Un conflitto, apparentemente basato sul controllo di gas e petrolio, in realtà è incentrato sullo sfruttamento dell’acqua, la nuova frontiera della diplomazia e dei conflitti del terzo millennio. Di Lorenzo Utile.
Siamo ormai abituati a ricondurre il motivo scatenante di un conflitto, come può essere quello in corso in Ucraina, a motivazioni di ordine prevalentemente economico, basato sugli equilibri del commercio di petrolio e gas naturale, eppure non si evidenzia mai abbastanza che il vero motivo, nella maggior parte dei conflitti in corso, è il controllo dell’oro blu, cioè l’acqua. Nella fattispecie, l’immenso bacino idrografico del Dnepr e il canale della Crimea settentrionale, obiettivo che per altro Mosca ha raggiunto senza eccessivi sforzi.
Il canale è un’arteria molto importante per l’economia del territorio, e fu realizzato per irrigare le vaste campagne della zona con le acque del Dnepr, grande fiume che praticamente taglia l’Ucraina in due parti. All’epoca, la Crimea faceva ancora parte delle Repubbliche Socialiste Federative Sovietiche, fino al 1954, quando Nikita Krushev la concesse all’amministrazione di Kiev. La costruzione del canale iniziò nel 1957, con un imponente apparato, circa 10mila lavoratori volontari del Komsomol, e con interventi radicali fra il ‘61 e il ’71.
Geopolitica dell’acqua e ricatto politico
Pochi parlano della crisi idrica in Crimea come possibile causa delle minacce russe all’Ucraina, ma dal 2014, anno di occupazione e poi dell’annessione da parte della Russia, la fornitura d’acqua da parte dell’Ucraina alla penisola che si affaccia sul Mar Nero è diventata arma di ricatto politico. La Crimea è un territorio arido che dipendeva fino al 2014 dall’acqua convogliata dal fiume Dnepr, per mezzo del Canale del Nord. Dopo l’annessione, l’Ucraina ha bloccato il flusso e, nel 2017, ha costruito una diga nella provincia meridionale di Cherson.
In Occidente tutto questo è stato mantenuto accuratamente sotto silenzio, perché si vuole tenere l’attenzione internazionale ancorata alla questione petrolio e gas. Non deve quindi sorprendere che una delle prime azioni, all’atto dell’attacco russo all’Ucraina, lo scorso 24 febbraio, sia stata quella di fare saltare in aria la diga sul canale di Perekop, consentendo di fare rifluire l’acqua in Crimea, per poi assicurarsi il controllo del territorio circostante.
La guerra in Ucraina, come molti altri conflitti, hanno uno dei motivi scatenanti fondamentali nel controllo dell’acqua. E il caso Crimea, come il caso Donbass e quello del grande bacino del Dnepr, ne sono un esempio più che evidente.
La geopolitica dell’acqua, o Idropolitica, cioè quella disciplina che analizza le dinamiche politiche, sociali ed economiche collegate alla gestione e allo sfruttamento delle risorse idriche, sono ormai a pieno titolo elementi di conflitto, sia all’interno di uno stato, che fra due o più stati, e sarà sempre più determinante.
Le avvisaglie, per altro, ci sono state, e anche in gran numero, a cominciare da quelle della analista Oksana Ivakhin, ucraina di nascita e ormai in Italia da molti anni, che già nel maggio 2020 avvertiva di come la risi idrica della Crimea rischiasse di diventare l’elemento determinante del cambiamento geopolitico. Per altro, il presidente Zelensky è sembrato inizialmente più aperto a eventuali trattative per un accordo con Mosca sulla compravendita dell’acqua, in particolare perché un tale accordo comporterebbe non indifferenti guadagni, ma la questione del Canale del Nord è considerata da molti politici (e dalla maggior parte della popolazione ucraina) come una sorta di sottomissione e un riconoscimento de facto dell’annessione della Crimea alla Russia, sollevando in tal modo i governo europei e americano dagli obblighi di imporre sanzioni economiche contro il Cremlino.
