La Dottrina Makarenko
Nell’Europa orientale, sia durante il periodo austro-ungarico, che nella Grande Guerra, nel secondo conflitto mondiale e successivamente negli anni della Guerra Fredda, del Blocco Comunista e della Cortina di Ferro (termine coniato da Winston Churchill), e fino alle sommosse popolari che fecero crollare i regimi assolutisti il governo sovietico ha avviato una massiccia campagna di indottrinamento politico, la cui prima fase consisteva nella sistematica rieducazione degli oppositori e, successivamente, nel riutilizzo di questi per rieducarne altri, in una ruota che da sola doveva portare al completo e totale asservimento.
A tale scopo, molte carceri già in attività, e altre appositamente realizzate, furono affidate al controllo della polizia politica segreta, all’interno dei quali furono compiute violazioni dei diritti umani con eccessi terrificanti.
Da dove nasce l’idea di utilizzare metodi coercitivi, drastici ed estremamente violenti e umilianti, per rieducare caratterialmente e psicologicamente un individuo? Sopra tutti, un nome: Anton Semioniovici Makarenko, le cui teorie si adattarono perfettamente al modello della sovietizzazione. Fu maestro elementare e durante la guerra civile del 1917 si dedicò al recupero dei ragazzi abbandonati, dediti alla microcriminalità e in condizioni precarie.
Fonda il primo centro di lavoro, chiamato Colonia Gorkij in cui inizia la sua esperienza di pedagogista ed educatore, insegnando primariamente senso del dovere e disciplina attraverso l’organizzazione della vita collettiva, a modello militare, con il culto dell’estetica e il rispetto dei ruoli, e costante controllo delle assemblee autogestite.
Nel 1928, a causa di contrasti con rappresentanti dell’istituzione per l’istruzione popolare a causa dei suoi innovativi metodi educativi, dovette abbandonare la colonia da lui fondata per passare alla direzione di una scuola per orfani della polizia, la “Comune Dzeržinskij”, importante scuola professionale nei sobborghi di Charkov. Nel 1935 assume la vicedirezione della sezione delle colonie di lavoro ucraine e si afferma la sua dottrina pedagogica, accettata anche dalla critica sovietica come modello educativo. Il concetto educativo di Makarenko segue ideali e valori comunisti di ispirazione marxista e, in questa prospettiva, lo scopo dell’educazione è quello di formare un cittadino che sappia agire in collettività per il benessere sociale. La concezione pedagogica è di tipo direttivo, in quanto un’educazione non guidata, può condurre all’egoismo individuale che, pur non essendo solo un aspetto prettamente antropologico, è tipico della società capitalista borghese.
Molta importanza ha la disciplina, intesa come necessità che deve regolare la vita sociale. In un primo momento è giusto insegnare e far rispettare norme e regole della comunità. In un secondo momento è indispensabile spiegarne motivazioni e finalità, accrescendo il senso di appartenenza del singolo al gruppo e il livello di consapevolezza collettiva verso il raggiungimento di determinati obiettivi utili a tutti. La responsabilità è un risultato dell’educazione, così come la disciplina. L’infrazione di regole condivise e accettate può provocare il deragliamento dell’insieme, e dunque è l’insieme a richiedere il rispetto di quelle regole e l’eventuale privazione alla vita comunitaria. E’ il concetto della “disciplina cosciente” elaborato secondo il marxismo, politicamente da Lenin e pedagogicamente da Makarenko, con il fine di incidere nella mente dell’individuo una coscienza politica che contribuisca a edificare la società comunista.
Contestualizzando il concetto, bisogna tenere presente che la società sovietica dell’epoca era in completa transizione, tesa alla diffusione del “Socialismo in un solo Paese” che necessitava di una stabilizzazione rivoluzionaria, cioè un passaggio, né troppo graduale né pretenziosamente repentino, da vecchie abitudini consolidate e tradizioni sedimentate, per giungere a nuovi comportamenti e modi di pensare.
Dopo la rivoluzione, la società sovietica si organizza intorno a una mobilità sociale dinamica, che rompe con l’immobilità autocratica, si stabiliscono pari opportunità tra uomo e donna e la famiglia si pone essa stessa compiutamente come collettivo, precisamente come cellula collettiva del collettivo sociale più largo. Nel quadro del nuovo stato comunista, dunque, l’uomo sovietico deve inserirsi pienamente nella società, attraverso il lavoro, l’impegno politico e il sostegno delle ideologie socialiste.
Soggetto dell’educazione non è però il singolo di per sé, ma in quanto elemento del collettivo. L’educatore chiama il collettivo alla precondizione pedagogica dell’ordine esterno per un’unità dialettica con un ordine interiorizzato. La disciplina condivisa è il risultato di questa unità e, secondo Makarenko, non è affatto contrapposta alla libertà, intesa in senso marxista e leninista: la libertà sostanziale e non formale non è assenza di legami, ma una categoria sociale, parte del bene comune, risultante di un comportamento sociale. Da distinguere però, due gruppi: il Collettivo Generale che è struttura unitaria, organica e autosufficiente, cioè un soggetto collettivo, non solo una somma di persone; e il Collettivo di Base, formato da un’auto-articolazione interna del collettivo generale, dove gli individui sono legati fra loro dal lavoro, dalle amicizie, dalla vita in comune e dalla prospettiva condivisa. I due pilastri dell’ideologia, Scuola e Lavoro sono due realtà distinte, con logiche e fini differenti. La scuola è finalizzata all’istruzione, il lavoro è finalizzato alla conoscenza degli schemi produttivi. Il lavoro non è solo strumento pedagogico, ma è competitivo come in una normale fabbrica.
Figura altrettanto importante è Sergej Osirovic Hessen (1887-1950), teorico di una pedagogia orientata ai valori assoluti della vita morale. Per Hessen la pedagogia è filosofia applicata, in quanto riguarda l’attuazione dei valori nella formazione dell’individuo. Si tratta di una posizione inconciliabile con i tempi, in quanto il richiamo alla grazia divina per il compimento della missione pedagogica, avvicina l’autore di Fondamenti della pedagogia come filosofia applicata alle correnti idealistiche e spiritualistiche presenti in Italia e in Germania e lo allontana dalla concezione positivista e dall’attivismo pedagogico, oltre che della metodologia marxista. Sono gli anni in cui, su altri fronti, si sperimenta l’apprendimento cooperativo Che implica il processo dinamico dell’interiorizzazione delle conoscenze. Autore è Lev Vygotskij, psicopedagogista di fama mondiale. Il suo insegnamento è oggetto di studio approfondito anche in Italia, al pari dell’esperienza dei suoi seguaci Vasilij Davydov e Pëtr Gal’perin.
Apprendere a pensare attraverso il fare: una nuova proposta all’attuale psicologia cognitiva e alla psicopedagogia dell’apprendimento. E’ la concezione dell’apprendimento “maggiorante”, che genera sviluppo psichico, cognitivo, di coscienza e di personalità che accoglie e fa sua l’aspirazione verso un’educazione completa della personalità, non tanto in un senso politecnico o multiprofessionale, ma tale che unifichi le dimensioni pratiche e teoriche nella formazione delle capacità che hanno portato alla “creazione” della storia.
Da Suceava al Fenomenul Pitesti
In questo contesto, fra le molte prigioni, quella di Pitesti merita un discorso a parte. In questo istituto sono stati compiuti veri e propri atti disumani, definiti “Fenomenul Pitesti”, “Esperimento Pitesti” per la rieducazione politica, in particolare fra il dicembre 1949 e il settembre 1951.
Il regime comunista commissionò all’Amministrazione Penitenziaria il compito di operare un vero e proprio condizionamento psichico e fisico estremamente “invasivo” (per usare un eufemismo) per rieducare un primo gruppo di detenuti politici, formato da ex appartenenti alla tristemente nota Guardia di Ferro, organizzazione ultranazionalista nel corso della seconda guerra mondiale, così come membri del Partito Nazionale Contadino e del Partito Nazionale Liberale, o membri di spicco della comunità ebraica, rappresentanti del clero cristiano ortodosso, e altri.
L’obiettivo dell’esperimento era che i prigionieri abbandonassero le passate convinzioni politiche e religiose, alterando le loro stesse personalità fino all’obbedienza assoluta. Le stime relative al numero totale di persone passate attraverso l’esperimento, pare siano state circa 5.000, e che le stesse autorità rumene abbiamo successivamente interrotto l’esperimento, a causa degli eccessi raggiunti, in particolare da parte della leader Ana Pauker e di un gruppo di sorveglianti poi processati in blocco, insieme a una ventina di detenuti che avevano spontaneamente collaborato. Alla fine delle rapide udienze, i detenuti furono condannati a morte, mentre i funzionari principali subirono condanne leggere.
L’attivista giornalista e anticomunista Virgil Ierunca fece riferimento all’esperimento di rieducazione di Pitesti come al più grande e più intenso programma di tortura per il lavaggio del cervello negli anni del Blocco Orientale. In termini ancora più forti, il Premio Nobel, e sopravvissuto al gulag, Alexander Solzhenitsyn lo definì l’atto più terribile della barbarie nel mondo contemporaneo.
La costruzione della prigione venne iniziata alla fine degli anni ’30 del Novecento, per decreto del re Carol II (1893-153) e terminata sotto Ion Antonescu. I primi prigionieri politici arrivarono nel 1942, prevalentemente studenti sospettati di aver preso parte alla cosiddetta “Ribellione dei Legionari”. Per un certo periodo, dopo la proclamazione della Repubblica Popolare Rumena, continuò a ospitare condannati per reati minori.
