I colori delle risorse mondiali sono decisamente cambiati nel corso degli ultimi decenni. Fino a non molto tempo fa si parlava di riserve auree, di “oro giallo”, poi si è imposto il cosiddetto “oro nero”, cioè il petrolio. Oggi si parla sempre di più di “oro bianco”, ovvero l’acqua, che sta diventando l’ago della bilancia dell’economia mondiale, tanto da diventare oggetto quella che oggi è definita “Idropolitica”.
Domenica 20 febbraio 2022 si è svolta l’inaugurazione della Grand Ethiopian Renaissance Dam, o GERD, la grande diga realizzata sul Nilo Azzurro, in territorio etiope, per altro con appalto affidato ad aziende in maggioranza italiane, e successivo avviamento della produzione di energia idroelettrica, la cui costruzione era cominciata nel 2011, e che ha causato pesanti attriti nelle relazioni fra i tre principali Paesi coinvolti: Etiopia, Sudan e soprattutto Egitto, per il quale il Nilo Azzurro è fondamentale dal punto di vista dell’approvvigionamento idrico, e relative risorse economiche.
Con i suoi 6650 km, il Nilo (termine che significa “valle del fiume) è considerato fra i corsi d’acqua più lunghi del pianeta, il maggiore se si considerano i due rami, Nilo Bianco e Nilo Azzurro, di cui il primo è quello più lungo, mentre il secondo apporta un volume d’acqua maggiore, oltre al famoso limo che fertilizza i terreni situati lungo le sue rive.
Il Nilo Bianco nasce nella regione dei Grandi Laghi nell’Africa Centrale, in Uganda, e il Nilo Azzurro, nasce dal Lago di Tana in Etiopia. I Paesi interessati sono quindi Burundi, Tanzania, Rwanda, Sudan, Etiopia, Uganda ed Egitto.
Oltre al Nilo Bianco e al Nilo azzurro, altro importante affluente è il fiume Atbara che, partendo dall’Etiopia a nord del Lago Tana, pur avendo una lunghezza complessiva di 800 km, scorre lungo tutto il suo corso solo durante la stagione delle piogge, e confluisce nel Nilo in una zona a circa 300 km a nord della capitale sudanese.
Acqua, terra e dispute di confine
Com’è noto, il Nilo Azzurro devia il proprio corso a circa 15 km a est della grande diga, per entrare in territorio sudanese, e unirsi al Nilo Bianco non lontano da Khartoum, dando forma al Nilo vero e proprio, che attraversa da sud a nord tutto l’Egitto e sfocia nel Mediterraneo, dando possibilità di attività agricole e di sostentamento vitale in generale, in un territorio sostanzialmente desertico.
Un’opera colossale, in particolare per quanto riguarda la creazione del bacino idroelettrico di riempimento, avviato nel 2020, motivo di maggiore preoccupazione per Il Cairo, che ha lanciato l’allarme per le proprie risorse idriche dal momento che l’Egitto dipende per il 97% del settore specifico, proprio dal Nilo, mentre il Sudan, sebbene speri che il progetto regoli le inondazioni annuali, teme che le sue stesse dighe possano essere danneggiate senza un accordo sull’operatività della GERD.
Negli ultimi tre anni, infatti, l’Egitto ha denunciato la violazione, da parte delle autorità di Addis Abeba, delle norme internazionali che regolano lo sfruttamento del grande fiume, sostenendo che il progetto GERD avrebbe dovuto avere l’autorizzazione del governo egiziano, in relazione agli accordi conclusi con il governo sudanese fin dal 1929 e poi nel 1959. Il primo accordo concedeva all’Egitto potere di veto in merito a progetti infrastrutturali lungo il Nilo, mentre il secondo stabiliva che il 66% delle acque del fiume spettasse all’amministrazione egiziana e il 22% al Sudan e, ovviamente, il restante 12% all’Etiopia, che da parte sua non ha mai voluto riconoscere tali accordi, da momento che Addis Abeba non è stata invitata alla loro stesura, e quindi di fatto legittimata a sviluppare progetti autonomi, senza consultare gli altri due governi coinvolti.
Nel 2010, il governo etiope si era poi accordato con gli altri governi il cui territorio è attraversato dal Nilo, esclusi Egitto e Sudan, per la progettazione di infrastrutture a scopo di sfruttamento, sostenendo che la grande diga non avrebbe avuto particolare impatto sugli equilibri idrici, e quindi economici, sulla quantità di acqua che arriva all’Egitto, contrariamente a quanto sostenuto dal Cairo.
