“For the dead and the living we must bear witness” (Elie Wiesel).
Nel 1938, sulla falsariga delle leggi razziali emanate nella Germania di Hitler, anche il fascismo promulga una serie di regi decreti-legge, firmati anche da Vittorio Emanuele III, a partire da quello del 5/09/1938, n.1390, che si concludono con la legge del 13/07/1939. Entrano così in vigore una serie di provvedimenti che si originano dall’articolo “Il fascismo e i problemi della razza” del 14/07/1938 sul Giornale d’Italia e dal “Manifesto della razza” apparso il 5/08/1938 sul numero 1 della rivista di Telesio Interlandi “La difesa della razza”. Tra le conseguenze di queste leggi vi è l’espulsione degli ebrei dalle scuole di ogni ordine e grado, ed il divieto di essere ammessi come insegnanti nelle scuole e nelle università. Curiosamente gli studenti universitari già iscritti a precedenti anni accademici hanno la possibilità di proseguire gli studi.
Ciò permette a Primo Levi di laurearsi in chimica a Torino nel 1941 con ottimi voti anche se nessuno dei professori lo aveva accettato come allievo interno, “sarebbe stata un’imprudenza troppo grave” (1). Sempre a Torino si laurea nel luglio del 1943 in medicina Luciana Nissim, originaria di Biella, mentre la sua amica torinese Vanda Maestro si laurea in chimica a Genova nel 1942. Come regalo di laurea la famiglia offre a Luciana una vacanza a Courmayeur insieme a Vanda. Lì, dopo pochi giorni, il 25 luglio, apprendono che il fascismo è caduto, e tornano piene di gioia e di speranza a Torino fra gente festante e simboli littori abbattuti a furor di popolo. Ma l’8 settembre, con la resa dell’Italia agli Alleati, le truppe tedesche invadono rapidamente la penisola senza praticamente incontrare alcuna resistenza. Gli ebrei italiani, col Manifesto di Verona del 14 novembre 1943 della RSI (Repubblica Sociale Italiana), che al punto 7 qualifica gli appartenenti alla “razza ebraica” come “stranieri” e, durante la guerra, “nemici”, passano dalla “persecuzione dei diritti” attuate con le leggi razziste dell’autunno del 1938, alla “persecuzione delle vite”. Arresti di ebrei italiani e stranieri avvengono in tutta la penisola ad opera dei tedeschi ma anche delle milizie della RSI, che attraverso l’Ordinanza di Polizia n. 5 del 30 novembre 1943, firmata dall’allora Ministro dell’Interno Buffarini Guidi, ordina a tutte le forze di polizia italiane l’arresto degli ebrei e il loro internamento in campi di concentramento temporanei, da dove poi saranno deportati per l’eliminazione fisica definitiva in prevalenza al campo di sterminio polacco di Oswiecim (Auschwitz) a partire dal settembre 1943.
Luciana e la sua famiglia scappano insieme a Vanda da Torino rifugiandosi nei pressi di Brusson, in Valle d’Aosta, oramai piena di cittadini sfollati dalle città bombardate, di ex-soldati, di giovani che tentano di sfuggire all’arruolamento fascista. Nello stesso periodo Primo Levi, con la madre e la sorella, che poi fuggiranno in Svizzera, si era imboscato in una pensione di Amay, sopra Saint Vincent, a circa 1500 metri, col proposito di unirsi ad una banda partigiana di pochi elementi collegata al movimento Giustizia e Libertà. Altre bande partigiane si andavano formando nelle medesime zone ed i rapporti tra queste varie ed improvvisate unità, erano spesso precari. Salgono ad Amay da Brusson anche Luciana Nissim e Vanda Maestro. Scriverà Primo Levi “ Avevamo freddo e fame, eravamo i partigiani più disarmati del Piemonte, e probabilmente anche i più sprovveduti” (2) e Luciana in una intervista del 1995 racconterà: “Io ero avanti, avevo già trovato Primo Levi, abbiamo deciso io e Vanda di unirci ai partigiani (….). Vanda la ricordo come una persona fragile, timida, spaventata, debole, la vedo poco nei panni dell’eroina, però mi dicono che aveva fatto, per esempio, la staffetta. Devo dire che tante cose non le sapevo, le ho scoperte dopo” (3). C’è un ricordo di Vanda, attribuito a Primo Levi, che così la descrive in quel periodo “ Chi la vide allora, su per quei sentieri già sepolti sotto la neve, non ne può dimenticare il viso minuto e gentile, segnato dallo sforzo fisico e da una più profonda tensione: poichè per lei, come per i migliori di quel tempo e di quella condizione, la scelta non era stata facile, né gioiosa, né priva di problemi” (4).