Per esattezza storica, da sottolineare che, con l’instaurazione del regime comunista, i primi tentativi di rieducazione politica avvennero nella prigione di Suceava, da dove sono poi partite le indagini internazionali. Questo carcere era definito un vero e proprio inferno, a proposito del quale sono state raccolte testimonianze impressionanti. Fra l’altro pare che in certe parti del carcere, molti prigionieri non potessero riposare di notte a causa delle urla delle donne sottoposte a tortura.
In un primo momento, l’obiettivo principale durante l’indagine ufficiale su Suceava e Pitesti riguardò i membri della Guardia di Ferro e di ex partiti storici. In seguito, si allargò a comprendere coloro che si opponevano alla collettivizzazione, tentavano di attraversare illegalmente il confine, o membri della Resistenza e, in generale, oppositori del regime.
Mircea Stănescu afferma che il regime comunista non considerava la carcerazione come forma di penitenza, ma come metodo di eliminazione dalla vita sociale e politica e, infine, come ambiente di rieducazione politica.
La prigione di Suceava era luogo di detenzione per i membri della Guardia di Ferro situati nella Moldavia settentrionale e centrale, molti dei quali arrivarono qui in seguito ai massicci arresti del maggio 1948. All’interno del gruppo di prigionieri, i primi ad avvicinarsi al concetto di rieducazione furono Eugen Țurcanu e Alexandru Bogdanovici.
Eugen Țurcanu fu arrestato per la prima volta nel 1943 e condannato a 6 anni di detenzione correttiva; la seconda condanna nel 1945, per aver preso parte alla resistenza dei Monti Ciucas. Al suo ultimo arresto, nel 1948, era praticamente il capo della Comunità Studentesca della Guardia di Ferro a Iasi e membro della Confraternita di Câmpulung. Sebbene in quel momento le indagini del Siguranta (la polizia politica poi divenuta Dipartimento della Sicurezza dello Stato secondo il modello NKVD) fossero già di natura violenta, lo stesso processo di rieducazione di Suceava iniziò come non violento con una massiccia propaganda contro la Guardia di Ferro, documenti basati sulle tesi del materialismo storico, conferenze da opere di Lenin e storia dell’Unione Sovietica. Inizialmente vi era anche un’organizzazione per i detenuti di fede comunista (ODCB), la cui struttura era modellata sulla base del Partito Comunista, e tutti i sostenitori della rieducazione furono registrati.
A parte Bogdanovici e Turcanu, tra coloro che hanno iniziato l’azione a Suceava e sono stati più coinvolti in altre prigioni, diversi si sono distinti: Constantin Bogos, Virgil Bordeianu, Alexandru Popa, Mihai Livinshi, Maximilian Sobolevski, Vasile Puscasu, Dan Dumitrescu e Nicolae Cobâlas. Le motivazioni alla base del cambio di fazione di questi ex legionari erano varie, ma generalmente includevano la speranza di ottenere un trattamento migliore. Secondo i documenti, furono un centinaio i detenuti che si unirono al programma, nell’aprile 1949.
Il filosofo Mircea Stănescu ha affermato che il fondamento teorico per la versione comunista del processo di rieducazione è stato fornito dai principi definiti dal già citato Anton Semioniovici Makarenko, educatore nato in Ucraina nel 1888. Questa affermazione è stata contestata dallo storico Mihai Demetriade, che ha indicato che non c’è nessun legame o somiglianza, né strutturale né causale con le opere dello psicologo ed educatore Makarenko. Demetriade ha inoltre indicato che l’affermazione è principalmente associata ai gruppi intorno alla Guardia di Ferro ed era stata promossa pubblicamente dall’attivista anticomunista Virgil Ierunca e ha osservato che la violenza all’interno dei gruppi della Guardia di Ferro era piuttosto comune, sia in pubblico (come l’omicidio rituale di Mihai Stelescu), sia nei campi dove molti furono imprigionati dopo la Ribellione dei Legionari del 1941 e il pogrom di Bucarest.
Un caso degno di nota è stato il gruppo di membri della Guardia di Ferro internati a Rostock dopo la fallita ribellione: un sospetto traditore è stato duramente torturato dai suoi colleghi, e la dinamica fu molto simile a quella applicato in seguito a Suceava e Pitesti. Tortura e violenza facevano parte della cosiddetta “anatomia dei guardiani”, in un contesto comunque molto favorevole al suo sviluppo.
Nel marzo 1949, su iniziativa di Gheorghe Pintilie (1902-1985), capo della Securitate, fu costituito il Servizio Operativo (OS – Informazioni sui sospetti e sui carcerati), prima designazione della Sezione Sicurezza Carceraria (Securitate) il cui primo direttore fu Iosif Nemes. Il Servizio Operativo era subordinato alla Securitate, e non alla Direzione Penitenziaria Generale (GPD), che si occupava di responsabilità amministrative.
Quando Suceava dimostrò che era possibile strutturare un vero e proprio programma di rieducazione su larga scala, si passò per un breve periodo a Gherla, quindi a Pitesti, dove i sorveglianti erano scelti fra persone arrestate e giudicate colpevoli di crimini politici.
Il già citato Eugen Ţurcanu, prigioniero ed ex membro della Guardia di Ferro che aveva anche aderito al Partito Comunista, insoddisfatto dei progressi a Suceava, propose di usare mezzi più drastici per migliorare il processo, ottenendo l’accordo dell’amministrazione penitenziaria di Pitesti. Turcanu, probabilmente su ordine del vicecapo della Securitate, Alexandru Nikolski, scelse una ristretta unità di sopravvissuti alla prima rieducazione come suoi assistenti. Questo gruppo fu chiamato ODCC (Organizaţia Deţinuţilor cu Convingeri Comuniste, “Organizzazione Detenuti Comunisti).
Il processo comportava punizioni psicologiche (principalmente attraverso l’umiliazione) e torture fisiche. I detenuti erano soggetti a pestaggi regolari e costretti anche a torturarsi a vicenda, con l’obiettivo di scoraggiare le reciproche convinzioni politiche. Le guardie costringevano a sessioni pianificate di istruzione politica, di solito accompagnate da violenza casuale e incoraggiamento alla delazione per reati reali o inventati.
Ogni soggetto dell’esperimento era inizialmente interrogato a fondo, applicando la tortura come mezzo per esporre dettagli intimi della sua vita. Quindi, era loro richiesto di rivelare tutto ciò che si pensava avesse nascosto nei precedenti interrogatori. Solitamente, sperando di sfuggire alla tortura, molti prigionieri confessavano misfatti immaginari. La seconda fase, “smascheramento interno”, richiedeva di rivelare i nomi di coloro che si erano comportati in modo meno brutale o indulgente verso di loro durante la detenzione. Era applicata anche l’umiliazione pubblica, di solito nella terza fase (“smascheramento morale pubblico”), con i detenuti costretti a denunciare tutte le loro convinzioni personali, lealtà e valori o perversioni puramente inventate. In particolare, i religiosi erano costretti a bestemmiare i propri simboli e testi sacri, mentre venivano gettato loro secchi di urina e feci. La testa del detenuto era spinta nel liquame, sommersa quasi fino al soffocamento, poi sollevata, permettendo al detenuto di respirare, e nuovamente spinta nel liquame. Era pratica comune la bruciatura con sigarette, altri erano costretti a ingerire escrementi e il loro stesso vomito. Oltre alla violenza fisica, i detenuti soggetti a rieducazione erano costretti a lavori estremamente pesanti (per esempio, pulire il pavimento con uno straccio fra i denti). Inoltre, il carcere assicurò una selezione preliminare per i campi di lavoro sul Canale Danubio-Mar Nero, Ocnele Mari e altri, dove le squadre di ex detenuti avrebbero dovuto estendere l’esperimento.
Nel 1952, mentre Gheorghe Gheorghiu-Dej contrastava con successo il ministro degli Interni Teohari Georgescu, il processo fu fermato dalle stesse autorità. L’ODCC affrontò segretamente un processo per abuso e vennero emanate oltre venti condanne a morte (Ţurcanu fu ritenuto responsabile dell’omicidio di 30 prigionieri e di abusi su altri 780). I funzionari “sacrificabili” della stessa Securitate, che avevano supervisionato l’esperimento, compreso il colonnello Teodor Sepeanu, furono processati l’anno seguente e quasi tutti ricevettero la pena di morte, e la Corte concluse che l’esperimento era stato il risultato di una riuscita infiltrazione di agenti della Guardia di Ferro americani nella Securitate, con l’obiettivo di screditare le forze dell’ordine rumene.
Abbandonato e in rovina, dopo la rivoluzione del 1989 l’edificio fu venduto a un’impresa edile nel ‘91, molte delle strutture vennero demolite o subirono importanti cambiamenti. All’ingresso dell’edificio, venne sistemato un monumento a ricordo delle vittime.
