezioni private austriache. Solo ad Altaussee sono stati scoperti più di 6.500 dipinti, tesori di proprietà belga come la Madonna di Bruges di Michelangelo rubata dalla Chiesa di Nostra Signora a Bruges e la Pala d’altare di Gent di Jan van Eyck rubata dalla Cattedrale di San Bavone a Gand; e dipinti dal Museo di Capodimonte a Napoli, in Italia, rubati dalla divisione Hermann Goring a Monte Cassino.
A San Leonardo, in Italia, nella cella della prigione di questa città dell’estremo nord, funzionari alleati hanno scoperto dipinti degli Uffizi che erano stati scaricati in fretta dalle truppe tedesche in ritirata. Tra i capolavori, Botticelli, Filippo Lippi e Giovanni Bellini.
All’inizio del maggio ‘45, il tenente colonnello Geoffrey Webb, capo dell’MFAA britannico presso il quartier generale di Eisenhower, propose alle forze statunitensi di preparare rapidamente edifici in Germania in modo che potessero ricevere grandi spedizioni di opere d’arte e altri beni culturali trovati nei numerosi depositi. Eisenhower ordinò di iniziare immediatamente a preparare tali edifici, ordinando che gli oggetti d’arte fossero gestiti solo dal personale dell’MFAA. Era difficile trovare luoghi adatti con pochi danni e uno spazio di archiviazione adeguato.
Nel luglio ‘45, le forze statunitensi avevano stabilito due punti di raccolta centrali all’interno della zona di occupazione americana in Germania: Monaco e Wiesbaden. Furono anche istituiti punti di raccolta secondari in varie città tedesche, tra cui Bad Wildungen, Heilbronn, Marburg, Norimberga e Oberammergau. Uno dei più critici nei confronti di questi punti di raccolta secondari era a Offenbach, dove i funzionari elaboravano milioni di libri, archivi, manoscritti, oggetti ebraici come i rotoli della Torah e proprietà sequestrate dai nazisti alle logge massoniche. Nell’estate ‘45, il capitano Walter Farmer divenne il primo direttore del punto di raccolta.
Una volta che un oggetto arrivava al punto di raccolta, era registrato, fotografato, studiato e talvolta conservato in modo che potesse essere restituito al Paese di origine prima possibile. Alcuni oggetti erano facilmente identificabili e potevano essere rapidamente restituiti, come l’altare Veit Stoss della Basilica di Santa Maria a Cracovia, che era stato scoperto nel castello di Norimberga. Altri, come dipinti non contrassegnati o raccolte di biblioteche, erano molto più difficili da elaborare.
Vista la mole di materiale da gestire, l’organizzazione MFAA venne ampliata, dal punto di raccolta centrale di Monaco (MCP): vi era un ufficiale responsabile per i monumenti, il tenente Craig Hugh Smyth, che ha fondato l’MCP nel luglio 1945 nella Fuhrerbau, che ospitava l’ufficio di Hitler, trasformandola in un deposito d’arte funzionale completo di studi fotografici e laboratori di conservazione. Questa struttura ospitava principalmente l’arte rubata dall’ERR da collezioni private e la collezione di Hitler trovata ad Altaussee.
Vi era poi il Wiesbaden Collecting Point (WCP), l’ufficiale, capitano Walter Farmer, ha contribuito a fondare questa struttura nel luglio 1945. L’arte dei musei di Berlino e altri oggetti trovati nelle miniere di Merkers furono raccolti qui, come le collezioni museali conservate a Siegen e Grasleben.
Inoltre funzionava l’Offenbach Collecting Point (OCP), noto anche come Offenbach Archival Depot, istituito nel luglio 1945 presso l’edificio della famigerata IG-Farben, sul fiume Meno appena fuori Francoforte. Offenbach fungeva principalmente da deposito archivistico. Poiché l’OCP ospitava la più grande collezione di beni culturali ebraici al mondo, inclusi l’intero patrimonio della Biblioteca Rothschild di Francoforte e oggetti culturali delle logge massoniche, le restituzioni erano complicate. Molti dei proprietari erano vittime dell’Olocausto, senza lasciare nessuno in vita per perseguire i reclami. La struttura fu chiusa nel ‘48 e gli oggetti rimanenti non reclamati trasferiti a Wiesbaden.
Occupazione del Giappone.