Conseguentemente, è stata coinvolta l’Unione Africana, organizzazione intergovernativa e super partes per i rapporti fra gli Stati del continente, che aveva cercato di mediare affinché fosse raggiunta una soluzione diplomatica di compromesso su tempi e modi per il riempimento del bacino idroelettrico, ma senza successo, poiché l’Etiopia ha rifiutato ogni accomodamento sulle quantità minime di acqua da fare passare attraverso la GERD.
Dal novembre del 2020 i rapporti con il Sudan, a sua volta preoccupato per l’approvvigionamento d’acqua, si sono poi ulteriormente complicati, perché la guerra civile in corso nella regione del Tigrè, nel nord dell’Etiopia, ha portato decine di migliaia di persone a rifugiarsi in Sudan, per altri in una situazione interna tutt’altro che tranquilla, e alle prese con una crisi economica endemica e con continui colpi di stato, non ultimo quello dell’ottobre 2021. Da non dimenticare poi la disputa territoriale fra Etiopia e Sudan, a proposito della regione di Fashaqa, dove la popolazione è a maggioranza etiope, ma rivendicata da Khartoum.
La grande diga, oggi operativa all’84%, è più che mai motivo di contesa fra i tre principali Stato coinvolti, soprattutto a livello economico, per le ricchezze che deriveranno dalla produzione fino a un massimo di 15.700 Gigawatt all’anno.
Violazione degli accordi?
Poche ore dopo l’inaugurazione, avvenuta alla presenza delle massime autorità di Addis Abeba, fra cui il primo ministro Abiy Ahmed, e dell’amministratore delegato di WeBuild, multinazionale italiana ex Salini Impregilo, che ha realizzato la GERD e, in precedenza (nel 2015) anche l’altra grande diga etiope battezzata Gilgel Gibe III, sul fiume Omo, il governo egiziano ha ufficialmente denunciato la violazione dell’accordo siglato nel 2015, che proibisce iniziative unilaterali sull’utilizzo delle acque del Nilo.
Il ministero degli Esteri del Cairo, il 20 febbraio 2022, ha diffuso un comunicato in cui afferma che il riempimento di ben due grandi bacini idroelettrici, nel 2020 e 2021 (per un totale di 74 miliardi di metri cubi), e la conseguente produzione di energia tramite la GERD (progetto del valore di svariato miliardi di dollari), rappresentano iniziative unilaterali che mettono a serio rischio la sopravvivenza delle popolazioni che traggono sussistenza dalle acque del Nilo, e che tale iniziativa è una violazione della “Dichiarazione dei Principi”, sottoscritta nel marzo 2021 da Sudan, Etiopia e dallo steso Egitto.
In base a tale intesa, Il Cairo e Khartoum avevano concesso ad Addis Abeba di costruire l’infrastruttura della grande diga, in cambio dell’impegno di non causare danni ai Paesi a valle. Stando a quanto stabilito dai dieci articoli della dichiarazione, i tre Paesi sono obbligati ad adottare tutte le procedure necessarie per evitare sconvolgimenti durante lo sfruttamento delle acque del Nilo Azzurro e, in caso ciò avvenga, a ridurli al minimo se non a eliminarli, consultandosi con gli altri firmatari.
La “Dichiarazione dei Diritti”, però, è solo una tessera di un mosaico molto più esteso, che si inserisce nella disputa regionale iniziata nel 2011, caratterizzata da diversi accordi, in maggior parte disattesi, e negoziati che, visti i risultati odierni, sono stati di dubbia utilità, considerato il fallimento della mediazione dell’Unione Africana nel raggiungere un compromesso che accontentasse le parti in causa, soprattutto riguardo ai provvedimenti per i riempimenti dei bacini idroelettrici, e il processo produttivo della grande diga.
Da parte delle autorità etiopi, la risposta era prevedibile: la diga GERD sarà punto di riferimento per la produzione di energia per tutta l’Africa Orientale, favorirà la ripresa economica del Paese e non arrecherà danno a Paesi terzi, che potranno a loro volta trarre beneficio dal progetto. Inoltre, il primo ministro etiope ha affermato che le operazioni svolte fino a oggi sono perfettamente in linea con la dichiarazione del 2015, che la GERD dovrebbe essere motivo di cooperazione e non di conflitto, e che l’obiettivo è quello di arrivare a esportare energia anche a beneficio dell’Europa, per ridurre le emissioni di CO2.