Fra i detenuti a Pitesti, anche molte personalità di rilievo fra cui Gheorghe Calciu-Dumitreasa (1925-2006) sacerdote dissidente rumeno coinvolto nell’attività della Guardia di Ferro fascista, per questo arrestato una prima volta nel 1942, poi nel 1948 per “attività legionaria” e condannato nel 1949 a 8 anni di reclusione per cospirazione. Nel 1957 divenne uno dei torturatori nell’esperimento di Pitesti. Per il suo ruolo ricevette una nuova condanna a 15 anni di lavori forzati, ma fu rilasciato nel maggio 1963 e gli fu assegnata la residenza obbligatoria. Calciu-Dumitreasa fu nuovamente arrestato nel 1978 e condannato a 10 anni di carcere per aver criticato il regime di Nicolae Ceauşescu, durante i sermoni al seminario teologico ortodosso, dove lavorava come professore. Secondo quanto riferito, ha subito percosse e molestie in prigione poi è stato rilasciato, in parte a causa delle pressioni di sostenitori come il presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan. Trascorse anni in esilio in Virginia e alla fine vi si stabilì definitivamente, facendo sporadiche apparizioni a “Voice of America” e “Radio Free Europe”.
Fra i detenuti a Pitesti anche Corneliu Coposu (1914-1995) giornalista e politico, uomo di fiducia del leader del Partito Nazionale Contadino Iuliu Maniu, e membro del Partito Nazionale Contadino fino alla interdizione da parte delle autorità comuniste nel 1947. Dopo la messa al bando del partito fu arrestato e detenuto per 17 anni, durante la fase stalinista del regime comunista in Romania. Con loro anche Alexandru Todea (1912-2002) arcivescovo cattolico e cardinale della Chiesa greco-cattolica rumena, professore di religione, latino e italiano, arrestato più volte fra il 1945 e il ’48, e nominato vescovo di Cesaropoli nel 950 da Pio II.
Il caso Pauker
Un altro nome diventato tristemente celebre nella recente storia rumena, è quello di Ana Pauker (1893-1960), nota in Occidente per essere stata la prima donna a ricoprire la carica di ministro degli Esteri e vice-segretario del Partito Comunista Rumeno (che di fatto dirigeva con pugno di ferro), ma esperta in ben altri campi, come il reclutamento forzato a seguito di un meticoloso quanto demenziale piano di coercizione, basato su torture fisiche e mentali, il tutto in nome della “rieducazione politica”. Gli eccessi raggiunti sotto la sua autorità fecero inorridire anche una Commissione Speciale della NKVD/KGB tanto da decretare la immediata sospensione del programma e l’arresto dei diretti responsabili.
Ana Pauker, il cui vero nome era Hahha Robinsohn,
Nella sua biografia di Ana Pauker (Levy, 2001), l’autore fa un lavoro magnifico nel ricostruire le prove della “deviazione dell’ala destra” della Pauker. Quando arrivò in Romania nel 1944, criticò i “comunisti interni” per aver collaborato con il partiti “borghesi” nella cacciata e nell’arresto del dittatore della Romania in tempo di guerra, Ion Antonescu. Da parte comunista, il principale artefice della partecipazione al colpo di stato fu Emil Bodnaras, i cui documenti mostrano chiaramente che era il principale agente dell’NKVD in Romania. Non è da escludere che, come in molti altri incidenti, diverse fazioni fossero all’opera all’interno della stessa leadership sovietica e che le loro politiche, raccomandazioni o ordini non coincidessero.
Le posizioni della Pauker erano dettate soprattutto dalla consapevolezza che il PCR era una formazione politica in gran parte inesistente, forte di meno di 1.000 membri dopo l’uscita dall’illegalità alla fine della guerra. La campagna di reclutamento di massa del partito chiudeva un occhio sul passato politico e sulla “coscienza di classe” dei nuovi membri, di cui la Pauker era responsabile e per la quale è stata criticata durante la sua epurazione. Tuttavia rimane sconcertante che incoraggiò il reclutamento di ex membri della Guardia di Ferro. La Pauker era lontana dall’ignorare la difficile situazione degli ebrei e non poteva essere insensibile al segnale inviato dall’avere i principali responsabili dei pogrom unirsi ai ranghi del PCR.
Consapevole com’era che la legittimità può essere costruita solo se il partito riesce ad attirare dalla sua parte alcuni segmenti dell’intellighenzia di etnia rumena (la maggior parte dei quali guardava con sospetto all’importanza dei leader ebrei nella gerarchia dei primi tempi del partito), la Pauker era nota per aver nominato regolarmente intellettuali, studiosi e figure culturali non comuniste come ambasciatori della Romania dopo essere diventato ministro degli esteri nel 1947.
Il vero nazionalista fra i comunisti rumeni, tuttavia, non era la Pauker ma Lucretiu Patrascanu. Se Ana Pauker dovette la sua fama alla morte di Stalin, il tragico destino di Patrascanu fu segnato dal colpo fatale del dittatore russo del marzo 1953.
La sua popolarità, inoltre, era salita alle stelle dopo un discorso tenuto a Cluj, capitale della Transilvania, nel 1946, in cui dichiarava di essere “prima romena e poi comunista” e in cui attaccava il nazionalismo ungherese, sullo sfondo del destino ancora incerto della Transilvania settentrionale.
La Pauker aveva condannato il colpo di stato di palazzo e le sue posizioni in quel momento non erano affatto più amichevoli verso Lucretiu Patrascanu (1900-1954, fra i fondatori del Partito Comunista Rumeno) di quelle di Gheorghe Gheorghiu-Dej (1901-1965,) esponente di riferimento del partito e capo dello Stato dal marzo 1961 al marzo 1965.
Quando Patrascanu guidò una delegazione rumena a Mosca per negoziare l’armistizio all’inizio di settembre 1944, la Pauker era ancora nella capitale sovietica e, per ordine del Cremlino, all’inizio non lo avrebbe nemmeno ricevuto, anche se alla fine lo fece. Indignata per le posizioni che aveva mostrato durante quei negoziati in difesa degli interessi nazionali rumeni, Pauker confidò in seguito alla sua famiglia di aver considerato Patrascanu “antisovietico”. C’era quindi ben poco per aspettarsi che Patrascanu si schierasse dalla parte della Pauker contro Dej negli infiniti cambiamenti di alleanza e nelle lotte tra fazioni all’interno del partito che furono avviate dopo la “liberazione”.
Nel 1947, tuttavia, Stalin aveva ordinato ai rumeni di collegare Patrascanu all’arresto dei dirigenti dei “partiti storici” e in sostanza, l’azione doveva mettere gli antagonisti uno contro l’altro per avere un solo riferimento di provata fedeltà.
La Pauker si oppose all’arresto di Patrascanu e quando fu arrestato per la prima volta nell’aprile 1948, tentò senza successo di ottenere il suo rilascio. Sottoposto a interrogatorio, Patrascanu crollò dopo essersi confrontato con la testimonianza di Nicolae Betea. Lo stesso Betea non sapeva che lo scenario che aveva proposto a Patrascanu era stato una provocazione ideata dai servizi segreti sovietici e Patrascanu finì per confessare di aver accettato la proposta, anche se “solo per sbarazzarsi di Betea”.
Con l’indagine trasferita al ministero degli Interni sotto Georgescu, Patrascanu ora sembrava relativamente sicuro. Nell’agosto 1950, tuttavia, la Pauker soffrì il suo primo attacco di cancro, subì un intervento chirurgico a Mosca e per qualche tempo fu emarginata dalla leadership. A quel punto, Remus Koffler, un ex membro del CC detenuto in preparazione del caso Patrascanu che fino a quel momento si era rifiutato di fare qualsiasi confessione incriminante, è stato avvicinato da “qualcuno del Comitato Centrale” (come stabilito dall’inchiesta del 1967) e attirato “nel interessi del Partito” per confessare che insieme a Patrascanu, l’ex leader della PCR Stefan Foris (liquidato su ordine di Dej nel 1946) e altri membri del partito, aveva servito come agente della polizia segreta tra le due guerre e aveva operato in Gran Bretagna.
Sebbene Koffler avrebbe ritrattato la sua confessione, Dej lo menzionò in un discorso pronunciato nel maggio 1951. Eppure Georgescu, ancora responsabile delle indagini, si rifiutava categoricamente di usare la forza fisica, Patrascanu non confessava in nessuna circostanza, mentre Pauker non menzionò mai Patrascanu nel suo discorsi – nemmeno dopo che il Cominform ha deciso di metterlo nella stessa scatola con gli altri “agenti imperialisti”. Con il sostegno di Pauker, Georgescu fermò nuovamente le indagini nell’estate del 1951. Fu solo dopo la cacciata della fazione Pauker-Luca-Georgescu nel 1952, con il nuovo ministro degli Interni Alexandru Draghici incaricato delle indagini, che le persone coinvolte ricevettero il verdetto luce per “usare tutti i mezzi e le procedure della forza morale e fisica per ottenere la prova adeguata che Lucretiu Patrascanu era stato un agente della Siguranta e una spia anglo-americana”. La pressione sovietica per organizzare un processo al gruppo Patrascanu si fermò, tuttavia, dopo la morte di Stalin. L’interesse di Mosca per avere un vero leader popolare al comando in Romania, tuttavia, era apparentemente meno acuto che nel caso dell’Ungheria o della Polonia. Di conseguenza, quando l’inviato della PCR Miron Constantinescu fu inviato a Mosca con il dossier di Patrascanu per l’approvazione al suo processo nel 1954, i sovietici non posero il veto.
