Quando si parla di Tommaso Landolfi (1908-1979) il primo elemento che viene in mente è il gioco con le parole, espressione di uno scrittore di grande cultura, curioso, e forse non ancora sufficientemente conosciuto nei suoi molteplici aspetti.
Il critico Carlo Bo (1991-2001) lo ha definito il primo, dopo Gabriele D’Annunzio (1863-1938), a poter fare ciò che vuole con la penna, esperto prestigiatore della lingua, innovatore coraggioso della grammatica e incantatore delle regole che plasma a suo piacimento, come si può notare nel frammento di “Parole in agitazione”, che fuggono dalla bocca del protagonista mentre si lava i denti e saltellano da un periodo all’altro, a creare nuove situazioni. Insomma, un pioniere della sperimentazione linguistica, come esposto nel primo “Dialogo dei massimi sistemi” e, per altri versi, in “La Passeggiata”, riflessione sulla natura ambivalente, e a volte contraddittoria, del linguaggio e della comunicazione in genere.
Gli stessi termini, anche quelli in disuso, possono esprimere situazioni differenti, forma e temi che vanno dal fantastico al grottesco, dall’insolito al raccapricciante, dall’illogico all’assurdo.
Il profondo scetticismo verso il reale si esprime con il gioco e lo scherzo, che mettono in campo un’ironia dissacratoria e inarrestabile sulla quotidianità, con testi che ne valorizzano gli aspetti stravaganti e onirici, in particolare per trovare una via di fuga dal disastro della seconda guerra mondiale.
Questi aspetti visionari valsero a Landolfi l’etichetta di “surrealista”, ma definirlo con esattezza non è impresa facile, pur alimentata in gran parte dal netto contrasto fra un atteggiamento disinteressato e un tenace attivismo di diversi suoi colleghi. Certamente ha contribuito il marcato sentimento di estraneità per il suo tempo, giudicato oscuro e perfino incomprensibile. Nel contempo, Tommaso Landolfi era esternamente ciò che oggi si definirebbe un “Dandy”, di gusti esclusivi e originali, con un carattere che comunque rispecchia la natura dei suoi scritti, intellettualmente molto raffinati, con la realtà del suo universo più forte di quanto non si creda, e di un’intensità che alcuni rivedono in J. R. Tolkien (1892-1973).
Per contrastare le voci che vedevano in lui uno “scrittore per soli scrittori”, autore di opere impraticabili e inadatte al pubblico, nell’antologia “Le più belle pagine di Tommaso Landolfi”, Italo Calvino (1923-1985) intenta una difesa che rimane uno dei migliori commenti al suo lavoro: “…Perché si ha un bel dire che ciò che Landolfi scrive è sempre maschera del vuoto, del nulla, della morte. Non si può tralasciare il fatto che questa maschera è pur sempre un mondo pieno, concreto, e denso di significati”.
Landolfi è stato un autore prolifico e versatile che non ha lasciato intentata nessuna strada: dalla narrativa alla saggistica, dal teatro alla lirica, dalla critica letteraria alla traduzione e alle fiabe per bambini. La sua produzione è così complessa e varia che è difficile individuarne un centro: ogni scritto è un piccolo capolavoro che convive con gli altri senza pretese di supremazia.
Il “padron gioco” e la produzione letteraria
Nato il 9 agosto del 1908 a Pico, piccolo comune in provincia di Frosinone, cresce in una famiglia meridionale di antichissima nobiltà. La sua infanzia non è semplice: la precoce perdita della madre, incinta di un secondo figlio, segna un trauma che non lo abbandonerà per il resto della vita. Ancora ragazzo, scopre l’interesse per il teatro, le arti figurative, le lingue straniere e, naturalmente, per la letteratura. Nel 1932, si laurea in Lettere con una tesi dedicata al lavoro della scrittrice russa Anna Achmatova (1889-1966).