Intanto, nelle prossime settimane, è prevista l’attivazione di una seconda turbina, oltre quella entrata in funzione per la produzione di 375 Megawatt, in attesa di raggiungere la completa operatività, come confermato anche dal project manager della GERD, Kifle Horo, il quale ha concluso dicendo che il 100% della produttività sarà raggiunto in un massimo di tre anni, e a un costo complessivo di circa 4,5 miliardi di dollari.
Nel frattempo, il presidente egiziano, Abdel Fatah Al Sisi, ha denunciato la violazione del Diritto Internazionale e ha richiesto l’applicazione delle clausole previste in materia di “Fiumi Transfrontalieri”, evidenziando la necessità di trovare un chiaro accordo vincolante su tutte le clausole e i casi riguardanti la diga, comprese le fasi di riempimento e funzionamento. Tuttavia, diversi analisti ritengono che, al momento, l’attenzione dell’Occidente, e soprattutto degli Stati Uniti, su cui l’Egitto aveva precedentemente fatto affidamento per trovare una soluzione, sia concentrata in particolare sulla crisi ucraina, il che rende marginale la questione della diga africana. Inoltre, secondo alcuni, il presidente Joe Biden, diversamente dal suo predecessore, sembra avere una posizione neutrale sul caso GERD.
In Asia come in Africa
Mentre in Etiopia veniva inaugurata la grande diga sul Nilo Azzurro, negli stessi giorni, a migliaia di chilometri di distanza, è avvenuto un altro fatto decisamente significativo: alla metà del febbraio 2022 la centrale idroelettrica di Xayaburi, nel nord del Laos, è entrata in funzione. Costata diversi miliardi di dollari, e costruita nell’arco di nove anni, è stata finanziata in buona parte dalla Thailandia e sfrutta l’acqua del fiume Mekong, il settimo più lungo del mondo, dodicesimo per volume di portata, e il più importante del sud-est asiatico. Una potenza dichiarata di 1,3 Gigawatt, che produrrà energia per conto dell’azionista di maggioranza per il 96%, la Electricity Generating Authority of Thailand.
Il Mekong (Dza-Cu in tibetano, Curu-Long in vietnamita e Dza-Chu in cinese), oggi è uno dei corsi d’acqua più inquinati del pianeta, grazie all’utilizzo che ne fa la Cina, come discarica di rifiuti industriali e scorie radioattive fin dai primi chilometri del suo corso, sugli altopiani tibetani. Sono infatti oltre 200 i siti industriali, contando solo i principali, che giornalmente sversano nel fiume materiali pesanti, soprattutto arsenico, andando a contaminare anche le falde di acqua potabile e compromettendo la pesca, che per molte popolazioni che vivono lungo il fiume, è l’unica fonte di sostentamento.
Lungo circa 4.900 km, con un bacino naturale ampio 810.000 km quadrati, dall’altopiano del Tibet, il Mekong attraversa la provincia cinese dello Yunnan, Birmania, Thailandia, Laos, Vietnam e Cambogia, raccogliendo le acque di numerosi affluenti, altrettanto contaminati.
Secondo un’indagine geo-scientifica, il Mekong nasce nei pressi di Lasagongma, non lontano dalla città di Ganasongdou, sui monti Jifu, nel Distretto di Yushu (Provincia di Qinghai) ad un’altitudine di oltre 5.200 metri. Altri rilevamenti stabiliscono la sorgente sul versante nord del monte Guozongmucha, dal quale si snoda attraverso la parte sud-occidentale della provincia cinese di Qinghai, mentre una terza ipotesi ne identifica l’origine da un piccolo torrente del passo Rupsa. La zona è detta Sanjiangyuan, Riserva Nazionale dei Tre Fiumi, poiché qui nascono anche il Fiume Giallo (Huang-He o Huang-Ho) e il Fiume Azzurro (Chang-Jiang o Yang-Tze), che l’UNESCO ha dichiarato la più ricca area al mondo per biodiversità.
Più dighe che città
Il Mekong attraversa l’intera provincia dello Yunnan, dove è noto con il nome di Lancang Jiang (“fiume turbolento”), in un paesaggio caratterizzato dalle ripide gole del Saluen, poi si immette nell’altopiano di Xishuangbanna e, quando esce dalla Cina, prosegue verso sud delimitando per circa 200 km il confine naturale fra Myanmar e Laos, per poi attraversare la ben nota regione del “Triangolo d’Oro” e segnare il confine Laos-Thailandia. Dopo avere bagnato la città di Luang Prabang il Mekong si allarga notevolmente, e diventa facilmente navigabile nella stagione delle piogge, rappresentando una delle vie di comunicazione principali del territorio, con il grande delta e lo sbocco nel Mare Cinese Meridionale, presso Phnom-Penh.