Ciò che rimane – e probabilmente rimarrà per sempre – non chiaro, è fino a che punto i tentativi della Pauker di proteggere Patrascanu dal suo destino derivassero dalla sua realizzazione che lei potrebbe condividere il suo destino, o da alcune tracce residue di umanità. In altre parole, si trattava di un atteggiamento da perdente di autodifesa stalinista o era “stalinismo dal volto umano?” Le prove fornite sembrano puntare in entrambe le direzioni, e ci sono, infatti, ragioni sufficienti per credere che fosse un misto di entrambe. Molti di quelli processati con Patrascanu (Koffler, che fu giustiziato, Jacques Berman, Hary Brauner, Emil Calmanovici e, ultimo ma non meno importante, Bellu Zilber, la cui “confessione” rese possibile il processo farsa) erano ebrei. All’inizio del 1953, erano in corso i preparativi per combinare i casi Pauker e Patrascanu.
La “Signora di ferro” rumena ha fatto pochissimi progressi nei libri di storia nonostante il suo ruolo significativo come capo non ufficiale del partito comunista rumeno, e di fatto dell’intera Romania, fra il 1947 e il 1952. La prima donna nella storia a ricoprire la posizione più alta in uno stato, come ministro degli esteri e leader non ufficiale del partito, la sua faccia fu trionfalmente incollata su un numero del 1948 della rivista ”Time”, che la definì non solo una donna rigida, ma una stalinista.
Tuttavia, la sua ascesa al potere non ha mancato la retorica e la violenza di una transizione socialista, né il suo governo è stato particolarmente dominato da male o bene travolgenti. In effetti, era in zona grigia, nel suo tentativo di stabilizzare la transizione da un governo fascista autocratico a uno socialista.
Nella sua giovinezza non era particolarmente interessata al socialismo, né al sionismo per quella materia, non fino a quando suo fratello Zalman Robinsohn non si interessò a entrambi. Nel 1915 si unì al Partito Socialdemocratico in Romania, e in seguito all’organizzazione in stile bolscevico modellata sugli organi rivoluzionari del 1917 in Russia. Il suo interesse, tuttavia, non era puramente pratico poiché, come la maggior parte degli ebrei laici dell’Europa orientale, era esperta nella dialettica marxista.
Alla ricerca di migliori prospettive si trasferì in Francia dove fu coinvolta nel movimento comunista dei primi anni ’20, e sposò l’attivista Marcel Pauker.
Anna e Marcel Pauker furono pesantemente coinvolti in attività di sinistra, molte delle quali portarono ad arresti, esiliati in tutta l’Europa occidentale, fino a quando entrambi tornarono in Romania nel 1922. Dopo numerosi bambini e altre attività politiche ritenute illegali dal Regno di Romania, lei e il marito sono stati arrestati e condannati a 10 anni di carcere. Tuttavia, come migliaia di comunisti in Europa, riuscì a sfuggire alla prigione fuggendo a Mosca, un luogo in cui molti dei suoi ideali stalinisti si sarebbero concretizzati.
A Mosca, dove visse per 8 anni, fu istruita nelle le università del Comintern, e incarnò il prototipo della donna socialista. In ogni caso, la Pauker si affermò come donna dalla linea dura, capace di organizzare sé stessa e gli altri politicamente, pur rimanendo fedele ai principi stalinisti che Mosca predicava dalla fine degli anni ’20 e di fatto fu anche incarnazione dell’azione repressiva in Romania.
Tuttavia, il punto più controverso nella storia comunista della Romania è stata la costruzione del canale Danubio-Mar Nero che ha utilizzato migliaia di prigionieri politici nei campi di lavoro. Il progetto, a sua volta proposto da Stalin, entrò in vigore nel 1950 sotto la Pauker. L’entità del suo coinvolgimento o se sia stata sua l’idea di utilizzare prigionieri politici nella costruzione del canale è ancora controversa, ma è certo che fu sempre Stalin a usare il fedelissimo Gheorghe-Dej per invocare una campagna su Ana Pauker fino a quando non è riuscito a rimuoverla dal potere.
Nel 1953 la Pauker fu imprigionata e sottoposta a una serie di brutali interrogatori condotti dalla polizia segreta rumena, con l’aiuto dei sovietici. Tuttavia, con un colpo di fortuna, la morte di Stalin nello stesso anno portò al suo rilascio solo per essere messo agli arresti domiciliari per il resto della sua vita. Nel 1960, Ana Pauker morì nella casa in cui era imprigionata.
Jilava
Anche il penitenziario di Jilava, nel distretto di Ilfov, a Bucarest, soprannominato “la Bastiglia rumena”, era parte della rete di rieducazione politica. Il progettista del complesso era il generale e ingegnere belga Henry Alexis Brialmont (1821-1903) che, insieme al capitano del genio militare rumeno Ioan Clucer (1853-1928), aveva disegnato un sistema di fortificazioni a protezione della capitale. In origine, quando fu inaugurato, nel 1907, il complesso fu battezzato Fortul-13 (Forte n.13), e utilizzato come deposito di munizioni, con una guarnigione di presidio, poi fu adibito a carcere duro in seguito alle migliaia di arresti effettuati durante la rivolta contadina del 1907 nella zona di Ilfov. Durante la Grande Guerra, ospitò i richiamati che rifiutavano l’arruolamento, oppure i condannati per violazione del codice penale militare e, nel secondo conflitto mondiale, fu utilizzata come carcere per i prigionieri catturati dalle truppe tedesche sul Fronte Russo.
Jilava rimase prigione militare fino alla primavera 1948 (quando passò alla Direzione Generale del Ministero dell’Interno, ma fra il 1921 e il 1944, vi furono imprigionati membri del Partito Comunista. Nel 1940, vennero incarcerati 64 politici e dipendenti dell’apparato statale che la polizia uccise deliberatamente nelle celle, nel novembre 1940, come rappresaglia per l’omicidio di Corneliu Zelea Codreanu (1899-1938). Il 1 giugno 1946, nella zona di Valea Piersicilor, comprensorio di Jilava, furono fucilati il primo ministro Ion Antonescu, il ministro della Difesa Mihai Antonescu, e i funzionari di primo piano Constantin Vasiliu e Gheorghe Alexianu.
Fra i detenuti più noti, Constantin Pantazi, generale, capo del Servizio Speciale Informazioni; Eugen Cristescu, vicecapo dell’Agenzia di Sicureza; il ministro Radu Lecca;
lo scrittore dissidente Camil Petrescu; Gheorghe Calciu Dumitreasa, sacerdote; George Ivaşcu, critico e storico letterario; il generale Ion Eremia, e molti altri.
Dalla fondazione, il carcere di Jilava è stato diretto dal colonnello Dumitru Pristaru (1944-‘46); maggiore Vasile Vernescu (1946-‘47); tenente colonnello Constantin Enciu (1947-‘48); colonnello Loghin Berezovschi (1948-‘49); maggiore Nicolae Moromete (1949-‘52); maggiore Ion Ciachi (1952-’54); tenente colonnello Mihai Gheorghiu, (1954-‘61); tenente colonnello Gheorghe Alexandrescu (1962 –‘67).
Nel 1966 nel penitenziario di Jilava, era stata allestita una sezione in cui erano detenuti gli elementi considerati più “ostinati”. Dal 1 agosto 1967 vennero rinchiusi gli accusati di crimini contro la sicurezza dello Stato, i recidivi condannati a più di 10 anni, chi non poteva essere utilizzato per lavorare, gli accusati di reati comuni, indipendentemente dallo stato della recidiva, del reato commesso e della pena, tutti in regime di carcere duro.
Nel 1973 fu inaugurata una nuova area, appositamente creata per il crimine minorile, con centro di accoglienza, osservazione e smistamento, e il carcere minorile. Al posto del carcere per i minori, nel 1975 fu fondato il Penitenziario Giovanile di Bucarest, attivo fino al 1988, quando, con la demolizione del penitenziario di Rahova, vi furono trasferiti detenuti, in un’altra ala completata nel 1990.
Fra il dicembre 1989 e il gennaio 1990 vi fu una rivolta dei prigionieri che riuscirono a fuggire dalle celle, forzando la porta per salire sui tetti degli edifici, e in alcuni luoghi manomettendo i sistemi di sicurezza, ma la sommossa fu repressa senza scrupoli. Alla fine degli anni Sessanta, la struttura entrò a far parte della rete di centri di rieducazione del regime comunista filosovietico e fino alla dittatura di Nicolae Ceaucescu (1918-1989).
Fra il 1948 e il 1964 il Forte n.13 fu utilizzato come prigione di transito per gli oppositori del regime, e il cortile, chiamato anche “Valle dei Peschi” per una antica piantagione di alberi da frutto, era considerato luogo adatto per le esecuzioni capitali. Così, come già detto, il 1 giugno 1946, il maresciallo Ion Antonescu, il ministro degli Esteri Mihai Antonescu, il comandante della gendarmeria Picky Vasiliu e Gheorghe Alexianu, ex governatore della Transnistria, furono uccisi nel giugno 1946.
Oltre a loro, nell’ ottobre 1971 fu giustiziato Ion Rîmaru, criminale e stupratore seriale che terrorizzò la Capitale nei primi anni ’70, accusato di cinque stupri e omicidi, oltre a furti e rapine. Secondo i verbali, attaccava solo donne single e di solito bionde, e solo nelle notti di tempesta. Si crede che sia stato necrofilo e cannibale. Un anno dopo l’esecuzione di Ion Rîmaru, il padre Florea Rîmaru fu trovato morto vicino a una ferrovia. Sarebbe stato gettato dal treno, ma il caso non è mai stato risolto. Si dice che lo stesso Florea Rîmaru abbia ucciso quattro donne nel 1944 nello stesso modo in cui furono uccise le vittime di Ion Rîmaru. L’autore dei crimini era sconosciuto fino a quando, dopo la morte di Florea Rîmaru, le sue impronte digitali sono state confrontate con quelle prese nel 1945, e si concluse che erano identiche, supportando ulteriormente la teoria che Florea, e non suo figlio Ion, fosse il vero assassino seriale che terrorizzava la capitale.