Sulle montagne di Amay succede un fatto che turberà profondamente i tre amici ed in particolare Primo Levi al punto che tenterà invano di rimuoverlo ed in ogni caso di non parlarne se non implicitamente; sarà una sorta di battesimo di violenza e di assurda crudeltà, quasi anticipatrice dell’orrore del lager. Alcuni capi della sua formazione partigiana decidono l’esecuzione sommaria di due loro compagni diciottenni, giudicati ribelli e pericolosi, mitragliandoli alle spalle all’alba del 9 dicembre 1943 su un campo innevato del Col de Joux. Le ragioni ed il clima di questo duplice omicidio fra partigiani e la ricerca dei presunti autori di una condanna eccessivamente severa “per due ragazzi sbandati che le circostanze avevano reso incompatibili con le regole della guerra partigiana” (5) sono state indagate in dettaglio in due recenti volumi di Sergio Luzzatto (6) e Frediano Sessi (7). In tutta la sua opera letteraria, Primo Levi dedicherà solo un breve accenno a questo episodio, terribilmente traumatico per la sua sensibilità e la sua stessa formazione culturale ed etica, nel capitolo intitolato “Oro” del libro “Il sistema Periodico” del 1975 (2). Scrive ““Fra noi, in ognuna delle nostre menti, pesava un segreto brutto: lo stesso segreto che ci aveva esposti alla cattura, spegnendo in noi, pochi giorni prima, ogni volontà di resistere, anzi di vivere. Eravamo stati costretti dalla nostra coscienza ad eseguire una condanna, e l’avevamo eseguita, ma ne eravamo usciti distrutti, destituiti, desiderosi che tutto finisse e di finire noi stessi; ma desiderosi anche di vederci fra noi, di parlarci, di aiutarci a vicenda ad esorcizzare quella memoria ancora così recente. Adesso eravamo finiti, e lo sapevamo: eravamo in trappola, ognuno nella sua trappola, non c’era uscita se non all’in giù”.
Il prefetto di Aosta Cesare Augusto Carnazzi ha il compito di “ripulire” le vallate aostane dai partigiani, e si serve di una spia di comprovata abilità, Edilio Cagni. Questi riesce sotto falso nome ad infiltrarsi fra i partigiani ed a venire anche a conoscenza del gruppetto di Levi ad Amay (Cagni, a guerra finita, sarà condannato una prima volta, nel 1946, a morte, una seconda, nel 1947, a trent’anni, una terza, nel 1949, a venti, e poco dopo, nel 1950 uscirà di galera). Nella notte fra il 12 ed il 13 dicembre del 1943 le milizie fasciste, forti di circa 300 soldati, portano a termine un vasto rastrellamento che include i ragazzi di Amay. Primo, Luciana e Vanda sono trasferiti ad Aosta dove rimangono prigionieri nella locale caserma due mesi prima di essere trasferiti nel campo di Fossoli, vicino a Carpi, dove venivano concentrati tutti gli ebrei catturati nell’Italia del nord. Scelgono di dichiararsi ebrei nella speranza di evitare una immediata fucilazione che si temeva potesse essere riservata ai traditori del regime, probabilmente ignorando o comunque sottostimando il destino che, proprio in quanto ebrei, li attendeva. L’internamento a Fossoli dura un mese; il campo è gestito dagli italiani in modo umano al punto che Luciana racconta “Noi eravamo vestite in pantaloni e giacca a vento, ci sentivamo molto carine (…). Poi abbiamo conosciuto altri ragazzi. Questo Franco Sacerdoti, che tu sai, è un ragazzo a cui ho voluto molto bene, proprio qui. E stavamo sempre insieme noi quattro, Primo, Vanda, io e Franco Sacerdoti. Facevamo le cose che dovevamo fare, il lavoro, accoglievamo la gente, stavamo a chiacchierare insieme” (3). Quando il numero degli ebrei ammassati raggiunge le 650 persone, intervengono le SS che hanno l’ordine di trasportare questo “materiale biologico”, come lo definisce il pianificatore del genocidio, l’Obersturmbannführer delle SS Adolf Eichmann, ad Auschwitz. La partenza da Fossoli avviene il 23 febbraio 1944. Il