Posto che Zelensky continua a martellare l’Occidente perché non compri più gas e petrolio russo, lo stesso governo ucraino sta sfruttando tutt’ora la compravendita di gas e petrolio con la Russia, e incamera cospicui proventi in royalties per il passaggio dei gasdotti russi sul proprio territorio (circa 1 miliardo di dollari all’anno). Gasdotti che, nella guerra in corso, si fa molta attenzione a non colpire, ma anche l’acqua è da considerare fra le cause delle tensioni tra Mosca e Kiev, solo che se ne parla poco perché il problema non tocca direttamente l’Europa, dimenticando quanto sia universale.
Nel 2019 Federica Mogherini, allora Alto Rappresentante dell’Unione Europea per gli Affari Esteri e la Sicurezza, si dichiarava fortemente contraria all’uso dell’acqua come arma da guerra, garantendo l’azione internazionale della UE nella prevenzione e soluzione dei conflitti. Viene da chiedersi se a Bruxelles si siano dimenticati la promessa, perché il problema non è solo europeo ma globale, e da molti anni esiste la proposta di creare un’Autorità Mondiale sull’acqua che prevenga i conflitti per evitare che l’acqua, bene comune, diventi una merce o, peggio, un’arma, ma nulla è stato ancora concluso.
Sia il presidente russo Vladimir Putin, che quello americano Joe Biden, sembrano quindi sempre più decisi a giustificare le proprie azioni, offrendo una versione mirabilmente distorta della storia.
Il discorso di Putin del 21 febbraio ‘22, con il quale riconosceva le sedicenti repubbliche separatiste del Donbass, ha di fatto aperto il conflitto, ma non rivela solo un etno-nazionalismo che accomuna il presidente russo a molti autocrati moderni, bensì propone una interpretazione del conflitto come conseguenza inevitabile di una contrapposizione con l’Occidente, frutto di una serie di errori fatti durante l’era sovietica. Errori che, a detta di Putin, hanno tradito l’eredità imperiale russa e stanno impedendo una rinascita di Mosca. In questo quadro, la NATO è un ostacolo alla realizzazione di questo programma. Motivazioni troppo poco pragmatiche, se si va ad analizzare, che in realtà hanno radici prettamente economiche: la competizione derivata dal fatto che, nonostante la Russia abbia un territorio molto più vasto, sono stati gli USA a imporsi come prima grandezza mondiale a livello agricolo. Ciò deriva dal fatto che negli Stati Uniti, quasi la metà del territorio nazionale è collegato al bacino idrografico Mississipi-Missouri, con un più vasto sistema di canalizzazione al mondo, in una fortunata combinazione di fertilità, logistica e sistema produttivo, che potrebbe soddisfare una popolazione quattro volte maggiore di quella attuale e con collegamenti diretti sulla costa orientale e su quella occidentale che costituiscono un vantaggio strategico senza rivali.
La Russia, invece, pur essendo geograficamente più estesa e ricchissima di acqua e terre, ha una conformazione che pone difficoltà di sfruttamento molto maggiori, a cominciare dalla latitudine posta molto più a nord e un territorio coperto da permafrost, cioè una zona sostanzialmente congelata e inospitale per l’agricoltura. Solo più a sud, ovvero in Ucraina, è possibile l’agricoltura intensiva, mentre la Russia meridionale e le grandi steppe dell’Asia centrale sono territori aridi, dove solo l’1% dell’estensione geografiche riceve sufficienti piogge. In queste condizioni la maggioranza delle coltivazioni ha bisogno di irrigazione ma, con l’eccezione del Volga, l’80% delle acque dei grandi fiumi russi sfociano nell’Oceano Artico, e non verso sud, dove serve l’acqua.
Secondo la visione putiniana, quindi, è comprendibile che l’Ucraina occupi un posto di riguardo, dal momento che è in maggioranza fertile e coltivabile (grazie al “chernozem”, terreno ricchissimo di materiali organici), oltre al capillare sistema di collegamenti fluviali e alle non indifferenti risorse minerarie, alle infrastrutture industriali e agli sbocchi sul Mar Nero e quindi sul Mediterraneo, che per altro sono già state oggetto di contesa durante il secondo conflitto mondiale. L’Ucraina fa della Russia una potenza agricola di prima grandezza mondiale, ma solo se non gode, al contrario di ciò che stipulò Lenin, di alcun diritto all’autodeterminazione. Insomma, è una delle chiavi fondamentali della potenza russa, a patto di esserne parte integrante.