Anche Gheorghe Ştefănescu fu ucciso nel carcere. Fu il protagonista del più famoso caso di evasione fiscale dell’epoca Ştefănescu, noto come “Bachus”, giustiziato nel dicembre 1981, dopo che nella sua casa furono trovati 19 kg d’oro e molto denaro.
La vicenda Ştefănescu, fu rivelata da un dipendente della Securitate che avrebbe comprato da lui del vino per un matrimonio. Secondo ciò che è noto, quando gli è stato chiesto da Ceausescu perché avesse raccolto così tanti soldi, Stefanescu avrebbe risposto: “Volevo rovesciare il regime”. La stessa leggenda narra che, la notte prima dell’esecuzione, “Bacco” si fece completamente decolorare i capelli.
Sighet
Un altro istituto di rieducazione politica era la prigione di Sighet, nei pressi della città di Sighet Marmatiei, in Romania, nella regione di Maramures, ora sede di un Memoriale alle Vittime del Comunismo e della Resistenza.
Sighet venne costruita nel 1897, quando la regione al confine con l’Ucraina faceva parte dell’impero Austro-Ungarico, e la prima destinazione fu per criminali comuni, ma ben presto ospitò anche nemici politici.
Alla fine della seconda guerra mondiale, il rimpatrio dei rumeni ex prigionieri di guerra e deportati in URSS si svolgeva attraverso il centro di smistamento di Sighet, che fu anche centro di raccolta per quei detenuti destinati ai gulag sovietici finché, ne 1948, il carcere venne scelto esclusivamente per i prigionieri politici della nuova élite filosovietica.
Inizialmente fu portato a Sighet un gruppo composto da una ventina di studenti universitarie e anche liceali della Scuola Dragos Voda, arrestati nell’agosto ’48 e rilasciati nel maggio dell’anno seguente, poi contadini.
La notte del 5 maggio 1950 furono condotti nel penitenziario di Sighet oltre cento ex funzionari di tutto il Paese (ex ministri e altri politici, accademici, economisti, militari, storici e giornalisti), alcuni dei quali condannati a pene pesanti, e altri detenuti senza alcuna forma di processo. La maggior parte aveva più di 60 anni. Molte figure importanti della Romania fra le due guerre sono morte in questo carcere. Con l’instaurazione del regime comunista rumeno, la Securitate ha gestito la prigione di Sighet, negli anni ’50-’60, come luogo di detenzione e repressione politica di personaggi pubblici dichiarati nemici di classe,
fra cui il leader del Partito Nazionale Contadino ed ex Primo Ministro della Romania, Iuliu Maniu (1873-1953). Nell’autunno del 1950 furono incarcerati a Sighet circa 45 vescovi e sacerdoti greco-cattolici. Fra coloro che morirono, i vescovi Ioan Suciu (1907-1953), Tit Liviu Chinezu (1904-1955), Valeriu Traian Frentiu (1874-1952) e Anton Durcovici (1888-1951), l’ex Ministro degli Esteri Mihail Manoilescu, che vi morì nel 1953 e il vescovo di Iasi Anton Durcovici, che vi morì nel dicembre 1951; Daniel Ciugureanu, primo ministro della Repubblica Democratica di Moldavia, morto a Sighet nel 950; lo storico e professore universitario a Bucarest, nonché ministro della Propaganda Constantin C. Giurescu, morto nel 1952; Ion Gruia, professore di Diritto Costituzionale a Bucarest, morto nel 1952; Alexandru Lapedatu, professore di Storia all’Università di Cluj, ministro di Stato e presidente della Accademia di Romania, morto nel 1950, e la lista è noteevolmente lunga.
Come per molti altri casi, le autorità non rilasciarono alcun certificato e le famiglie non furono informate.
Nel dicembre 1955, con l’entrata della Romania nell’ONU, la prigione di Sighet tornò a essere luogo di detenzione per criminali comuni, sebbene alcuni prigionieri politici siano rimasti fino all’amnistia generale del 1964. Nel 1977 il carcere venne definitivamente chiuso e trasformato in deposito, gestito dal municipio cittadino, finché cadde in rovina.
All’indomani della rivoluzione del 1989, che ha visto lo smantellamento del regime comunista, nel gennaio 1993 la poetessa Ana Blandiana ha presentato al Consiglio d’Europa un progetto per trasformare l’ex carcere in Memoriale alle vittime di Comunismo e della Resistenza e nel giugno 1997 sono state aperte le prime sale, con l’inaugurazione di uno spazio dedicato al silenzio, nel piccolo cortile del carcere, come omaggio a tutti i prigionieri politici deceduti nella Romania comunista. Come nelle carceri e nei centri di detenzione segreti di tutti i Paesi in tutti i regimi, anche per le misteriose morti di Sighet la lista è davvero impressionante.
Aiud
Situato nella Transilvania centrale, come i precedenti, anche il carcere di Aiud (costruito intorno alla metà del 19° secolo) ha ospitato criminali comuni, assassini e, in particolare, oppositori politici, giornalisti, accademici, intellettuali in genere, industriali, ecc, specialmente durante la seconda guerra mondiale, quando il Paese era governato da Ion Antonescu (1882-1946) e affiliato all’Asse, ma anche durante i decenni successivi. Negli ultimi anni della Guerra Fredda, ad Aiud sono stati internati in sostanza tutti coloro giudicati politicamente irrecuperabili, con condanne ai lavori forzati a vita. Fra il 1948 e il ’49, secondo varie informazioni, pare fossero detenute circa 4.000 persone, con i prigionieri politici isolati dai condannati per reati comuni. Nel 1964 sembra fossero detenute oltre 3.500 persone e, fino al 1964 il numero sarebbe cresciuto fino a oltre 14.000. Di questi, tenendo conto degli atti di morte del municipio di Aiud, 149 persone sono morte durante gli anni 1945-‘47 (la metà accusate di reati politici). Le statistiche della Direzione Generale Prigioni per il periodo 1948-1964, danno 437 morti, ma secondo alcune stime non ufficiali, il numero sarebbe a circa 700. Le principali cause di morte sono state registrate per tubercolosi, polmonite, congestioni, cancro, insufficienza cardiaca o epatica, emorragia cerebrale o meningite, ma sostanzialmente tutti decessi per effetti causati dal trattamento a base di torture fisiche e mentali, alimentazione insufficiente, condizioni di freddo indotto e cure mediche assenti.
Nella prigione di Aiud, secondo informazioni trapelate, sono morti personalità note, come il generale Aurel Aldea (1887-1949), ministro dell’Interno e leader della Resistenza anticomunista; Szilárd Ignác Bogdánffy (1911-1953), vescovo ausiliare di Oradea; Traian Brăileanu (1882-1947) sociologo e politico, accademico dell’Università di Czernowitz; Emil Calmanovici (1896-1956), ingegnere, uomo d’affari e militante, noto per il sostegno finanziario che diede al Partito Comunista Rumeno, e altri ancora.
Gherla
Nel distretto di Cluj, lungo la Strada Andrei Muresanu n.4, sorge il Centro Detenzione di Gherla, adiacente all’omonima cittadina, vicino al fiume Somes (Szamos in ugherese).
Anticamente era una fortezza definita “Szamos-ui-var” (Nuovo Castello di Szamos), e fu costruita nel 1540 da colui che le cronache occidentali conoscono come Giorgio Martinuzzi (1482-1551), ma che in rumeno è noto come Juraj Utjesinovic Martinusevic o Frater Gyorgy, cardinale e tesoriere dell’impero asburgico.
Con decreto imperiale datato ottobre 1785, a sigillo di Giuseppe II d’Asburgo-Lorena (1941-1790), la fortezza di Gherla fu trasformata in prigione, più tecnicamente in “Carcer Magni Principatus Transilvaniae”, ovvero Carcere Maggiore del Principato di Transilvania, secondo la dicitura ufficiale del Sacro Romano Impero. Nel corso della sua storia sotto l’impero austriaco, poi dell’impero austro-ungarico, in Ungheria e infine in Romania, il penitenziario ospitò anche varie attività industriali.
La prigione aveva un’area sotterranea molto grande che poteva ospitare migliaia di persone. Durante il blocco comunista, pare abbia contenuto oltre 15.000 detenuti, fra cui molti ex ufficiali che inizialmente avevano combattuto contro l’Armata Rossa e, attualmente, Gherla pare sdia ancora penitenziario di massima sicurezza. Adiacente alla prigione, si trova un grande cimitero, dove sono sepolti molti detenuti, fra cui Sándor Rózsa (1813-1878), leggendario fuorilegge ungherese, ma anche personalità di rilievo dell’ambiente intellettuale, governativo e sociale i cui nomi però non sono riportati.
I detenuti presenti nella lista sono stati raccolti e scortati nel cortile della prigione, dove il signor Lazăr Tiberiu li ha disposti in cerchio, e ha ordinato loro di accelerare il passo, mettendosi in mezzo. Quindi ordinò alla guardia Fulop Martin di portargli due mazze, usate per trasportare i secchi del cibo, e iniziò a picchiare i detenuti: sulla schiena, sui piedi, sulla testa e così via. Coloro che si sentivano sono stati ulteriormente maltrattati e costretti ad alzarsi e continuare a correre. Quando il signor Lazăr Tiberiu ha lasciato il club, il signor Fulop Martin gli avrebbe presentato l’altro, poiché era preparato per questo.