viaggio, magnificamente raccontato nel libro di Levi “Se questo è un uomo” (8) dura oltre tre giorni; circa 50 persone sono stipate dentro ogni vagone merci piombato, al freddo, senza cibo, senza acqua, senza latrina, pigiate in modo indescrivibile l’uno addosso all’altro, senza sapere quale sia la destinazione in quanto nessuno conosce il nome Auschwitz letto sui cartelli fissati ai vagoni. Riferendosi a questo viaggio Luciana dirà in una intervista del 1998: “Però io ricordo questo Franco che poi è morto, comunque, con grande dolcezza. Come qualcuno che veramente mi ha aiutato, come io ho aiutato lui. Affinchè questo viaggio verso la morte fosse anche un viaggio di vita. Ecco, questo è il punto. Era un viaggio di vita. Un viaggio d’amore, insomma. Sembra incredibile, ma così è stato per me. E anche per Primo e Vanda, in fondo. Primo ha amato molto Vanda” (3). Levi scrive “Accanto a me, serrata come me fra corpo e corpo, era stato per tutto il viaggio una donna. Ci conoscevamo da molti anni, e la sventura ci aveva colti insieme, ma poco sapevamo l’uno dell’altra. Ci dicemmo allora, nell’ora della decisione, cose che non si dicono tra i vivi. Ci salutammo, e fu breve; ciascuno salutò nell’altro la vita. Non avevamo più paura” (8). Sul treno molte persone non hanno la consapevolezza di essere comunque già condannati; scrive Luciana “ Hanno preso con sé materassi, lenzuola, bauli, valigie, pellicce; hanno anche denaro e gioielli cuciti nei risvolti dei cappotti, nascosti dappertutto; sono convinti che salveranno sé stessi e la loro roba. Vanda ed io non ci facciamo molte illusioni sul nostro destino; perciò, abbiamo indossato i nostri indumenti più caldi e abbiamo lasciato la maggior parte del nostro bagaglio a Fossoli” (3).
Arrivati ad Auschwitz i 650 ebrei sono fatte scendere; Primo, Vanda, Luciana e Franco decidono di dire che sono parenti per cercare di rimanere insieme ma una SS allontana brutalmente i giovani dalle ragazze. “Non abbiamo il tempo di dirci una sola parola: dal loro gruppo Franco e Primo si volgono a guardarci con occhi infinitamente tristi; so che pensano che se ora faranno qualcosa di male alle donne, loro non saranno più vicini a noi per aiutarci” (3). I prigionieri vengono divisi in tre gruppi: gli uomini adatti al lavoro (96 tra cui Primo Levi e Franco Sacerdoti), le donne valide (29 tra cui Luciana e Vanda), e tutti gli altri (525 persone) che comprendono vecchi, ammalati, bambini e madri che non hanno voluto abbandonare i loro piccoli. I 525 deportati del terzo gruppo vengono stipati su una fila interminabile di camion, portati immediatamente nelle camere a gas dove vengono uccisi col Zyklon B, un prodotto a base di acido cianidrico, e bruciati poi nei crematori senza neppure essere immatricolati nel campo. Dei 96 uomini ne ritorneranno 10, delle 29 donne se ne salveranno quattro. Ad Auschwitz furono uccise circa tre milioni e mezzo di persone. Come ha scritto lo stesso Rudolf Höss, l’Hauptsturmführer delle SS comandante del campo, nel suo memoriale autobiografico (9) “Auschwitz divenne il più gigantesco centro di sterminio di tutti i tempi” dove veniva perpetrata “La soppressione dei corpi razzialmente e biologicamente estranei”. Sempre secondo Höss “La massima cifra di persone gasate e cremate in un giorno fu di un po’ più di 9000 ”. Racconta la Nissim che nell’ultimo anno di guerra ”i crematori lavoravano senza posa; fumo e spesso grandi fiamme uscivano orrende dai camini” (3). Scriverà la poetessa ebrea-tedesca Nelly Sachs all’inizio della poesia “Oh, i camini” (“Oh die Schornsteine”) (10):
Oh, i camini
Sulle ingegnose dimore della morte,
quando il corpo di Israele si disperse in fumo
per l’aria –
e lo accolse, spazzacamino, una stella
che divenne nera
o era forse un raggio di sole?