Mentre la guerra si avvicinava alla fine in Giappone nel ‘45, i Monuments Men maggiori George Stout e Laurence Sickman raccomandarono di creare una divisione MFAA per l’Estremo Oriente. Di conseguenza, fu creata la Divisione Arti e Monumenti, Sezione Informazione Civile – Comando Supremo di Tokyo. Stout fu capo della Divisione dall’agosto ‘45 circa fino alla metà del ‘46. Uno dei principali animatori della Sezione MFAA Tokyo fu Langdon Warner, archeologo e curatore di arte orientale al Fogg Museum di Harvard. Altri membri erano Howard Hollis, il tenente colonnello Harold Gould Henderson, i tenenti Sherman Lee e Patrick Lennox Tierney, e molti direttori di musei americani e storici dell’arte orientale e impiegati della National Gallery of Art, del Metropolitan Museum of Art, del Museum of Modern Art, Toledo Museum of Art e Nelson-Atkins Museum of Art. Molti altri erano insegnanti in prestigiose università come Harvard, Yale, Princeton, New York University, Williams College e Columbia University. All’apice dell’attività, lo staff MFAA contava personale proveniente da 13 Paesi diversi.
In Italia.
Essendo uno dei Paesi con più opere d’arte in assoluto, l’Italia faceva gola a molti gerarchi e organizzazioni per il saccheggio. Nell’autunno del 1943 il capitano Edward Croft-Murray sbarcò a Trapani, in Sicilia. Era un ufficiale diverso dalle altre decine di migliaia di uomini che dal 10 luglio di quell’anno erano sbarcati sulla stessa spiaggia. Le sue armi erano taccuini, matite e guide Baedeker. Aveva 36 anni, quindi era abbastanza anziano per gli standard dell’esercito. Nella vita civile, che aveva lasciato pochi anni prima, era un curatore della sala delle stampe del British Museum, oltre che un collezionista di strumenti musicali antichi. Croft-Murry, con i suoi taccuini, era il primo ufficiale del “Monuments, Fine Arts, and Archives Program” (MFAA) a sbarcare in Italia. Il suo compito, insieme a quello di altri 26 ufficiali che sarebbero arrivati in Italia prima della fine della guerra, era proteggere, ristrutturare e recuperare il patrimonio artistico italiano in zona di guerra.
Lo Smithsonian Magazine ha pubblicato un lungo articolo in cui si concentra solo su alcuni di questi “Monuments men”, proprio quei 27 che dovettero occuparsi dell’Italia, il luogo dove il lavoro era più difficile, perché di monumenti da proteggere ce ne erano molti. L’idea che la guerra non solo dovesse risparmiare il patrimonio artistico e culturale, ma che addirittura uomini, energie e mezzi dovessero essere spesi a questo scopo, era nuova negli anni Quaranta.
I Monuments Men dovettero affrontare un numero incredibile di difficoltà. La più grande, naturalmente, era la guerra in corso. La priorità degli alti comandi era fornire risorse alle truppe di prima linea e questo significava che c’erano pochi veicoli e benzina da risparmiare per i Monuments e le loro attività. Ad esempio, per buona parte della campagna di Sicilia il capitano Mason Hammond, professore di latino ad Harvard, fu costretto a girare su una vecchissima automobile Balilla italiana. Nonostante queste difficoltà, i Monuments, con l’aiuto dei soprintendenti alle belle arti e di gruppi di operai italiani, riuscirono a mettere in sicurezza decine di siti e a iniziare la ricostruzione di monumenti importantissimi che sembravano ormai perduti, come la Cattedrale di Palermo. Uno dei fallimenti dei Monuments Men avvenne nel gennaio ’44, quando le truppe americani che avanzavano lungo la costa tirrenica dell’Italia e si trovarono davanti una delle posizioni meglio fortificate di tutta Italia, Montecassino.
I tedeschi avevano fortificato la città e le montagne circostanti, tra cui il monte su cui sorge l’abbazia di Montecassino, uno dei monasteri più antichi del mondo, fondato da San Benedetto da Norcia nel VI secolo. Conteneva una delle biblioteche più antiche e importanti dell’Occidente oltre che un’immensa collezione di opere d’arte (molte delle quali vennero portate via dall’esercito tedesco prima dell’inizio della battaglia e vennero più tardi recuperate proprio dai Monuments Men).