Alexandru Popa, prigioniero a Gherla fino al 1953, così ricorda: “Gli informatori più importanti utilizzati dall’amministrazione, prigionieri che avrebbero svolto un ruolo chiave nel processo di rieducazione, ma che non hanno subito l’intera prova di Pitesti, erano Alexandru Matei, Octavian Grama, Constantin Ionescu e Cristian Paul Serbanescu. Il primo gruppo di Pitesti, che contava 70-80 detenuti rieducati, arrivò nel giugno 1950. Questo gruppo conteneva alcuni dei prigionieri che erano attivi a Pitesti e furono raccomandati per il procedimento di Gherla: Alexandru Popa, Vasile Pușcașu, Constantin Bogos, Vasile Andronache e Mihai Livinschi. Costituiranno il fulcro dell’attività rieducativa di Gherla. Prima di innescare gli eventi, sono state apportate diverse modifiche in seguito alle direttive della Securitate: Iacob fu sostituito da Gheorghe Sucigan come capo dell’Ufficio operativo (OB) del carcere e Constantin Pruteanu suo vice. Più tardi, Pruteanu fu sostituito da Constantin Avadani e il direttore Lazar fu sostituito dal capitano Constantin Gheorghiu. Sebbene brutale nei suoi rapporti con i prigionieri, Lazăr era un avversario diretto della rieducazione violenta e chiese una direttiva scritta su questa iniziativa, che portò al suo licenziamento. Nel frattempo, con l’aiuto dei prigionieri trasferiti da Pitesti e del gruppo di informatori locali, l’OB creò una forte rete di informatori, controllando tutte le posizioni chiave della prigione, dai leader dell’officina all’ospedale penitenziario. Alla fine di settembre 1950, Sucigan tornò da Bucarest portando l’ordine di iniziare il processo di smascheramento, che fu testato nella stanza 96. I procedimenti erano identici a quelli di Pitești: il capo della rete di informatori selezionava e raggruppava i prigionieri presi di mira, e allo stesso tempo definiva gli informatori che si sarebbero infiltrati in questi gruppi. Le guardie effettuarono le ripartizioni sulla base delle indicazioni dirette dell’OB. In seguito a ciò, è stato mantenuto un ambiente pro-legionario al fine di rafforzare i rapporti fra i detenuti. Poi è arrivato lo shock: ai membri della Guardia di Ferro è stato imposto di autodenunciarsi. Coloro che si sono opposti sono stati picchiati e torturati fino a quando non si sono arresi. Il dottor Viorel Bărbos e l’assistente Vasile Mocodeanu, aiutati da altri detenuti dell’équipe medica, sono stati gli unici ad avere accesso alle vittime, per curare le ferite. Il loro trasferimento all’ospedale del carcere avveniva solo se approvato dall’OB. Le denunce furono scritte davanti ai responsabili del Comitato di Rieducazione, su pezzi di sapone o sacchetti di carta, poi prese in consegna dagli ufficiali della OB e solo in seguito inviate a Bucarest. Le autodenunce non confermate sul campo sono state rimandate alla prigione per la verifica, ovvero per il proseguimento del trattamento.
Le torture variavano: i detenuti erano costretti a stare in posizioni scomode (“posizione di meditazione”) per lunghi periodi di tempo, a volte per giorni interi, seduti con le mani tese, costretti a mangiare senza cucchiaio; dovevano bere acqua salata o mangiare feci e bere urina. Durante l’estate, alcuni venivano tenuti con gli occhiali sugli occhi, indossavano abiti pesanti e trasportavano bagagli pesanti, senza acqua. Alcune torture avevano solo lo scopo di umiliare, come dover soffiare nella lampadina per spegnerla; alcuni furono truccati da donna e fatti ballare per scherno.
Chirică Gabor descrive il suo calvario: “Dopo il pestaggio precedente, un giorno siamo stati portati in mezzo alla cella con altri due detenuti, entrambi dipinti con il dentifricio sul viso. Ci hanno fatto baciare il culo, poi ho dovuto farmi un ditalino e leccarlo. Poi, per due settimane ho dovuto fare esercizi fisici lunghi ed estenuanti, ogni mattina e sera, come rotolamento sul pavimento di cemento, e a volte dovevo sdraiarmi sul pavimento bagnato, indossando solo una maglietta, e fissando la lampadina. Dovevamo fare tutto in queste posizioni, anche mangiare. Chi osava muoversi veniva picchiato. Un giorno mi portarono nell’armadio e mi fecero pulire a mani nude; poi dovetti mangiare il mio pane senza potermi lavare. Poi tornavo a stare in posizioni dolorose, e di nuovo pestaggio. Prima delle percosse, i prigionieri venivano controllati dall’équipe medica, per evitare la morte di coloro che soffrivano di malattie cardiache. In caso di decesso, il medico falsificava la diagnosi sul certificato di morte, indicando di solito malattie di cui il detenuto aveva precedentemente sofferto. Si sono verificati anche tentativi di suicidio: alcuni si sono tagliati le vene con cucchiai affilati, Ion Pangrate ha cercato di tagliarsi la gola con il vetro dalla finestra della cella, e anche tentativi disperati come saltare a testa in giù sul pavimento della cella o nel calderone della zuppa calda. Nel penitenziario di Gherla, al terzo piano si svolgeva la rieducazione violenta, la stanza 99 era il centro principale…”.
Un gruppo di circa 180 prigionieri, guidati da Eugen Țurcanu, arrivò a Gherla nell’agosto 1950 e fu incarcerato nelle celle 103-106. Presto entrarono a far parte della rete di informatori e dell’apparato rieducativo del carcere. Tuttavia, poiché nel frattempo il segreto della rieducazione di Pitesti era stato rivelato e si erano verificati diversi altri problemi, come morti durante il processo stesso, ha portato Avădani a ordinare un rallentamento della rieducazione, ma solo a parole. Țurcanu concepì un piano di diversione e rieducazione per il carcere di Gherla, il cui scopo era continuare il processo di smascheramento, con mezzi non violenti. Il piano prevedeva tre fasi: come per il consueto processo, la prima fase fu di facilitare la creazione di un gruppo pro-Guardia di Ferro e di tirarne su il morale. La seconda fase consisteva nel provocare lo smascheramento del gruppo in una riunione pubblica, isolare i leader e processarli. La terza fase consisteva nell’indottrinamento dei prigionieri con la dottrina marxista attraverso conferenze.
Il piano fu interrotto nel dicembre 1951, all’inizio della terza fase. La rieducazione di Gherla continuò fino al febbraio 1952, quando furono sciolte le ultime stanze di isolamento. All’epoca in cui i primi prigionieri rieducati di Pitești furono trasferiti nel 1950 a Gherla, il carcere ospitava circa 1.500 persone. In seguito alle norme di assegnazione della detenzione, qui furono imprigionati operai e contadini e furono create due sezioni di lavoro: una metallurgica e una falegnameria, ciascuna con più officine. Dopo il successo iniziale della rieducazione a Pitesti, il regime intendeva diffondere la pratica anche in altre carceri e, per ragioni ideologiche, poiché operai e contadini erano in prima linea nella propaganda comunista, il carcere di Gherla fu tra i primi luoghi di detenzione ad attuarla. Il primo direttore fu Tiberiu Lazăr, nato a Budapest di origini ebraiche, i cui genitori, la prima moglie e un figlio erano morti ad Auschwitz. Nominato dalla primavera del 1949, Dezideriu Iacob era l’ufficiale politico. Mentre Lazăr era al comando, le percosse erano una pratica comune. Ad esempio, nel secondo giorno di Pasqua 1950, organizzò un pestaggio generale di oltre 100 detenuti, nel cortile del carcere. Si ha notizia di circa 25 morti su oltre 1.000 sottoposte a rieducazione.
Targsor
Costruita nel 1882, la prigione di Tangsor fu inizialmente destinata ai criminali comuni, poi fu divisa in due sezioni, una per gli studenti sospetti di attività sovversiva e di età compresa tra i 16 e i 20 anni, l’altra per gli ex poliziotti e membri della Siguranta.
Il cibo era dignitoso mentre l’amministrazione, guidata dal direttore Spirea Dumitrescu, era abbastanza solidale. Dopo la riorganizzazione del carcere, fu costruito un laboratorio di tessitura, con lo scopo di fungere da centro di rieducazione al lavoro. Inoltre, l’amministrazione iniziò corsi basati sulle opere di Marx ed Engels. Col tempo le condizioni si sono deteriorate, e anche a Targsor fu raggiunto lo stesso livello delle altre carceri. Un gruppo di circa 100 detenuti vi fu trasferito da Suceava nell’agosto 1949. Di questi, più della metà aveva già aderito al processo di rieducazione. Costituirono un Comitato per la rieducazione e si rivolsero all’amministrazione, cercando sia appoggio nelle loro azioni sia ritorsioni contro coloro che vi si opponevano. Nel marzo 1950, acquisirono il controllo di tutte le posizioni chiave della prigione, dal magazzino e officina alla cucina e all’ufficio postale. Qui viene assegnato un funzionario politico, Iancu Burada in un primo momento, Dumitru Antonescu in seguito. L’adesione alla rieducazione era facoltativa, ma comportava una serie di vantaggi, mentre gli ostili venivano isolati o eliminati dai lavori privilegiati. Viene creata un’organizzazione – denominata 23 agosto – in una struttura simile all’ODCB di Suceava, che presto conta tra 70 e 120 membri. Le attività di rieducazione erano non violente, come leggere articoli da Scânteia o letture pubbliche da opere comuniste.