Diviso fra un’attenzione quasi maniacale alla forma, e un’indifferenza verso il contenuto, Calvino così definisce il suo rapporto ambivalente con la letteratura: “È il gesto di chi impegna tutto sé stesso in ciò che fa, e nello stesso tempo il gesto di chi butta via”. E a proposito del “buttar via”, non si può non fare riferimento allo smodato vizio per il gioco d’azzardo che assillò Landolfi, accanito frequentatore di casinò, che non ha mancato di trasporre il tutto nelle pagine che vedono protagonisti, in diverse occasioni, giocatori d’azzardo e scommettitori d’ogni sorta, sullo sfondo di località note per questa particolare “attrazione”. Ed è possibile assaporare ancora oggi tali atmosfere, grazie alle fatiche della figlia, Idolina Landolfi, la quale, dopo la morte del padre, nel luglio 1979, si è instancabilmente dedicata alla conservazione del patrimonio letterario, fondando il Centro Studi Landolfiano nel 1996.
Da analisi e studi sulla produzione letteraria di Tommaso Landolfi, emerge la predilezione per la forma concisa e sintetica del racconto, fin dalle prime opere del 1937, cioè la raccolta “Dialogo dei Massimi Sistemi”, caratterizzata dagli elementi che lo scrittore svilupperà nelle successive composizioni.
Uno di questo elementi è senza dubbio il sottile e raffinato gusto del grottesco, con immagini letterarie che si ritrovano, ad esempio, in Edgar Allan Poe (1809-1849), modello ispiratore al quale Landolfi è stato spesso accostato, e svolti anni più tardi nel racconto “Il Mare delle Blatte” e altri componimenti.
Altra ben nota raccolta è “Tre Racconti” (1963), che comprende il testo intitolato “La Muta”, particolarmente apprezzato dalla critica, ma anche “La Passeggiata”, parte della raccolta “Racconti Impossibili” (1966), ancora oggi oggetto di studio e ricerca in quanto svolta in un linguaggio definito “piacevolmente incomprensibile”, che fa da contraltare a “Conferenza personalfilologica con implicazioni”, dove invece è evidenziata una terminologia linguisticamente impeccabile ma assolutamente arcaica e non più in uso.
Nel 1975, Landolfi ottiene il massimo riconoscimento alla carriera artistica con il testo “A Caso”, che vince il prestigioso Premio Strega.
Non solo racconti
Sebbene sia stato il genere prediletto, Landolfi non scrisse solo racconti. La seconda opera pubblicata è infatti il romanzo “La Pietra Lunare” (1939), inquadrato in atmosfere dense di mistero, dove l’oscurità è protagonista, così come in “Le Due Zitelle”, romanzo grottesco apparso a puntate nel 1945 su “Il Mondo”, settimanale politico-culturale fondato a Roma da Gianni Mazzocchi (1906-1984).
Sensibile alla situazione di un’Italia appena uscita dal secondo conflitto mondiale, dove la produzione letteraria si concentra su storie di lotta per la libertà, Tommaso Landolfi non manca di dare prova in tal senso, ma da un suo particolare quanto originale punto di vista, con “Racconto d’Autunno” (1947), dove la Resistenza è vista da una angolazione decisamente insolita: sullo sfondo di una elegante tenuta in decadenza, la protagonista Lucia, donna dalla folgorante bellezza, esprime al tempo stesso inquietudine e fuggevolezza, su note tipicamente grottesche mischiate a un sopraffino gusto noir. “Racconto d’Autunno” custodisce uno dei procedimenti chiave dell’opera di Landolfi, cioè l’utilizzo del reale come pretesto per poter dare sfogo all’invenzione. La vicenda narrata si distacca dalla abituale narrazione del fenomeno della Resistenza e sparisce dall’intreccio, per poi riaffiorare in una storia d’amore e morte. Una natura complessa nella quale è contenuto uno degli elementi fondamentali e ricorrenti della scrittura di Landolfi e della propria esperienza durante il conflitto: la stessa casa in cui l’autore nacque, e dove scrisse le prime opere, fu depredata durante la guerra, e questo costituirà una ferita, in quanto subita come una profanazione.
Il racconto in forma di diario torna con “Rien va” e “Des Mois”, racconti nei quali emerge la riflessione sulla necessità di cercare un senso all’esistenza, fra finzione e realtà, elemento di un gioco solo apparentemente superficiale.