Primo Levi, grazie alla sufficiente conoscenza del tedesco ed alla sua competenza di chimico, finisce nel lager di Monowitz (Auschwitz III) dove è in avanzata fase di costruzione un complesso industriale chimico della I.G.Farben, che impiega 10.000 detenuti e dove viene inviato anche Franco Sacerdoti. Verso il 10 gennaio del 1945, all’avvicinarsi delle truppe russe, Levi si ammala di scarlattina e viene ricoverato nell’infermeria. Dopo pochi giorni, il campo è sgombrato completamente in poche ore per ordine delle SS ed i circa 150.000 prigionieri in grado di camminare sono avviati a piedi, con un freddo polare e senza cibo, per giorni e giorni, verso i lager più all’interno del Reich, cioè Buchenwald, Mauthausen e Dachau. Racconta Levi “Non più di un decimo sopravvisse a quella spaventosa deportazione entro la deportazione. (….) Io, con i malati, restai all’infermeria di Monowitz” (1). Le SS dovevano incendiare le baracche dell’infermeria in modo che non restasse più traccia e testimonianza del lager, ma un provvidenziale bombardamento mette in fuga i tedeschi. “Noi malati restammo dieci giorni abbandonati a noi stessi, senza cibo e senza cure, nelle baracche sventrate. Più della metà erano morti di fame o di malattia quando i russi arrivarono, il 27 gennaio 1943” (1). Franco Sacerdoti viene probabilmente fucilato in un bosco, nei pressi della stazione di Gleiwitz, durante la “marcia della morte” del gennaio 1945 dopo l’evacuazione dal lager di Monowitz.
Luciana Nissim riuscirà a salvarsi. Arrivata insieme agli altri a Birkenau da Fossoli è selezionata sulla banchina, la tristemente famosa “judenrampe”, probabilmente dal dottor Joseph Mengele e avviata a piedi insieme alle altre 29 donne, verso le baracche della disinfestazione. “Poi l’orrore, via i vestiti, la rasatura, il tatuaggio sul braccio, freddo, fame, vergogna, disperazione. (….) Quando è il mio turno , dico la prima frase in tedesco che intanto ho imparato “Ich bin Ärtzin” (sono medico) ed avviene il miracolo. (…) Avere fatto il medico nell’infermeria del campo, pur nelle condizioni atroci in cui lavoravamo, è stato fondamentale per il mantenimento della mia identità, e quindi per la mia salvezza” (3). Alla fine di agosto sarà spostata, sempre come medico, in un sottocampo di Buchenwald per la costruzione di ordigni esplosivi a Hessisch-Lichtenau, a circa 30 km da Kassel. All’avvicinarsi degli alleati, durante un trasferimento ad un altro campo, riesce a scappare e nascondersi in una fattoria fino all’arrivo degli americani.
Diverso è il destino di Vanda Maestro a causa anche della sua scarsa resistenza fisica e l’eccessiva sensibilità e mitezza che le impediscono di reagire alla disumanizzazione progressiva che la vita del lager impone. Vanda è sottoposta all’arrivo a Birkenau alle stesse umilianti procedure raccontate da Luciana. Dopo la depilazione, la doccia e il tatuaggio del numero di matricola, viene rivestita, come le altre, con degli abiti sporchi, vecchi e rotti. Racconta Luciana “Vanda appoggia la testa sulle mie ginocchia: è stanchissima. Il suo braccio le fa male: entrambe abbiamo fame e freddo, non riusciamo a dormire. Non capiamo nulla di quello che è avvenuto, soffriamo enormemente. E sì che per noi è più facile, sia lei che io siamo le sole delle rispettive famiglie che siamo state deportate, e abbiamo la fortuna di essere insieme: e questo è talmente tanto per noi!” (3). L’indomani conoscono una internata triestina, la dottoressa Bianca Morpurgo, che lavora già all’infermeria del lager e proviene dalle carceri di San Vittore a Milano. La Morpurgo accenna alle camere a gas ma, scrive Luciana “Tutte pensiamo che lei è pazza, e le diciamo di tenersi per sé tali storielle inverosimili” (3). Vanda e Luciana dormono abbracciate nella baracca n.9 stipata con circa mille donne che giacciono fino a dieci per scomparto sulla nuda terra oppure su tavolati di legno. “Io e Vanda parliamo poco l’una con l’altra. Una parola ci basta per rievocare lunghe storie, abbiamo tanta vita in comune! Studi, libri, e i bombardamenti, i coraggiosi ragazzi della banda, la prigione di Aosta, Fossoli…Ricordi di lunghe chiacchierate, ricordi di persone care, lontane parole d’amore…Chi potrebbe mai