Nel luglio-agosto 1950, a seguito di un’ispezione da parte degli ufficiali della Securitate e del ministro degli Interni, il direttore Dumitrescu fu sostituito dal capitano Valeriu Negulescu, soprannominato “bestia selvaggia”. La sezione carceraria riservata agli ex agenti di polizia fu trasferita a Făgăraș mentre le condizioni di detenzione peggiorarono. Furono sequestrati libri e oggetti personali, consegnati soprabiti e guanti per impedire fughe, proibite le passeggiate quotidiane e la qualità del cibo diminuì. Il nuovo regime, educato nella prigione di Jilava, non faceva distinzioni fra seguaci e oppositori della rieducazione, e iniziarono i pestaggi.
Tale comportamento si manifestò dopo la fuga di Ion Lupes, el novembre 1950, quando il direttore aggredì i detenuti pistola in pugno e mazza ferrata nell’altra, menando colpi a destra e a manca. Le guardie lo imitarono con obbedienza e, per non sporcarsi gli stivali, saltarono sui reclusi, dall’uno all’altro, e continuarono a picchiare, finché finalmente si stancarono.
A seguire, la testimonianza di Gheorghe Andreica: “La prigione viene gradualmente svuotata fra ottobre e dicembre 1950. I prigionieri furono assegnati o al canale Danubio-Mar Nero o a Gherla, e alcuni furono addirittura liberati.A differenza di Pitesti, il processo di rieducazione a Târgșor in sé non è stato violento, per diversi motivi: essendo giovani, i detenuti non erano considerati portatori di importanti informazioni sulla resistenza comunista, l’azione di rieducazione non è stata fin dall’inizio sostenuta dall’amministrazione e dalla struttura carceraria (tre dormitori di detenzione interconnessi) non consentivano l’isolamento dei prigionieri in piccoli gruppi”.
I campi di lavoro forzato
Per quanto riguarda le condanne ai lavori forzati, queste erano scontate prevalentemente per la realizzazione del Canale Danubio-Mar Nero iniziata nell’estate del 1949, seguendo il percorso segnato dalla Valle Nera, che si estendeva attraverso la Dobrugia settentrionale da est verso ovest. L’idea nacque da una lettera indirizzata da Stalin a Gheorghe Gheorghiu-Dej nel 1948, e il suo scopo era molto più che solo per ragioni economiche. Prima di tutto, doveva essere un progetto di ingegneria sociale, con l’obiettivo dichiarato di creare nuovo personale tecnico e politico. Il regime comunista di Bucarest non poteva finanziare un’impresa così imponente; era un progetto politicamente guidato, inteso a costruire l’Uomo Nuovo, definito dalla dottrina marxista-leninista.
Si trattava di un laboratorio pensato per fornire (in quattro-cinque anni) personale qualificato, disciplinato, con un elevato livello di coscienza, progettisti e capi cantiere di formazione politica, con esperienza.
Fra i forzati che furono impiegati nei lavori sul Canale, Gheorghe Gheorghiu-Dej, che così ricorda il periodo: “…Doveva essere la destinazione finale della vecchia élite politica e sociale. I prigionieri politici erano costretti a lavorare in condizioni estremamente dure, sottoposti a un regime di sterminio e presi di mira per le fasi successive del processo di rieducazione. Mentre l’accento era posto più sulla rieducazione basata sul lavoro che sulla violenza, un gran numero di prigionieri finiva nelle fosse comuni. Dodici campi di lavoro erano stati allestiti lungo il percorso del canale Danubio-Mar Nero-Murfatlar: Cernavodă (Columbia), Chilometro-4 (Saligny), Chilometro-23, Chilometro-31 Castelu (Castello), Poarta Albă (Porta Bianca), Galeș, Cresta-9 (Culme-9), Penisola, Năvodari, Midia, Constanța Stadion e Eforie Nord. Il campo di lavoro di Poarta Albă era il centro di distribuzione dei prigionieri, poiché si trovava a metà strada fra il Danubio e il Mar Nero. Come regola generale, quelli con condanne inferiori a cinque anni venivano tenuti lì, mentre quelli con condanne superiori venivano inviati al campo di lavoro della Penisola. Secondo la documentazione del procuratore regionale di Constanta, tra il 1949 e il 1955 la stragrande maggioranza della forza lavoro era costituita da detenuti politici.
Il campo di lavoro della penisola fu allestito nel giugno 1950, a 12 chilometri da Poarta Albă, sulla riva del lago Siutghiol, di fronte alla città di Mamaia. Consisteva in diverse baracche sagomate ad H, costituite da telaio e listelli di legno intonacati con argilla, poi ricoperti di carta catramata; le estremità della baracca erano riservate alle camere da letto, mentre il traverso, vicino all’ingresso, era adibito a toilette. La gente dormiva su letti a castello, coperti da materassi pieni di cannucce. Il campo poteva ospitare un numero massimo di 5.000 detenuti. Durante la sua esistenza, diversi si succedettero al comando: il tenente Ion Ghinea, primo direttore, seguito da Ilie Zamfirescu, Stefan Georgescu, Tiberiu Lazăr, ex direttore del carcere di Gherla, Petre Burghisan, Eugen Cornateanu.
Il regime di detenzione era molto duro. Generalmente la sveglia era alle 5.00, mentre il programma iniziava intorno alle 6.00, a seconda della distanza dal campo di lavoro al luogo di lavoro. La pausa pranzo durava mezz’ora e il lavoro continuava fino alle 15.30. La quantità e la qualità del cibo variavano. Al mattino veniva servita una zuppa di orzo tostato (“il caffè”), insieme a 250 grammi di pane nero duro e secco. Il pomeriggio e la sera, un barattolo di zuppa d’orzo o di sottaceti accompagnava il quarto di pane. Il cibo aveva un contenuto calorico così basso, che i prigionieri dovevano integrarlo in ogni modo possibile, anche mangiando serpenti, topi, vermi e altro ancora
La penisola era composta da sei siti di lavoro: il cantiere in prossimità del campo Mamaia, dove il compito principale era il carico/scarico dei carri da miniera con ghiaia da scavo. Dappertutto, morti viventi, in abiti colorati, e carri da miniera spettrali”.
Teohar Mihadas testimoniò sul cantiere di Mustata: “Venivano portati ghiaia e rocce da altri luoghi di lavoro per riempire una valle, destinata all’agricoltura, e anche sul Cantiere Canara, dove si scavava la roccia, la si frantumava e si caricava su carrelli. A Ring-Creastă, si scavava il terreno e nel cantiere di Năvodari, dove la sabbia della riva del mare veniva caricata su camion. Parallelamente si lavorava per livellare il terreno dove la ferrovia e la carreggiata avrebbero fiancheggiato il Canale. La quota di lavoro per un detenuto era di solito di 3 metri cubi al giorno, che dovevano essere scavati, caricati sui carri, trasportati, ribaltati e livellati. I detenuti trasferiti da Pitesti nel maggio 1950 furono assegnati a carri da 150 kg, da trasportare per oltre 100 metri. La loro quota era di 3,5 metri cubi al giorno, ovvero 40 vagoni. Coloro che non riuscivano a rispettare la quota venivano perseguitati, a cominciare dalla riduzione della quantità di cibo, dall’assegnazione a lavoro aggiuntivo dopo programma, dalla negazione del contatto familiare di qualsiasi tipo, e dall’isolamento. Alla fine del luglio 1950 furono istituite le brigate disciplinari 13a e 14a, inizialmente composte da ex prigionieri di Pitesti, guidate da Iosif Steier e Coloman Fuchs. La rieducazione violenta fu avviata lì. I prigionieri trasferiti da Piesti e Gherla, che non erano considerati pienamente rieducati, o lavoratori del canale che si opponevano attivamente al regime del campo, furono trasferiti a queste brigate, dove furono torturati fino a quando non si autodenunciarono. Una delle manifestazioni più violente si verificò nel giugno 1951 (in seguito denominata dai prigionieri la “notte di San Bartolomeo”) quando 14-15 detenuti furono brutalmente picchiati nel capannone della brigata 14 da prigionieri rieducati come Maximilian Sobolevschi, Constantin Sofronie, Pompiliu Lie, Ion Lupașcu, Simion Enăchescu, Ion Bogdănescu e altri. I prigionieri con strumenti musicali dovevano suonare, mentre le vittime venivano torturate pubblicamente da due aguzzini.