Il monastero, come confermato nel dopoguerra, non venne mai occupato da truppe tedesche all’inizio della battaglia, la zona era facile da difendere anche senza occuparlo. Per un mese gli alleati cercarono di prendere la vallata, ma senza successo. Grazie alle loro posizioni sulle colline intorno al monastero, i tedeschi erano sempre in grado di osservare i movimenti degli Alleati che continuavano ad essere colpiti da bombe e artiglieria senza capire da dove provenissero. Molti soldati in quei giorni descrissero l’effetto psicologico che aveva su di loro il monastero, con la sua forma massiccia e minacciosa. Alla fine, a metà febbraio, i comandanti locali persuasero il generale Mark Clark a ordinare la distruzione del monastero. Il 15 febbraio 1944 circa duecento bombardieri attaccarono l’abbazia, sganciando oltre mille tonnellate di bombe.
Il monastero venne completamente sventrato, anche se, incredibilmente, alcune delle mura esterne rimasero in piedi. La distruzione del monastero non cambiò le sorti della battaglia, anzi. Con l’edificio distrutto, le truppe tedesche poterono finalmente occupare la sommità della collina e trincerarsi tra le macerie. Gli alleati dovettero combattere altri tre mesi per riuscire finalmente ad aggirare la posizione e costringere i tedeschi a ritirarsi. Fortunatamente la maggior parte dei documenti era stata portata in salvo, ma l’edificio originale venne completamente distrutto e quello che si può vedere ora è una ricostruzione, realizzata tra il 1948 e il 1955. Roma venne liberata il 4 giugno e gli americani trovarono una città quasi priva di danni (il primo bombardamento, uno dei pochi, fu quello del quartiere San Lorenzo). Per qualche tempo i Monuments Men si stabilirono in città, frequentando la comunità di intellettuali romani che non vedeva l’ora di riprendere la vita normale, e aiutarono anche ad organizzare una mostra di 48 quadri a Palazzo Venezia nell’agosto del 1944. Tra i vari Monuments, Croft-Murray era il più apprezzato perché “rideva e gesticolava come un italiano”.
L’ultima fase della campagna, nell’estate e inverno del ‘44, fu la più importante: gli alleati stavano entrando in Toscana e i Monuments Men sapevano che sarebbe stato uno delle zone dove ci sarebbe stato più lavoro da fare. In realtà, tutto dipendeva dalle decisioni dei tedeschi. Dove sceglievano di ritirarsi i Monuments Men trovavano città, come Siena e Roma, praticamente illese. Dove invece decidevano di trincerarsi e resistere, come ad Arezzo, monumenti, chiese e musei finivano devastati. In certi casi la distruzione era meditata, come quando ritirandosi da Firenze i tedeschi fecero saltare in aria tutti i ponti sull’Arno (tranne Ponte Vecchio).
I Monuments Men vennero aiutati dai sopraintendenti alle belle arti e dai nobili toscani che, con l’avvicinarsi della linea del fronte, aveva spostato decine di opere d’arte e le avevano nascoste nei castelli della campagna. In questa fase, finalmente dotati di jeep americane e di benzina sufficiente, i Monuments Men si spostavano da un borgo all’altro, da un castello a quello vicino, cercando e catalogando le opere sparite dai musei. Soltanto a Firenze ritrovarono circa tremila casse di dipinti, sculture, libri e interi archivi. I Monuments Men trovarono statue di Michelangelo impacchettate nel garage della Villa di Torre a Cona, poco lontano da Firenze. Centinaia di dipinti degli Uffizi e della pinacoteca di Palazzo Pitti vennero ritrovati nel castello di Montegufoni.
Per compiere questi recuperi bisognava spesso arrivare pericolosamente vicino alla linea del fronte e rischiare di essere colpiti dall’artiglieria tedesca o, altrettanto spesso, da quella alleata. Ma anche lontano dalla linea del fronte c’erano parecchi pericoli. Le strade erano minate e spesso le case e i castelli venivano riempiti di trappole esplosive. Una delle preferite dai genieri tedeschi consisteva in una piccola carica esplosiva attaccata a un quadro lasciato deliberatamente storto. La filosofia di questo tipo di trappola era che quando i semplici soldati entravano in una stanza con un quadro storto l’avrebbero ignorato. Ma un ufficiale inglese, con la sua tipica pignoleria, non avrebbe resistito alla tentazione di raddrizzarlo, innescando così la trappola. Uno dei Monuments Men scrisse a casa per rassicurare sulla sua prudenza: “Non raddrizzo mai i quadri”.