Le dighe sul Mekong sono attualmente circa una novantina, né dovrebbe stupire viste le potenzialità del grande fiume per la produzione di energia. In territorio cinese, le principali sono Gong-Guoqiao (in progetto), Xiao-Wang (in costruzione), Man-Wan, Dachao-Shan, Nuo-Zhadou (in costruzione), Jing-Hong, Gan-Lanba (in progetto) e Meng-Song (in progetto). In Laos si trovano le dighe di Pak-Beng (in progetto), Luang-Prabang (in progetto), Xayaburi (in costruzione), Pak-Lay (in progetto), Sanakham (in progetto), Pak-Chom (in progetto) e, fra Vietnam e Cambogia, sono stati approvati i progetti per la realizzazione degli sbarramenti di Ban-Koum, Latsua, Tha-Ko, Dan-Sahong, Stung-Treng e San-Boo. Fra queste, uno dei maggiori motivi di conflitto, fra molti altri, è attualmente la diga di Xayaburi, nel Laos, che è quella oggi vicina alla foce, visto che le altre a valle sono ancora allo stadio di progetto. La posizione di Xayaburi, infatti, influisce negativamente sui delicati equilibri ambientali, e sull’economia da cui dipendono milioni di persone, compresi gli stanziamenti urbani in Vietnam e Cambogia.
Poche ore dopo l’avviamento delle megaturbine di Xayaburi, il livello delle acque del Mekong ha subìto un abbassamento di circa due metri, raggiungendo il livello minimo degli ultimi cento anni, ma il peggio è che il governo del Laos ha fatto sapere che vi sono in progetto almeno altre 140 dighe, sia lungo il corso del Mekong che su molti suoi affluenti, e che il 50% dei finanziamenti di tali progetti sono stanziati da Pechino.
L’obiettivo? Con il benestare (e quindi i maggiori guadagni) della Cina, il Laos è destinato a diventare il principale generatore di energia dell’intero continente asiatico, mettendo però in serio pericolo la sopravvivenza di oltre 60 milioni di persone (più o meno la popolazione italiana) e l’equilibrio biologico della regione, per altro già gravemente compromesso.
Un triste classifica
Una recente indagine ambientale ha stilato la classifica dei fiumi più inquinati del mondo. Al primo posto il Citarum, a Java, isola più popolosa dell’Indonesia, con un livello di contaminazione cinquemila volte superiore al limite consentito. A seguire, il Rio Bravo, o Rio Grande, il più importante confine naturale fra gli Stati Uniti e Messico, a causa della costruzione di dighe e canali di irrigazione per deviare le acque verso coltivazioni e città. Il volume del fiume diminuisce giorno per giorno, e le sue acque sono inquinate dagli scarichi di molte industrie.
Al terzo posto il Danubio, che attraversa Germania e Austria, due Paesi altamente industrializzati, che hanno realizzato sulle sue rive numerosi impianti di lavorazione e produzione di plastica e fertilizzanti. In successione, l’Elk River, che scorre in Virginia, a seguito di un disastro ambientale, il 9 gennaio 2014, quando è avvenuto un incontrollato sversamento di schiuma MCHM, per il lavaggio del carbone, compromettendo per sempre l’equilibrio biologico. In classifica vi è poi il Gange dove si raccolgono resti di vario tipo, umani, industriali, liquami anche di origine animale. A seguire, il fiume Indo, che scorre fra Cina, Pakistan e India e risente principalmente dei danni creati dalle industrie.
Il Mekong è al settimo posto, con un altissimo livello di arsenico, oltre a diverse altre sostanze, seguito dall’australiano Murray-Darling, nella cui parte meridionale sono state introdotte specie alloctone fra cui la carpa, che stanno portando all’estinzione di diverse specie di pesci e a una situazione di devastante degrado ambientale.