Nella produzione di Tommaso Landolfi, amante della sperimentazione, non potevano mancare le esperienze giornalistiche e di critica letteraria, con interventi su importanti periodici come “Letteratura”, fondata da Alessandro Bonsanti (1904-1984) a Firenze nel 1937 e pubblicata fino al 1968, o “L’Italia Letteraria”, il cui primo direttore fu Umberto Fracchia (1889-1930), pubblicata a Roma fra il 1929 e il 1936, per poi iniziare una collaborazione con “Il Corriere della Sera” che durerà fino alla morte.
Altrettanto sorprendente l’attività di traduttore. Proprio a Landolfi, infatti, si deve la diffusione in Italia di autori russi ancora poco noti come Aleksadr Puskin, Nikolaj Gogol, Fedor Dostoevskij, Lev Tolstoj, Ivan Turgenev, Anton Checov, ma anche Novalis (Georg von Hardenberg), Jacob e Wilhelm Grimm, Prosper Mérimée, Charles Nodier, Hugo von Hofmannsthal, e altri ancora.
Un Landolfi sempre più sperimentatore e “affamato” di cultura a 360°, approda anche al teatro, alla drammaturgia e alla lirica, negli ultimi vent’anni di vita. Di notevole spessore artistico sono infatti i componimenti “Landolfo IV di Benevento” (1959), tragedia in endecasillabi che ha come tema dominante le vicende del principe longobardo; “Scene dalla vita di Cagliostro”, trasmesso dalla Rai nel maggio 1961; e “Faust” (1967).
Dal punto di vista lirico, altri esempi della instancabile “curiosità” di Tommaso Landolfi sono “Filastrocche” (1968), “Breve Canzoniere” (1971), “Viola di morte” (1972) e “Il Tradimento” (1977), manifestazioni della continua ricerca tesa allo smantellamento delle convenzioni stilistiche e letterarie, a proposito delle quali, lo stesso autore scrive: “Non potrò dunque mai scrivere veramente a caso e senza disegno, sì da almeno sbirciare, traverso il subbuglio e il disordine, il fondo di me?”. Un interrogativo rimasto senza risposta, che Landolfi rivolge a sé stesso, come prova evidente del proprio travaglio interiore e del fatto che i suoi scritti si pongono prepotentemente come elementi che vogliono smontare ogni preconcetto.
Provocazione, ricerca e nuove prospettive
Nel “modus operandi” di Tommaso Landolfi, l’elemento perturbante si anima quasi sempre in un contesto tutt’altro che eccezionale, e lo sfondo è anzi di solito la quotidianità pigra di una cittadina di provincia, come era il suo paese natale. Spesso il piano fantastico è innescato da oggetti e animali, che rivelano poteri sorprendenti e comportamenti inaspettati. Questo concetto è evidente in componimenti come “La Spada”, o “La Penna” (che spesso possono essere la stessa cosa): lo scrittore che non riesce più a “produrre”, perché tutte le penne si spezzano e non funzionano più, lasciando solo una pallida traccia di inchiostro. Avvenimento che non è casuale, perché le penne sono diventate vive, pensanti, hanno una coscienza, e si oppongono alla scrittura scadente. Un grido di allarme contro la decadenza letteraria, dove Landolfi mostra fieramente la mano che scaglia la pietra, anziché nasconderla, muovendosi abilmente fra ombra e luce, presenza e assenza, attrazione e repulsione, reale e immaginario, scegliendo la via più difficile per esprimere il proprio malessere. La morale di tutto questo è che, per raggiungere il proprio scopo, il meccanismo che muove l’intero apparato creativo e linguistico, deve necessariamente essere un elemento spiazzante e inquietante, ma non significa che non si debba considerare ciò che le immagini evocano, anzi: è una provocazione che invita a cambiare prospettiva, perché se le cose si guardano così come sono, si corre il rischio di non valutare ciò che di importante nascondono. Per questo, Landolfi utilizza un linguaggio composto esclusivamente da parole che hanno smarrito il loro uso, una lingua pressoché morta dove però esiste ancora un’ultima relazione con il mondo: un vero e proprio patrimonio linguistico che dorme fra le pagine dei dizionari, in attesa di risvegliarsi.