Il lavoro dei Monuments Men non era tutto adrenalina. Gran parte dei compiti furono lunghi e noiosi, come raccogliere frammenti di un soffitto crollato o compilare lunghe liste di opere d’arte smarrite e ritrovate. In circa due anni di guerra, i Monuments Men, insieme ai soprintendenti e agli operai italiani, cominciarono i lavori di conservazione e di restauro in più di 700 siti diversi. Inoltre rintracciarono e riportarono nei musei migliaia di opere d’arte. Oggi la loro memoria viene tutelata da una fondazione che ha un sito internet ricco di documenti. Finita la guerra, tutti i Monuments Men abbandonarono la carriera militare e ritornarono alla loro vita civile, a volte raggiungendo anche posizioni importanti nel mondo accademico e museale dei loro paesi. Come scrive lo Smithsonian, le loro memorie e le loro relazioni si tingono di malinconia quando arrivano a raccontare il momento del loro addio all’Italia. Ma non tutti se ne andarono per sempre. Il tenente Frederick Hartt, storico dell’arte che insegnava a Yale e aveva studiato con il grande Erwin Panofsky, ritornò a Firenze nel 1966 per aiutare i suoi amici conosciuti in tempo di guerra a salvare libri e opere d’arte dall’alluvione. Come molti altri Monuments Men, alla sua morte Hartt venne seppellito a Firenze, nel cimitero di Porte Sante, nell’abbazia di San Miniato.
Rodolfo Siviero.
Nato nel dicembre 1911 e morto nell’ottobre 1983, fu il più celebre fra i Monuments Men italiani e non solo. Rodolfo Siviero era figlio di un sottufficiale dei Carabinieri e si appassionò di arte frequentando Pisa e Firenze, dove compì gli studi per diventare critico d’arte. Fra un contatto e l’altro, e l’ambiente studentesco, aderisce al fascismo con la convinzione che solo un regime possa rendere migliore il Paese, e finisce per diventare un agente del SIM, Servizio Informazioni Militare. Nel 1937 parte per Berlino, sotto la copertura di una borsa di studio in storia dell’arte, per raccogliere informazioni sul regime di Hitler e sui progetti di unificazione dell’Austria al Reich.
Nei primi anni del secondo conflitto mondiale, l’avversione di Siviero per il fascismo è alimentata dalla sua contrarietà di fronte al flusso di opere d’arte che i gerarchi nazisti, con la compiacenza del governo fascista, esportavano illegalmente dall’Italia per arricchire le loro collezioni. Con l’occupazione tedesca seguita all’armistizio dell’8 settembre 1943, il trafugamento d’opere verso la Germania diventa una vera e propria razzia.
Dopo l’armistizio, completamente disgustato dalla complicità e dalla sottomissione della Repubblica Sociale, Siviero si schiera con il fronte antifascista, e cura le informazioni sull’unità Kunschutz, che i tedeschi avevano formato proprio per inventariare il patrimonio storico-culturale, poi utilizzato per saccheggiare l’Europa. A Firenze stabilisce il proprio comando in una casa di un conoscente e storico dell’arte, Giorgio Castelfranco (oggi Casa Siviero) da dove coordina alcuni contatti con l’intelligence. Viene arrestato nell’aprile ’44 e finisce nelle grinfie della tristemente celebre Banda Carità, nelle cantine della funesta Villa Triste di via Bolognese, dove viene torturato ma senza esito. Resiste agli interrogatori e grazie a contatti con alcuni ufficiali della RSI (che in realtà facevano il doppio gioco con gli alleati) viene liberato e riprende l’attività, ottenendo anche importanti successi, come impedire alla Kunschitz di confiscare L’Annunciazione del Beato Angelico, fra gli oltre 200 capolavori prelevati dagli Uffici e da altri siti archeologici e musei del Paese.
Per l’attività svolta, nel 946 il presidente del Consiglio Alcide de Gasperi lo nomina ministro plenipotenziario, affidandogli l’incarico di dirigere una missione diplomatica presso il governo militare alleato in Germania con lo scopo di stabilire il principio della restituzione delle opere trafugate all’Italia.
Riportate in Italia la maggior parte delle opere, Siviero occupa sistematicamente di ricercare, per conto del Governo, tutte le opere che rubate ed esportate dall’Italia, non nascondendo però la poca attenzione che le istituzioni governative dedicano al problema del recupero del patrimonio artistico.