In questa classifica rientra anche il mitico fiume Nilo, nel quale da anni vengono scaricati rifiuti organici, agricoli e residui industriali che hanno già portato all’estinzione di 30 specie diverse di pesci, e la situazione non sembra migliorare. Seguono i fiumi Yangtze e Salween, in conseguenza dello sviluppo di infrastrutture per la produzione di energia idroelettrica, oltre a deforestazione e sversamento di pesticidi, fertilizzanti, mercurio, cadmio, zinco piombo e rame.
Cambiamento irreversibile
Come si evince dalla ben poco edificante graduatoria, negli ultimi cinquant’anni la vita lungo il Mekong è drasticamente cambiata, soprattutto a causa dello sviluppo industriale di Cina, Thailandia e Vietnam, seguite a ruota da Cambogia e Laos (uno degli ultimi Paesi a guida comunista), che hanno incrementato intensamente lo sfruttamento indiscriminato del territorio. In particolare con lo sversamento di sostanze inquinanti, compromettendo l’industria della pesca, che costituisce una delle principali risorse di esportazione nel mondo, per un valore di circa 15 miliardi di dollari all’anno.
Il riscaldamento globale poi mette a rischio i ghiacciai del Tibet, dove il Mekong ha origine, così come i cambiamenti nella regolarità e nell’intensità dei monsoni che lo alimentano lungo il suo percorso, ma è stato soprattutto lo sfruttamento dell’enorme potenziale idroelettrico a rappresentare un problema, del quale la soluzione pare a molti analisti ormai irraggiungibile.
La Cina è la principale interessata ai progetti per la costruzione di dighe sul Mekong, oltre ad averne finanziati oltre una decina fra quelle già funzionanti. Non vi è però solo la Cina, dal momento che Vietnam e Thailandia sono fra le economie più in crescita al mondo, e il bacino del Mekong è una delle aree più produttive della regione. Da anni, oltre a Pechino, diversi governi stranieri sono co-partecipanti nel finanziare le grandi infrastrutture nella regione: in Vietnam, vi sono massicce partecipazioni da parte australiana e giapponese, in particolare per i ponti lungo il Mekong, che hanno permesso di abbreviare i tempi di percorrenza di lunghe distanze, fino a pochi anni fa percorribili solo via fiume. La Cina, ovviamente, non è stata da meno, e ha concentrato nel sud-est asiatico (oltre che in Africa) grande parte dell’ambizioso progetto globale noto come BRI, “Belt and Road Initiative”.
Fino a non molti anni fa, in linea con le campagne di sensibilizzazione delle energie alternative ai combustibili fossili, le centrali idroelettriche erano considerate fornitrici di energia pulita, ma oggi non è più così, perché alterano pesantemente gli equilibri ambientali e gli ecosistemi, in particolare della fauna acquatica, e trattengono sedimenti essenziali per l’agricoltura. Ovviamente, le autorità dei Paesi interessati non condividono tale opinione, nonostante che, nel 2010, l’ente intergovernativo Mekong River Commission, formata da Cambogia, Laos, Thailandia e Vietnam, avesse vietato la costruzione di dighe e centrali idroelettriche per un minimo di 15 anni, allo scopo di rivalutare l’ambiente, annunciando che, in conseguenza della costruzione di dighe, il 95% dei sedimenti naturali rimarrebbe bloccato lungo il fiume entro il 2040, con conseguenze devastanti, scontrandosi però con la portata economica dei progetti, stimata in circa 30 miliardi di dollari, e con la formazione, appositamente voluta dal governo cinese nel 2015, della Lancang-Mekong Cooperation Framework, che ha redatto rapporti ufficiali diametralmente opposti. Il tutto anche a fronte di “incidenti di percorso”, come il crollo di una delle dighe nel Laos, nel 2021, che provocò la morte di centinaia di persone e la distruzione di migliaia di abitazioni, e che fu causata da errore umano, anche se i responsabili non furono mai individuati… Senza contare l’esproprio di terre e l’allagamento di numerosi insediamenti, da secoli abitati dalle popolazioni locali, come è avvenuto nel caso di Srekor, in Cambogia, che oggi non esiste più, per far posto alla Lower Sesan 2, la più grande centrale idroelettrica del Paese, finanziata da Cina e Vietnam.
Ripensare l’energia idroelettrica?
La limitata utilità degli impianti idroelettrici, come già affermato da molte organizzazioni ambientaliste, oggi è scientificamente provata, come attestato da un rapporto ufficiale pubblicato a cura della National Academy of Sciences, che mette in discussione le grandi dighe per la produzione di energia, sostenendo che i benefici non valgono il prezzo da pagare, in tutti i sensi.