credere che ognuna di noi, grottesco simulacro di donna, ha un tempo ascoltato e pronunziato parole d’amore?” (3). Luciana, intrapreso il lavoro di medico, viene trasferita all’infermeria del campo; finito il suo turno passa quasi ogni sera a trovare Vanda: “Vanda diveniva ogni giorno più debole, il suo visino era ogni giorno più piccolo e sciupato. Gli occhi meno brillanti, il suo spirito meno vivace. Le sue gambe erano gonfie, i piedi piagati, pesanti; camminava con fatica, trascinando a stento gli enormi zoccoli che le scappavano; una parola dura la faceva subito piangere” (3). Luciana tenta di scuoterla anche con rimproveri e di darle speranza dicendole che gli Americani sono già a Bologna e che stanno arrivando i partigiani per liberarli tutti. Vanda, sempre più sfinita, ha tanta paura di non farcela; un giorno dice a Luciana “Se io morirò, e tu un giorno avrai una famiglia, la chiamerai Vanda la tua bambina?”. Promessa mantenuta, ma la piccola Vanda, nata nel 1947, morirà durante il parto. Vanda non riesce a reggere alla spaventosa brutalità della vita del lager, alla violenza, alla sporcizia, alla fame, alle ruberie e la malvagità anche fra gli stessi internati dovute alla necessità disperata e belluina di sopravvivenza. L’amica Luciana non è più a Birkenau, le condizioni di salute di Vanda peggiorano inesorabilmente; dopo un ricovero in seguito ad una forma di dissenteria e ad una grave forma di TBC, viene “selezionata” nell’infermeria e condotta nella camera a gas probabilmente alla fine di ottobre del 1944. Sembra che Vanda avesse chiesto dei sonniferi a Bianca Morpurgo; Giuliana Tedeschi racconta che Vanda, ridotta ad un mucchietto di ossa ricoperto di pelle, si era avvinghiata al collo di Bianca urlando “Bianca salvami, salvami, salvami” (…). ”Non voglio morire, Divento pazza, divento pazza” (11). Bianca riesce a sottrarre dall’armadietto dei medicinali dell’infermeria dove lavora, un tubetto e lo porta di notte, di nascosto, rasentando le baracche, fino all’ultima, il blocco della morte. Ad una finestra serrata chiama Vanda e fra le grate si sporge una mano che ritira il potente sonnifero. Versione confermata da Luciana Nissim che scrive “ Vanda non è tornata, l’hanno selezionata in ottobre perché oramai molto malata: le sue amiche sono riuscite a procurarle un tubetto di sonnifero, così forse non si è accorta, quando l’hanno portata via, povera piccola Vanda che aveva sempre saputo che sarebbe morta” (3). Questo racconto concorda solo in parte con quello riportato nell’articolo “Testimonianza di un compagno di prigionia” del 1953 (4) attribuito a Primo Levi, e sicuramente di sua mano come accertato da Giovanni Falaschi a cui si deve sia la riscoperta dello scritto che la pubblicazione in appendice al suo saggio del 2001 (12). Scrive Levi “Chi da Birkenau è tornato, ci ha raccontato di Vanda, fin dai primi giorni prostrata dalla fatica, dagli stenti, e da quella sua terribile chiaroveggenza che le imponeva di rifiutare i penosi inganni a cui così volentieri si cede davanti al danno supremo. Ci ha descritto la sua povera testa spogliata dei capelli, le sue membra presto disfatte dalla malattia e dalla fame, tutte le tappe del nefando processo di schiacciamento, di spegnimento, che in Lager preludeva alla morte corporale. E tutto, o quasi tutto, sappiamo della sua fine: il suo nome pronunciato fra quelli delle condannate, la sua discesa dalla cuccetta dell’infermeria, il suo avviarsi (in piena lucidità!) verso la camera a gas ed il forno di cremazione”. Levi è informato della morte di Vanda da una detenuta, Olga, che così descrive nel capitolo “Il Campo Grande” del libro “La tregua”: “Olga era una partigiana ebrea croata, che nel 1942 si era rifugiata nell’astigiano con la sua famiglia, e qui era stata internata” e più avanti “Vanda era andata in gas, in piena coscienza, nel mese di ottobre: lei stessa, Olga, le aveva procurato due pastiglie di sonnifero, ma non erano bastate” (13). Sicuramente pensando a Vanda, Primo Levi scriverà il 9 gennaio 1946 la poesia “25 febbraio 1944” (data del suo ingresso nel campo di Monowitz) pubblicata poi nella raccolta “Ad ora incerta” (14):
Vorrei credere qualcosa oltre,
Oltre la morte che ti ha disfatta.