Negli anni ‘70 diventa presidente dell’Accademia delle Arti del Disegno, fondata dal granduca Cosimo I de’ Medici con la sovrintendenza di Giorgio Vasari e rimarrà tale, organizzando eventi di rilevanza internazionale per la tutela delle opere d’arte, fino al 1983 anno della morte, e della sepoltura nella cappella di San Luca dell’Accademia delle Arti all’interno del convento della Santissima Annunziata di Firenze.
Quello che in effetti Rodolfo Siviero riuscì a fare, in un’Italia dominata dal caos, ha del sorprendente, pur essendo ricordato principalmente per il salvataggio dell’Annunciazione di Beato Angelico.
Nel ‘44 Siviero viene a conoscenza della richiesta di Hermann Goring di entrare in possesso dell’opera e, con l’aiuto di due frati del convento di piazza Savonarola, riesce a nasconderlo ai militari tedeschi incaricati del prelievo. Attualmente il dipinto è conservato nel museo della basilica di Santa Maria delle Grazie a San Giovanni Valdarno. Durante l’occupazione Siviero salva anche i quadri di De Chirico prelevandoli con uno stratagemma dalla sua villa di Fiesole poiché il pittore fi costretto a fuggire insieme alla moglie per evitare i rastrellamenti nazifascisti.
Il 3 luglio ‘44 i tedeschi trafugano in Alto Adige oltre 200 dipinti della Galleria degli Uffizi che erano stati spostati in varie località della campagna fiorentina. Tra luglio e agosto ‘44 i tedeschi prelevano sculture degli Uffizi, del Museo dell’Opera di Santa Maria del Fiore e di altri musei fiorentini per portarle in Alto Adige nel castello di Campo Tures. Il servizio informativo di Siviero controlla questi movimenti contribuendo al ritrovamento da parte degli alleati, che nel ‘45 restituiscono a Firenze tutte le opere.
Siviero ottiene anche la restituzione delle opere dei musei napoletani che i tedeschi avevano trafugato nel ‘43 dal deposito nell’Abbazia di Montecassino. Tra queste la Danae di Tiziano del Museo di Capodimonte che era stata regalata a Goering per il suo compleanno nel gennaio del 1944. Inoltre molte sculture del museo archeologico nazionale di Napoli. Tra queste l’Apollo di Pompei e l’Hermes di Lisippo. Il 16 novembre 1948 Siviero riesce a riportare in Italia la copia Lancellotti del Discobolo di Mirone, insieme ad altre 38 opere esportate illegalmente in Germania fra il ‘37 e il ‘43 con la complicità del regime fascista. Tra le più importanti, la Leda di Tintoretto, e il Ritratto di Giovanni Carlo Doria a cavallo di Rubens. La Madonna con Bambino del Masaccio è recuperata da Siviero una prima volta nel ‘47 e successivamente nell’aprile ‘73 a seguito del suo avvenuto nel marzo 1971. Il 16 dicembre 1953, a Bonn, Siviero firma un accordo con Friedrich Jantz che gli consente di riportare in Italia tutte le altre opere trafugate in Germania durante la seconda guerra mondiale.
Nel 1963 ancora Siviero recupera a Los Angeles le due tavolette raffiguranti le Fatiche di Ercole (Ercole e l’idra ed Ercole e Anteo) del Pollaiolo, che non erano state ritrovate insieme agli altri capolavori degli Uffizi portati in Alto Adige, perché dei soldati tedeschi le avevano nascoste e poi erano state trafugate negli Stati Uniti.
Pasquale Rotondi ed Emilio Lavagnino.
Con Siviero, va ricordato Pasquale Rotondi (1090-1991), la cui vicenda è rimasta sconosciuta per oltre 40 anni: il salvataggio di circa diecimila opere d’arte dalla distruzione e dal saccheggio delle truppe naziste. Laureato in Lettere a Roma, prima della guerra fu ispettore della Sovrintendenza dell’Arte Medievale e Moderna ad Ancona, poi direttore della Galleria Nazionale di Arte Antica a Roma.
Nel ’39 fu incaricato dal ministro dell’educazione nazionale Giuseppe Bottai, su suggerimento del funzionario (e amico di Rotondi) Giulio Carlo Argan, di localizzare, trasportare e custodire in un luogo sicuro un cospicuo numero di opere d’arte per proteggerle dai rischi della guerra imminente. Tale operazione di salvataggio, condotta nella massima segretezza nel corso dell’intero conflitto, permise di salvaguardare quello che fu definito il raggruppamento di opere d’arte più importante mai realizzato al mondo.