Naturalmente, Zelensky tutto questo lo sa fin troppo bene, e sa altrettanto bene che la Crimea russa ha bisogno dell’Ucraina per soddisfare i propri bisogni idrici, e soprattutto ha bisogno di quel canale che porta acqua proprio dal grande bacino idrografico del Dnepr.
Canale del Nord, Dnepr e Crimea
Era il periodo in cui il PCUS doveva dare dimostrazione di saper piegare anche l’ostilità della natura, portando l’acqua nelle steppe fino ad allora aride, creando importanti avamposti sul Mar Nero.
Il canale, con un corso principale di 410 km che alimenta una vasta rete di bacini e rami minori, ha trasformato il paesaggio. Per la Russia sovietica fu un trionfo di ingegneria e manodopera che rivaleggiava con la costruzione della ferrovia Baikal-Amur di oltre 4.300km. Per decenni ha fornito acqua alla Crimea, anche dopo lo scioglimento dell’Unione Sovietica. Il canale era utilizzato non solo per l’agricoltura e l’allevamento di pesci, ma anche come fonte di acqua pura per le comunità agricole della Crimea. Dopo che la Crimea è stata annessa alla Russia nel 2014, il canale è diventato motivo di conflitto. L’Ucraina ha bloccato il canale, costruendo una diga vicino al punto in cui esso attraversa l’istmo di Perekop, che separa la penisola di Crimea dalla terraferma.
Gli ucraini sostenevano di aver deciso di chiudere il canale solo perché le autorità russe non pagavano per la fornitura d’acqua; i russi sottolineavano la natura ritorsiva dell’azione. Questo non avrebbe dovuto sorprenderli: grazie alla superiorità militare, la Russia si era impossessata di parti di territorio ucraino, e aveva scatenato la secessione delle repubbliche del Donbass ma, almeno su questo punto, l’Ucraina aveva il coltello dalla parte del manico, costruendo quella che si definisce con i neologismi Idropolitica o Idroegemonia.
Non molti sanno che, a quel punto, il governo di Kiev interruppe il flusso idrico che garantiva oltre l’85% del fabbisogno della regione, lasciando circa due milioni di persone in condizioni di emergenza. La situazione peggiorò ulteriormente quando una formazione paramilitare ucraina fece saltare in aria lunghi tratti di linee elettriche, lasciando la Crimea a fare affidamento unicamente su generatori diesel.
Approfittando della volontà secessionista della Crimea, negli ultimi dieci anni molti cittadini russi vi sono stati trasferiti, nel quadro di una vera e propria politica di colonizzazione, con lo scopo di sostenere la volontà di appartenenza alla Russia, ma portando a una pressione sempre maggiore sulle risorse naturali. Le terre coltivabili si sono ridotte a 12mila ettari dai 130mila del 2013, e in molte delle principali città è stato necessario imporre il razionamento dell’acqua.
Nel 2017, per affrontare il problema dell’energia idroelettrica in Crimea, Mosca e il governo locale filo-russo hanno avviato la costruzione di diverse centrali, scavato nuovi pozzi e operato lavori di deviazione di corsi d’acqua, oltre alla costruzione di un ponte per i trasporti di generi di prima necessità. Successivamente è stato avviato un programma di conversione dell’agricoltura verso consumi d’acqua più contenuti. I problemi idrici sono stati risolti però solo temporaneamente, perché il bisogno d’acqua rimane una questione prioritaria e ancora senza soluzione.
La Russia, inoltre, ha fallito diversi tentativi di trovare fonti alternative e altre risorse idriche, fino ad arrivare al necessario razionamento durante la siccità del 2020, con trasporti d’acqua attraverso il nuovo ponte sullo stretto di Kerç, per altro costato circa 4 miliardi di dollari, e ha stanziato un finanziamento di 680 milioni di dollari che però non ha portato giovamento. Insomma, soddisfare il bisogno d’acqua della Crimea stava costando alla Russia un mare di soldi, anche considerando il fatto che la mancanza d’acqua si ripercuoteva su una lunga catena di fenomeni, fra cui l’aumento dei prezzi dei generi alimentari, anche a causa delle sanzioni imposte da USA ed Europa. Putin, inoltre, vedeva a rischio la promessa con cui aveva assicurato alla popolazione locale un miglioramento delle condizioni di vita sotto l’ala protettrice di Mosca, con una conseguente perdita di prestigio presso la popolazione che aveva scelto l’appartenenza alla Russia.