Lo studio è stato realizzato ripercorrendo numerose esperienze, soprattutto negli Stati Uniti e in Europa, con l’analisi dell’impatto ambientale nei Paesi in via di sviluppo, e dove è in programma la costruzione di nuovi impianti. Lo studio afferma, in conclusione, gli effetti disastrosi per l’ambiente, senza benefici effettivi di tipo economico nel lungo periodo. Altre ricerche erano già arrivate a risultati simili, sebbene con valutazioni meno categoriche, e si sta inoltre registrando una tendenza a dismettere molte dighe soprattutto in Europa e negli Stati Uniti, con decine di impianti chiusi ogni anno.
Attualmente, il 71% dell’energia prodotta nel mondo, deriva da impianti idroelettrici. Il picco nella costruzione di impianti che sfruttano la forza dell’acqua, fu raggiunto negli anni Sessanta del secolo scorso, ma da allora il numero di centrali attive è progressivamente diminuito. Negli Stati Uniti è appena il 6% dell’energia consumata ogni anno, mentre in Europa è intorno al 14% e, a livello mondiale, si parla del 16%.
Oltre il 90% delle dighe costruite a partire dagli anni Trenta del ‘900 si sono rivelate molto più costose del previsto, sia per la realizzazione, che per la manutenzione.
Gli effetti del cambiamento climatico già in corso sono stati inoltre sottovalutati nella progettazione di alcuni nuovi bacini per l’idroelettrico. In Brasile, per esempio, sono state costruite due dighe lungo il fiume Madeira. Terminate meno di cinque anni fa, producono meno energia di quanto programmato, con costi ben oltre le previsioni.
La diga di Xayaburi è quindi solo uno dei molti aspetti della nuova “Idropolitica”, e in competizione fra Stati per lo sfruttamento del Mekong, che si trasferiscono sul piano geopolitico. È proprio la geopolitica che ha reso il Laos uno dei nodi focali delle mire egemoniche delle varie potenze, in lotta per il controllo regionale e per lo sfruttamento di un bacino di quasi circa mille milioni di metri cubi di acqua.
Secondo quanto disposto dal diritto internazionale, un fiume che attraversa i territori di due o più stati, come il Mekong, è considerato un fiume internazionale. Il riconoscimento dello status condiziona la dimensione dei diritti e dei limiti, che disciplinano l’azione degli Stati rispetto all’utilizzo delle risorse. Tutti gli Stati attraversati dal fiume godono degli stessi diritti e hanno gli stessi doveri, ciascuno in proporzione ai propri bisogni.
Per quanto riguarda il Laos, dal 1986, iniziò a svincolarsi dall’egemonia politica del Vietnam, avvicinandosi sempre più alla Cina, ristabilendo i contatti diplomatici interrotti nel 1979. Attualmente la Cina è il più grande investitore nel Laos, ed è oltremodo chiaro l’obiettivo di Pechino di affermarsi come potenza egemonica nell’intera regione, attraverso investimenti nel settore infrastrutturale, concessione di ingenti aiuti, formazione di personale tecnico e fornitura di tecnologia, supporto militare e di intelligence, e cooperazione nel settore della sicurezza.
Alla luce dei moderni studi, le grandi multinazionali non hanno ancora rinunciato alla realizzazione di impianti idroelettrici. Secondo recenti ricerche, sembra che nel mondo vi siano non meno di 3.700 progetti allo studio.
Uno dei più grandiosi riguarda la costruzione di una diga sul fiume Congo, che dovrebbe consentire la produzione di oltre 1/3 di tutta l’energia di cui l’Africa ha bisogno, a un costo di oltre di 80 miliardi di dollari, ma destinata in maggior parte all’alimentazione di alcuni grandi impianti minerari, amministrati da società straniere, e certamente con molti dubbi circa gli effettivi benefici per la popolazione.
In conclusione, i ricercatori spiegano che i governi dovrebbero essere incentivati a considerare la produzione di energia rinnovabile da fonti molteplici, dal solare, allo sfruttamento delle biomasse. L’idroelettrico come fonte principale non è economicamente sostenibile nel lungo periodo, soprattutto per gli effetti che condizionano la stessa capacità di produrre energia, riducendo le emissioni nocive, per salvaguardare ecosistemi in bilico e milioni di vite. Sempre che non si sia già oltrepassato quel punto di non ritorno che molti analisti dicono sia, purtroppo, già parte di un passato remoto, e senza possibilità di appello.
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