Così ricorda l’ex detenuto Vasile Gurău: “Il contrabbando di farmaci era praticato nel campo di lavoro. La droga veniva sequestrata dai pacchi dei detenuti e poi rivenduta al mercato nero ai disperati. La gogna era riservata anche a chi cercava di fuggire e talvolta a chi si rifiutava di lavorare. Sono stati registrati casi in cui le guardie hanno sparato a morte ai prigionieri, fingendo tentativi di fuga. Il premio era una licenza di 15 giorni. Uno degli eventi che ha avuto una grande influenza sia sulle condizioni di detenzione del Canale, che sul processo di rieducazione, fu la morte del dottor Ion Simionescu nel luglio 1951. Il prigioniero, di 67 anni, fu ripetutamente torturato dalla squadra di rieducazione, picchiato, affamato e assegnato ai compiti più estenuanti fino a quando, sotto la pretesa di dover andare in bagno, si diresse verso la recinzione del campo, dove fu ucciso dalle guardie di sicurezza. In seguito a ciò, i prigionieri Cicerone Ionitoiu e Constantin Ionascu scrissero e riuscirono a far uscire di soppiatto dal campo e dal Paese una serie di carte che originariamente raggiunsero “Radio Ankara”, via Constanza. Il lavoro forzato nel sito del canale è cessato nel luglio 1953. La maggior parte della forza lavoro della penisola è stata trasferita nelle carceri di Aiud e Gherla. I restanti prigionieri dovettero smantellare le linee ferroviarie e le baracche”.
A causa del lavoro disumano e del regime di detenzione, il bilancio delle vittime è stato alto. Nell’estate del 1951, dietro la struttura medica del campo, si allineavano quotidianamente 4-5 cadaveri, mentre nell’inverno 1952-1953 si registrava lo stesso tasso di mortalità. Le indagini condotte dall’Associazione degli ex prigionieri politici della Romania (AFDPR), sulla base dei registri di morte dei villaggi trovati lungo il percorso del Canale, indicano 6.355 morti durante il periodo 1949-1953.
Com’è noto, quando scoppiò lo scandalo, per coprire la responsabilità dei fatti, la Securitate ha voluto incastrare gli stessi detenuti. Pertanto, il numero di persone a conoscenza della situazione in corso è stato limitato. Tranne i suoi fondatori: Gheorghe Pintilie e Alexandru Nicolschi, i leader dell’OS: Iosif Nemes e Tudor Sepeanu e gli ufficiali politici della prigione, pochissime persone dell’amministrazione, anche quelle a conoscenza del fatto che durante le indagini furono usate percosse, erano a conoscenza dei metodi utilizzati per estrarre le informazioni.
Dal settembre-ottobre 1948, la prigione di Pitesti, designata come struttura di detenzione per studenti e membri della Guardia di Ferro, fu affidata alla direzione di Alexandru Dumitrescu. A seguito della riorganizzazione della Securitate e della creazione del Servizio Operativo, ad ogni carcere fu assegnato un Ufficio Operativo, il cui responsabile era ufficiale politico. A Pitesti era Ion Marina.
Secondo le indagini ufficiali, Eugen Turcanu, e il gruppo di cui faceva parte, furono trasferiti da Suceava a Pitesti nell’aprile 1949. Țurcanu divenne informatore dell’Ufficio Operativo, supportato da Iosif Nemes, capo dell’OS.
Il regime di detenzione di Pitesti era ottimale per tale iniziativa. Nella seconda parte del 1949 le condizioni peggiorarono notevolmente: le sezioni del carcere furono isolate e le comunicazioni fra detenuti completamente interrotte. Le celle erano sovraffollate e il cibo era insufficiente, nessuna assistenza medica, molti erano costretti a fare i propri bisogni nel piatto dove mangiavano.
Secondo le testimonianze, le pene più severe includevano la “Casimca”, una minuscola cella di isolamento, senza luce e ventilazione, estremamente fredda, perennemente sporca di escrementi. Con il progredire del programma, furono costruiti muri esterni intorno alla prigione e, all’interno del perimetro, i cortili furono separati da recinzioni di filo spinato, e isolati da muri di cemento.
Pare che la rieducazione violenta sia iniziata nel novembre 1949, nella cella n.1, su iniziativa di un gruppo guidato da Țurcanu. L’insieme di rieducazione e i metodi di tortura furono perfezionati nel tempo, ma il processo stesso non cambiò nella sostanza.
I verbali degli interrogatori parlano di due gruppi di persone, la Squadra Shock (rieducazione) e il Gruppo Target. La ripartizione dei detenuti all’interno delle celle del carcere era effettuata sulla base delle indicazioni dell’ufficiale politico.
Le percosse erano feroci, i detenuti venivano bastonati o calpestati fino all’incoscienza, molte volte rimanevano irriconoscibili dopo il trattamento. Sempre secondo i verbali, le torture erano varie, e se inizialmente lo scopo era di umiliare i detenuti, in seguito ne fu conseguenza il raggiungimento di un’estesa usura fisica: giorni senz’acqua, costretti a stare in posizioni scomode come sdraiati sulla schiena con un pugnale alla nuca, o togliersi e rimettere i lacci delle scarpe per ore.
Durante lo choc, dopo le botte e le umiliazioni, spesso esercitate da coloro che inizialmente erano considerati amici, i detenuti subito il pestaggio delle guardie e venivano ributtati in cella, non in infermeria, solo se accettavano di autodenunciarsi. Frequenti ispezioni della Croce Rossa hanno denunciato tali condizioni, ma i detenuti non hanno mai accusato ufficialmente nessuno, dicendo che si trattava di normali risse da prigione.
Il processo di auto-denuncia avveniva in più fasi: prima il detenuto doveva confessare tutte le azioni ostili al regime. Il processo si svolgeva in pubblico, sotto la sorveglianza del rieducatore, e i detenuti dovevano essere coinvolti attivamente e porre domande a turno.
Successivamente dovevano rivelare il proprio comportamento ostile prima dell’arresto, in particolare le azioni che potevano aver leso gli interessi del partito comunista partecipando a manifestazioni eversive, risalendo indietro nel tempo fino ai tempi della guerra.
Nella seconda fase il prigioniero doveva esporre pubblicamente la propria biografia, presentare in pubblico i familiari come immorali, criminali e incestuosi e le azioni anti-regime che li avevano portati a essere detenuti. In seguito, il detenuto doveva esporre la dottrina e la pratica comunista, per rafforzare il fondamento teorico. I prigionieri che si autodenunciavano, erano arruolati per la rieducazione e costretti a torturare gli altri.
Dopo varie opere di modifica, il carcere assunse la forma di una grande “T”, dove i prigionieri erano separati in base al tipo di condanna: vi era un reparto per condanne leggere (correzione), e condanne a lungo termine o punizioni ai lavori forzati, poi vi erano i condannati ai campi di prigionia per lavori forzati e detenzione amministrativa – persone su cui le prove del crimine non erano abbastanza forti per essere processate.
Dalla Cella n.1 la rieducazione si spostò alla Cella n.4 dell’ospedale – la stanza più grande, potrebbe ospitare oltre 60 persone – questa è la principale struttura di rieducazione.
Non potendo resistere alla violenza fisica e psichica, alcuni prigionieri tentarono il suicidio. Gheorghe Serban Vătasoiu si suicidò gettandosi attraverso l’apertura fra le scale, prima che fossero installate le reti di sicurezza. Molti sono morti in seguito a percosse e torture. Alexandru Bogdanovici, uno degli iniziatori del processo di rieducazione a Suceava, fu torturato a morte, nell’aprile 1950, principalmente perché considerato un opportunista, che cercava un modo per uscire dalla detenzione.
A partire dal 1950, il Servizio Operativo fu riorganizzato, con Tudor Sepeanu in sostituzione di Iosif Nemes. Una conseguenza di questa mossa fu che l’ufficiale politico di Pitesti, Ion Marina, fu sostituito da Mihai Mircea. Nel febbraio 1951 Sepeanu sarà a sua volta sostituito da Alexandru Rosianu. Questi cambiamenti non avranno conseguenze sul regime di detenzione, poiché la rieducazione continuò fino alla metà del 1951. In questo periodo, molti prigionieri che subirono il processo di rieducazione furono trasferiti in altri centri. La pubblicità negativa intorno a questa attività, l’inchiesta ufficiale del luglio ‘51, guidata dal colonnello Ludovic Czeller, capo dell’organo di controllo amministrativo del DGP, a seguito della quale la maggior parte del personale del carcere di Pitesti fu licenziato o trasferito (il direttore Alexandru Dumitrescu fu sostituito da Anton Kovacs) e il trasferimento di tutti i prigionieri politici di Pitesti a Gherla nell’agosto 1951, portarono alla fine della rieducazione violenta. Il bilancio delle vittime di Pitesti pare sia stato di circa 25 morti e oltre mille prigionieri mutilati fisicamente e mentalmente, ma il dubbio che siano realmente molti di più è quanto meno lecito.
Bibliografia
“Controlavaggio del cervello o controeducazione come possibile concept“ – Ruxandra Cesereanu, 2003;
“Sulle spalle di Marx. Introduzione alla storia del comunismo rumeno“ – Adrian Cioroianu, 2005;
“Pitesti“ – Virgil Ierunca, 1981;
“La memoria nel presente“ – Ilie Popa, ristampa;
“Geografia e cronologia del gulag rumeno“ – Romulus Rusan sul memoriale di Sighet;
“Tragedia Pitesti“ – Cassian Maria Spiridon, 2003;
“Come vengono travisati i processi comunisti in Romania“ – E.Dragomir/M.Stănescu, 2010;
“Rieducazione nella Romania comunista“ – Mircea Stănescu, 2012;
“L’eredità psicologica del trauma sovietico“ – Robert J.Lifton/ Jacob D.Lindy, 2001;
“Confessioni di un ex prigioniero politico“ – Emanoil Mihaiescu, 2010;
“Dizionario dei penitenziari nella Romania comunista (1945-67)“ – Andrei Muraru, 2008.
Lascia un commento
Devi essere connesso per inviare un commento.