L’Ucraina è notoriamente in Paese con una grande prevalenza di terre dedicate all’agricoltura, da tempi immemorabili. Una storia che scorre in particolare lungo il grande Dnepr, che taglia in due l’intero Paese, e che si basa su una storica contrapposizione con gli Stati Uniti, ancora non risolta, ma non su base strettamente politica, bensì come risultato di una competizione economica di sistemi geofisici e geopolitici.
Comunque finirà, questo conflitto ha già cambiato gli equilibri geopolitici dell’area, e chi sta manovrando le leve nelle stanze del potere ne è certo perfettamente cosciente.
Il Canale della Crimea, o Canale del Nord, oggi è a secco. Se fino al 2014 (anno dell’annessione alla Federazione russa) il fabbisogno idrico della regione era garantito all’85% dal Canale della Crimea, ora l’approvvigionamento dipende esclusivamente dal Cremlino. In seguito all’occupazione, com’è noto, Kiev ha chiuso i rubinetti e non li riaprirà fino a quando la Crimea non ritornerà a far parte del territorio ucraino: “Niente acqua finché la Crimea non torna ucraina”, ha ribadito Anton Korynevyç, rappresentante permanente di Kiev in Crimea.
È impossibile, quindi, riportare in attività il Canale della Crimea settentrionale, almeno nel momento attuale, perché richiede non solo enormi fondi da parte del Cremlino, paragonabili di fatto al costo di una nuova struttura simile, ma anche un vero e proprio miracolo naturale. Il canale, infatti, è ormai senz’acqua da anni e le sue pareti sono gravemente lesionate per assenza di manutenzione. Inoltre, Kiev sta completando la costruzione di una diga sul canale, che escluderà definitivamente la possibilità di fornire acqua alla penisola.
Le autorità russe locali hanno stanziato miliardi di rubli per la perforazione di nuovi pozzi, e la costruzione di nuove condotte idriche, ma la situazione rimane drammatica, e la Crimea sta subendo le conseguenze non solo dei cambiamenti climatici, ma anche gli effetti di strategie geopolitiche in sospeso da anni e senza soluzione a breve termine.
Da Mosca, le autorità hanno proposto diverse soluzioni. Una di queste è la costruzione di un grande condotto che collegherebbe il territorio russo di Krasnodar alla Crimea, attraverso il ponte sullo stretto di Kerč, ma tale idea è stata accantonata prima ancora che diventasse progetto su carta: secondo gli esperti, il problema non è solo tecnico ma anche naturale, in quanto nel sud del Kuban non ci sono volumi d’acqua tali da garantire il rifornimento della Crimea. A causa della crisi climatica, infatti, i fiumi locali hanno perso la loro portata abituale.
Un’altra soluzione sarebbe la realizzazione di impianti di desalinizzazione, come ne esistono negli Emirati Arabi e in buona parte del Medio Oriente, e che prenderebbero l’acqua dal Mar Nero.
Il governatore della repubblica russa di Crimea, Sergej Aksenov, aveva annunciato che la costruzione degli impianti di desalinizzazione sarebbe potuta iniziare già a inizio 2021, con investimenti decisamente dispendiosi per Mosca, ma fu bloccata dalle veementi proteste da parte della popolazione locale, che riteneva l’impresa altamente nociva per la salute.
Il Cremlino, da parte sua, ha annunciato che senza il Canale del Nord, l’unica alternativa sono gli impianti di desalinizzazione, annunciando lo stanziamento di 3,5 miliardi di rubli per la loro realizzazione, insieme a un progetto da 25 miliardi di rubli per un bacino idrico fra le montagne vicino a Sinferopol, nel sud della penisola, e gli abitanti della Crimea hanno dovuto adattarsi, costretti ad abbandonare le terre coltivate. Ma per quanto tempo ancora potrà andare avanti in questo modo?
Il sogno di un impero agricolo-industriale
Già dai tempi di Josef Stalin (1878-1953) l’acqua diventò la principale leva coercitiva verso repubbliche periferiche come l’Ucraina, sopprimendo qualsiasi ambizione di modernizzazione. Lavori forzati e violenza ridussero la produttività, e l’esproprio della produzione agricola causò immani carestie. La Duma stessa riconobbe la morte di almeno sette milioni di persone, di cui almeno tre nella sola Ucraina. Le cose presero una piega folle dopo la seconda guerra mondiale. Stalin volle accelerare ulteriormente la produzione di cotone e cereali per finanziare lo sviluppo dell’industria pesante. Seguirono anni in cui l’ossessione del dittatore portò alla costruzione di infrastrutture idrauliche gigantesche, descritte da Alexander Solgenitsyn (1918-2008) nella trilogia “Arcipelago Gulag”.