Al termine del conflitto rimase alcuni anni ad Urbino, continuando a svolgere il lavoro di sovrintendente ed insegnando Storia dell’Arte nella locale Università. Dal49 al ‘61 fu sovrintendente a Genova, contribuendo alla ricostruzione della città dopo la guerra. In questo periodo pubblicò diversi libri.
Nel 1961 fu direttore dell’Istituto Centrale di Restauro di Roma, si fece in tale veste tra i promotori del salvataggio delle opere d’arte danneggiate dall’alluvione di Firenze del 1966. Dopo essere andato in pensione, nel 1973, venne nominato dalla Città del Vaticano “consulente tecnico per i restauri delle Gallerie e dei Musei pontifici”, ed è mentre seguiva in prima persona il restauro degli affreschi michelangioleschi della Cappella Sistina che morì in un incidente nel 1991, a 81 anni, investito nel centro di Roma da una moto di grossa cilindrata.
Scartata Urbino poiché sede di un grande deposito dell’aeronautica, facendo così cadere l’ipotesi di dichiarare Urbino “Città aperta, Rotondi si occupò di trovare luoghi idonei alla custodia, come la Rocca di Sassocorvaro nel Montefeltro, Palazzo dei Principi di Carpegna, e i sotterranei della Cattedrale e del Palazzo Ducale di Urbino. Al diffondersi della notizia tra gli addetti ai lavori, le opere da nascondere cominciano ad arrivare dai musei e dalle chiese di Venezia, Urbino, Pesaro, Fano, Ancona, Lagosta, Fabriano, Jesi, Osimo, Macerata, Fermo, Ascoli Piceno. Nei successivi anni furono nascoste oltre 7.800 opere, fra le quali capolavori di Giorgione, Giovanni Bellini, Piero della Francesca, Tiziano, Raffaello e molti altri. La vicenda venne scoperta nel 1984. Con l’8 settembre, dopo la firma dell’armistizio in Itali arrivarono gli uomini del Kunschutz comandato dal colonnello delle SS Alexander Langsdorff, scatenati alla caccia di capolavori artistici con una lista ben compilata dal maresciallo Goring, che già si era appropriato, fra altre opere, di dipinti di Tiziano e Tintoretto. Rotondi decise di coinvolgere l’amico tassista Augusto Pretelli, che caricò la macchina con le opere di formato adatto al portabagagli e le portarono nella casa di campagna di Rotondi. Il professore e sua moglie decisero di conservare tutto sotto il letto, chiudendosi a chiave nella loro stanza per sottrarsi alla curiosità delle due figlie. Le migliaia di opere rimaste nei ricoveri andavano comunque spostate al più presto: il sovrintendente Rotondi decise allora di approfittare della richiesta di restituzione delle opere ecclesiastiche da parte del Patriarca di Venezia al vescovo di Urbino per trasferirle nel Palazzo Ducale della città. Le Ss avevano accettato di restituire solo le opere appartenenti al Vaticano ma, non essendoci alcuna etichetta sulle casse che le contenevano, Rotondi riuscì a trasferirle tutte nei sotterranei del Palazzo Ducale.
Marino Lazzari, Giulio Carlo Argan e Emilio Lavagnino sono solo alcuni dei funzionari del ministero dell’Educazione Nazionale che lavorarono per convincere il Vaticano a nascondere parte del tesoro affidato, fino a quando lo Stato Pontificio non acconsentì a dare ricovero a buona parte delle opere d’arte. L’ispettore centrale del Ministero, Emilio Lavagnino, arrivò a Roma nel dicembre 1943, con una scorta armata e un ufficiale tedesco come garante in caso di controllo, per trasportare in Vaticano le casse di opere d’arte. L’operazione venne completata il 16 gennaio 1944.
Lavagnino fu, insieme a Rotondi e Siviero, il Monuments Man più attivo in quei mesi. Dopo il rifiuto di legarsi alla RSI, fu messo forzatamente in pensione, ma non rinunciò e attraversava tutto il Lazio a bordo di una Topolino per recuperare opere d’arte in pericolo. Grazie ai contatti in Vaticano, portò in salvo circa 700 casse di opere d’arte, fra cui la Pietà e la Flagellazione di Sebastiano del Piombo, e contribuì a spostare tutte quelle sotto la responsabilità di Rotondi nei depositi più sicuri della Santa Sede.
Bibliografia:
Paolucci, Stefano. I Monuments Men ai Colli Albani.
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