Invito a una “lettura revisionista”
Ciò che Tommaso Landolfi intende raggiungere con il proprio stile, non è tanto lo stupire, ma il catturare l’attenzione e la meraviglia del lettore, e spingerlo alla reazione che lui stesso ha manifestato nelle sue opere, e non – come alcuni critici hanno proposto – con lo scopo di fare della letteratura un genere elitario. Tutt’altro. Un principio valido per tutta la produzione letteraria, e quindi anche nelle narrazioni per i più giovani, e lo fa naturalmente a modo suo, proponendo di costruire l’occasione per un invito alla loro lettura, valido soprattutto per le nuove generazioni.
L’antologia, pubblicata nel 1989, contiene un’ampia gamma di racconti e pagine scelte con questo filo conduttore, preferendo lasciare nell’opera anche qualcosa di non risolto: “E così miei piccoli lettori la storia sarebbe finita… Felice? Uhm…Tant’è che lo sappiate fin d’ora, perché al mondo non sempre i buoni e generosi hanno la ricompensa che meritano” (“La raganella d’oro”, 1954).
La letteratura per l’infanzia, è notoriamente il genere forse più difficile da affrontare, e tale aspetto non poteva non attirare Tommaso Landolfi, soprattutto nella sfida con sé stesso, e la strategia che adotta nel narrare storie per bambini è probabilmente il punto più alto della sperimentazione, andando oltre: il confine fra generi letterari non è più così definito, perché mescola i tratti della narrazione breve (la suddivisione in brevi capitoli, il contenuto anticipato nel titolo, la presenza di una voce narrante, personaggi, luoghi, la presenza di una morale.
Le narrazioni fiabesche seguono in genere uno schema narrativo ben preciso, che Landolfi decide comunque di sovvertire, pur adattandosi, ma non più di tanto, alle regole del genere fiabesco, modificandone le regole stesse con l’inserimento di elementi inconsueti, o dando a elementi caratteristici una veste non tipica del genere stesso.
L’incursione nella letteratura fiabesca è, per Landolfi, l’occasione per ribadire che l’unica forma possibile di sopravvivenza, non solo per lo scrittore e per la letteratura, sia la capacità di sognare e far sognare attraverso la parola e le sue sonorità che questa esprime.
Le storie per l’infanzia di Landolfi sono costruite in modo da presentare più livelli di lettura: si legge la favola ma si ha la sensazione di aver letto tutt’altro che una semplice storia per bambini, nonostante il linguaggio, contrariamente allo stile denso raffinato e complesso dello scrittore, sia misurato e fruibile anche dai lettori più piccoli, sia per i più grandi e gli adulti, ai quali non sfugge il tono ironico e disincantato.
Alcuni critici hanno poi affermato che la produzione dell’ultimo periodo di Tommaso Landolfi è poco significativa, perché l’autore aveva ormai già detto tutto quello che aveva da dire con le opere precedenti. Il fatto è che, in un narratore come Landolfi, non si dovrebbe cercare la novità, ma la capacità di scavare e portare alla luce tutte le possibili visioni del mondo.
Una letteratura, quella di Tommaso Landolfi, che diventa prezioso strumento per un incontro con la varietà della produzione, e della personalità di uno scrittore per molti aspetti ancora da rivalutare.
Bibliografia:
“Chemins du desespoir: essai sur Tommaso Landolfi“ – Mario Fusco;
“Parlare per le notti. Il fantastico nell’opera di Tommaso Landolfi” – L. Cecchini, 2001;
“L’esattezza e il caso. Postfazione a Le più belle pagine di Tommaso Landolfi” – Italo Calvino;
“Landolfi in viaggio verso l’altrove” – Angelo Guglielmi;
“Prete, Antonio. Un linguaggio dell’anima. Studio su Tommaso Landolfi” – Idolina Landolfi;
“L’arte del possibile: ethos e poetica nell’opera di Tommaso Landolfi“ Cristina Terrile;
“Dossier Landolfi. Una vita in bilico fra gioco e letteratura” – Pasquale Di Palmo;
“Scuole segrete: il Novecento italiano e Tommaso Landolfi“ – Andrea Cortellessa;
“La “filosofia spontanea di Tommaso Landolfi“ – Cristina Terrile;
“Il teatro di Landolfi“ – Anna Dolfi/Maria C. Papini;
“Tommaso Landolfi e il caleidoscopio delle forme“ – Marcello Verdenelli/Eleonora Ercolani.
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