Fu quindi nel periodo stalinista postbellico che si ampliarono gli investimenti nelle infrastrutture idriche dell’Ucraina, in particolare il Canale del Nord della Crimea, che facevano parte dei cosiddetti “grandi progetti di costruzione del comunismo”. Con la morte di Stalin, il suo successore, Nikita Khrushev (1894-1971), abbandonò la collettivizzazione, ma continuò ad espandere l’agricoltura e le sue infrastrutture, e lo stesso fece Leonid Breznev (1906-1982), fino a iniziative paradossali, come quando il Politburo decise che i grandi fiumi non dovessero scorrere verso il Mare Artico dal momento che l’acqua serviva nei territori meridionali, e che la “Natura si fosse sbagliata”, per cui si sarebbero deviati i principali corsi d’acqua verso sud, e più i problemi idrici dell’Ucraina si acutizzavano, più i progetti diventavano surreali, fino a progettare l’esplosione controllata di una bomba nucleare per deviare il corso dei grandi fiumi. Progetto che fortunatamente fu archiviato. Gli investimenti in bonifiche territoriali dell’Unione Sovietica furono fra i più grandi impegni nazionali della sua storia, con l’obiettivo di raggiungere e superare gli Stati Uniti con grandi produzioni agricole che a loro volta finanziassero lo sviluppo industriale, ma la situazione rimase arretrata, anche se il Politburo continuò ostinatamente iniziative del genere.
Tra il 1970 e 1985 le terre bonificate aumentarono da 10 a 15 milioni di ettari, e le zone irrigate da 12 a 20 milioni. Nonostante ciò, la produzione totale di grano rimase stabile a circa 200 milioni di tonnellate all’anno, tuttavia il progetto della grande Russia agricola come motore della grande Russia industriale non riuscì a decollare, fino all’era attuale, all’annessione della Crimea e al terzo mandato presidenziale di Putin il quale, nel dicembre 2015, annunciò che, per la prima volta nella storia del Paese, le esportazioni di generi derivati da terre coltivate avevano superato i 20 miliardi di dollari, quota superiore all’export degli armamenti. In sostanza, Putin evidenziava il solido e basilare legame fra acqua/agricoltura e industria, finanza pubblica, sicurezza alimentare e stabilità sociale. Il significato evidente era che la Russia era una potenza agricola che aveva il giusto e meritato peso geopolitico, che derivava dall’acqua. In teoria, quelle risorse avrebbero permesso di mettere in uso milioni di ettari di terra ancora incolti da quando è crollata l’Unione Sovietica, e Putin descrisse investimenti pesanti in tutte le filiere produttive per spingere il Paese verso la totale indipendenza alimentare, per arrivare a vedere tutti i russi in grado di nutrirsi con le sole risorse nazionali. Il conflitto innescato, ma voluto non solo da Putin, ha quindi radici profonde nella terra e nell’acqua dell’Ucraina. E’ un conflitto che nasce da una lettura distorta di ciò che la Russia è stata in periodi passati, e da una visione irrealistica di ciò che potrebbe essere, ma l’inadeguatezza dell’economia russa non deve illudere che le conseguenze di questo conflitto non saranno globali, non solo per l’impatto sull’architettura delle istituzioni internazionali.
Negli ultimi anni abbiamo avuto esempi più che evidenti di quanto l’acqua influisca sulla politica e soprattutto sulla geopolitica mondiale, soprattutto a partire dal 2010, anno caratterizzato da anomale siccità, fra le più pesanti degli ultimi 500 anni, che ebbero conseguenze drammatiche sulla produzione agricola russa e ucraina. A causa degli incendi, oltre un milione di ettari andò in fumo e in Russia più di 1/3 dei raccolti fu compromesso, e 1/5 in Ucraina. Effetti che oggi pochi ricordano, ma che ebbero effetti devastanti, soprattutto a causa di una impennata dell’aumento dei prezzi, con conseguenze nei Paesi importatori soprattutto in Africa e Medio Oriente.