Vorrei poter dire la forza
Con cui desiderammo allora,
Noi già sommersi,
Di potere ancora una volta insieme
Camminare liberi sotto il sole.
1- Primo Levi “Così fu Auschwitz. Testimonianze 1945-1886” a cura di F.Levi e D.Scarpa. Einaudi 2015
2- Primo Levi “Il sistema periodico” Einaudi, 1975
3- Luciana Nissim Momigliano “Ricordi della casa dei morti e altri scritti” a cura di A.Chiappano. La Giuntina, Firenze, 2008
4- Primo Levi “Testimonianze di un compagno di prigionia” in “Così fu Auschwitz. Testimonianze 1945-1986” op. cit.
5- Gad Lerner “Primo Levi e l”ossessione” di Sergio Luzzatto”. La Repubblica, 16/04/2013
6- Sergio Luzzatto “Partigia. Una storia della resistenza”. Milano, Mondadori, 2014
7- Frediano Sessi “Il lungo viaggio di Primo Levi: la scelta della Resistenza, il tradimento, l’arresto. Una storia taciuta”. Venezia, Marsilio, 2013
8- Primo Levi “Se questo è un uomo”. Einaudi, 1958
9- Rudolf Höss “Comandante ad Auschwitz”. Einaudi, 1961
10- Nelly Sachs “Al di là dalla polvere”. Giulio Einaudi editore, Torino, 1966
11- Giuliana Tedeschi “C’è un punto sulla terra…Una donna nel Lager di Birkenau”. La Giuntina, Firenze, 1988
12- Giovanni Falaschi “L’offesa insanabile: l’imprinting del lager su Primo Levi” in “Allegoria”, n.38, anno XIII, maggio-agosto 2001
13- Primo Levi “La tregua”. Einaudi, Torino, 1965
14- Primo Levi “Ad ora incerta”. Garzanti, Milano, 1984
NOTA SULLA DIFFUSIONE DI ALCUNE PUBBLICAZIONI CITATE NEL TESTO. Esiste una vasta letteratura memorialistica sulle condizioni disumane di vita dei prigionieri, sulla spersonalizzazione provocata da violenze crudeli ed assurde sia fisiche che morali, su persone spesso così progressivamente debilitate fisicamente da essere al limite della sopravvivenza, ma nell’immediato dopoguerra i primi resoconti e testimonianze sul sistema concentrazionario nazista ebbero scarsa risonanza. Primo Levi alla fine del 1946 sottopose il dattiloscritto di “Se questo è un uomo” a tre editori, tra cui Einaudi che, per bocca di Natalia Ginsburg disse che a loro non interessava. Levi lo pubblicherà a Torino nel 1947 presso la casa editrice De Silva di Franco Antonicelli con una tiratura di 2500 copie di cui solo 1400 saranno vendute. Ma nel 1958 i tempi sono cambiati e, grazie anche all’intervento di Italo Calvino e di Luciano Foà, segretario generale dell’Einaudi, il libro uscirà in una edizione aggiornata per la casa dello struzzo, raggiungendo rapidamente un successo planetario (8). Sarà pubblicato anche in Germania col titolo “Ist das ein Mensch?” nel 1961 per le edizioni Fischer Bücherei. Una precoce testimonianza è anche quella di Luciana Nissim pubblicata però in modo autonomo solo nel 2008, con un ampio ed accurato commento di Alessandra Chiappano (3), poichè il suo scritto era stato inserito come seconda parte del libro “Donne contro il mostro” di Pelagia Lewinska, edito a Torino da Ramella, nel 1946 ed il nome della Nissim non figurava in copertina. Poco interesse aveva suscitato anche il primo libro di Giuliana Tedeschi “Questo povero corpo” stampato dalla EDIT di Milano nel 1946, a cui farà seguito, con un totale rifacimento ed ampliamento del precedente testo, il citato “C’è un punto sulla terra” (11) del 1988.
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