E’ immaginabile quindi, quali siano i rischi che il conflitto russo-ucraino può avere sulla catena di un mondo ormai globalizzato. Un conflitto che ha radici profonde, strettamente legato all’acqua, più che al gas o al petrolio.
Se nel 2010 l’Ucraina, e non solo, furono colpite da devastanti siccità, i cambiamenti climatici in atto determinarono, nel 2010-21, una ondata anomala di precipitazioni nevose senza precedenti. In Crimea, ad esempio, nota per il clima arido e le scarse precipitazioni, la neve ha letteralmente paralizzato la maggior parte delle attività.
Le autorità russe valutarono se le nevicate senza precedenti fossero in grado di fornire un afflusso significativo di acqua alla popolazione, ma secondo le stime del Centro Meteorologico della Crimea, l’accumulo di neve fu comunque scarso, e il problema idrico non venne risolto.
Quasi priva di risorse idriche naturali, e incapace di far fronte autonomamente al fabbisogno di acqua, la Crimea era di nuovo a un punto critico, e la questione dell’emergenza idrica tornò all’attenzione dei governi di Kiev e Mosca.
Elemento chiave in ogni conflitto
E’ quindi evidente che il controllo delle risorse idriche sia una parte più che fondamentale della partita che si sta giocando in Ucraina, fra Russia, USA ed Europa, a dimostrazione che la posta in gioco supera abbondantemente i confini del governo di Kiev, in quanto di portata mondiale. Tuttavia, la geopolitica dell’acqua, o idropolitica, non è certo l’unica causa scatenante, sebbene la guerra in corso abbia punti focali in diversi bacini idrici fluviali (Dnepr, Canale del Nord) e marittimi (Mar Nero, Mar d’Azov), oltre ad essere anche un elemento sostanziale nelle relazioni fra Russia e le repubbliche separatiste del Donbas, Donestk e Lugansk. Un elemento che ha giocato un ruolo di primo piano anche nella crisi fra Kiev e le stesse repubbliche separatiste.
La strategia del Cremlino, nella guerra in corso, è quella di tagliare in due l’Ucraina, per connettere fra loro le aree russofone e la Crimea, creando una zona-cuscinetto di sicurezza.
Proprio nel territorio fra Kharkhov, Cherson e il Mar Nero si gioca una delle sfide principali della contesa, sul piano della idropolitica.
Da parte ucraina, dal 2014 la strategia di Kiev è quella della massima pressione per separare la Crimea dal resto del Paese, proprio per contrastare la stessa annessione.
Anche nel separatista Donbass la corsa per il controllo delle fonti di acqua potabile della regione, e in particolare dello strategico canale Siverskyi Donets-Donbas, ha un ruolo decisivo nella guerra che ha causato negli ultimi otto anni oltre 15mila morti. Il canale da 300 chilometri, fornisce trecento insediamenti su entrambi i lati della linea di contatto. Di conseguenza il corso d’acqua si trova all’interno della zona di combattimento, quindi sottoposto a continui bombardamenti, con danni irreparabili. A ciò, per completare il quadro, si deve aggiungere il fatto che Donetsk e Lugansk sono ricchissime di impianti minerari, metallurgici, siderurgici, chimici e discariche di sostanze tossiche e radioattive, tutte infrastrutture che necessitano di una manutenzione e di costante manutenzione. Lo sversamento di questo veleni nelle falde acquifere avrebbero conseguenze devastanti.
Nel Donbass, circa quattro milioni di persone, che vivono lungo il grande fiume, sono potenzialmente le prime vittime dei disastri che ne deriverebbero, con conseguente emergenza sanitaria.
L’importanza strategica del maggiore dei canali che riforniscono il Donbass è dimostrata dal fatto ben diversi addetti alla manutenzione sono morti, negli ultimi anni, colpiti da fuoco incrociato o in incidenti, mentre lavoravano a un cruciale processo di manutenzione.
Nell’aprile 2021 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha indicato come estremamente dannosa la distruzione delle infrastrutture idriche in teatri bellici, indicando l’Ucraina, il Sud Sudan e la Siria come zone maggiormente a rischio, anche per i numerosi sabotaggi ai danni della società amministratrice, la Voda Donbasu.
Il canale che porta l’acqua in Crimea, e le contese linee di fornitura del Donbass, sono dunque da valutare come obiettivi chiave nell’attuale offensiva russa. Una strategia di connessione fra Donbass e Crimea passerebbe per il controllo pressoché esclusivo della direttrice da Cherson alle repubbliche separatiste da parte della Russia, della messa in sicurezza dei due canali, dei territori posti a est del fiume Dnepr, e possibilmente della sua stessa foce, per ottenere un controllo sull’oro blu in modo duraturo, condizione fondamentale per portare l’Ucraina orientale nella totale influenza di Mosca. Senza questo risultato, ogni strategia del consenso per la russificazione delle terre strappate da Mosca a Kiev sarebbe fallace in partenza.
In Occidente non se ne sa nulla, ma una situazione simile esiste anche fra Tagikistan e Kirghizistan per il bacino idrico di Golovnoj, che ha già causato diversi scontri armati e vittime, o la drammatica condizione del Kurdistan che il sultano di Ankara, Recep Tayyp Erdogan, sta inesorabilmente consumando, con l’allestimento di dighe lungo l’Eufrate.
L’escalation militare dello scorso mese, con il mancato rispetto del cessate-il-fuoco e la ripresa dei bombardamenti, minaccia nuovamente l’accesso all’acqua potabile e ai servizi sanitari per quattro milioni di persone (inclusi 500mila bambini) nei territori dell’Ucraina orientale.
La guerra in Ucraina ricorda cosa vuol dire riorganizzare il pianeta. Cento anni fa un nuovo ordine mondiale era nato dal disfacimento di quattro imperi: Zarista, Austro-Ungarico, Germanico e Ottomano. Da quel momento, e anche sugli effetti del criminale patto segreto Sykes-Picot del 1916, gravi errori geostrategici, miopia o ignoranza socio-geografica, egoismi, frustrazioni nazionali, dittature, rivalse, nazionalismi, interessi hanno accompagnato l’umanità verso il secondo conflitto mondiale, confermando il quasi totale fallimento del nuovo ordine nato alla fine della Grande Guerra.
L’ultimo esempio europeo dell’utilizzo dell’acqua come arma di guerra, risale al 1992-95, durante l’assedio di Sarajevo. In quel periodo i sistemi di approvvigionamento idrico, e distribuzione di elettricità, furono colpiti e quasi totalmente distrutti, causando la paralisi anche degli ospedali. Anche nel sud-est asiatico, durante la guerra del Vietnam, l’acqua fu un’arma strategica. Più recentemente abbiamo avuto un esempio in Iraq, dove lo Stato Islamico ha occupato prima le dighe sul Tigri e l’Eufrate e i corsi d’acqua, per poi sottomettere Mosul e Al-Raqqa. A conferma, nell’agosto 2014 la coalizione internazionale ha prima ripreso all’Isis la diga di Mosul, poi la città a circa 40 km di distanza. E nel 2014 è iniziata la guerra nello Yemen, e anche lì sono stato messi fuori uso le stazioni di produzione dell’acqua e i siti di trattamento. Una situazione che ha portato a una grave epidemia di colera.
Ora, in Ucraina mediaticamente si sottovaluta la strategia militare russa sulle infrastrutture idrauliche, ma il Canale Nord, che collega il fiume Dnepr alla Crimea, è parte degli obiettivi strategici dell’offensiva militare russa nella parte meridionale del Paese invaso. Così la diga costruita dagli ucraini nel 2014, durante l’annessione della Crimea alla Russia, è stata distrutta il 24 febbraio da genieri militari russi. Questo permise immediatamente all’acqua di defluire nuovamente nel Canale verso la Crimea. Inoltre, i russi hanno occupato il bacino idrico di Kakhovka situato a monte del Canale Nord. Da questa diga si stanno scaricando quantità di acqua tali da allagare la città di Nova Kakhovka. Così, anche i centri abitati intorno a Kherson stanno subendo inondazioni. Questi sabotaggi hanno danneggiato la centrale idroelettrica del sito che regola l’acqua di irrigazione nel sud-est della regione.
E’ quindi oltremodo evidente che il controllo dell’acqua sia un elemento chiave nel determinare l’esito di un conflitto, del quale a farne le spese rimane comunque e sempre la popolazione.
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