All’indomani dell’attacco tedesco alla Polonia, il 3 settembre 1939, l’Afghanistan del re Mohammad Zahir Shah (1914–2007) si affrettò a dichiarare la propria neutralità ed estraneità al conflitto che vedeva contrapposte la Germania all’Inghilterra e alla Francia. Nonostante i consolidati legami di cooperazione economico-militare con Berlino (nella seconda metà degli anni Trenta i tedeschi avevano fornito a Kabul notevole sostegno finanziario e tecnico) e la tradizionale, profonda avversione nei confronti della Gran Bretagna, molto saggiamente Zahir preferì evitare alla sua debole nazione un insostenibile confronto militare con l’Inghilterra presente in India. Pur comprendendo le ragioni di tale scelta, Hitler volle comunque tentare di legare quella lontana e strategica regione alle sorti della Germania, affidando al dipartimento di politica estera nazista di Alfred Rosenberg il compito di avvicinare e sostenere alcune personalità politiche e religiose afghane dichiaratamente filotedesche, come il ministro dell’Economia Nazionale, Abdul Majid, che nell’estate del 1939 aveva proposto senza successo al proprio governo un più stretto allineamento con le potenze dell’Asse sia in funzione antibritannica che antisovietica. Pur valutando appieno l’Afghanistan quale importante pedina della politica intercontinentale tedesca, il ministro degli Esteri tedesco Joachim von Ribbentrop sconsigliò, tuttavia, Hitler dall’intraprendere questa manovra che, a parere suo, avrebbero sortito effetti controproducenti, spingendo l’Inghilterra e l’Unione Sovietica ad un intervento diretto in Afghanistan. Nella fattispecie von Ribbentrop temeva che se il governo di Kabul si fosse schierato troppo apertamente con l’Asse, il suo progetto segreto – quello cioè di riportare al potere il terzo figlio dell’emiro Habibullah, il filotedesco Amanullah (che, dopo avere ricoperto la carica di emiro tra il 1919 e il 1926, aveva regnato dal 1926 al gennaio 1929) , a quel tempo in esilio in Italia – sarebbe naufragato. A rimescolare bruscamente le carte sul tavolo tedesco pensò tuttavia lo stesso Hitler che, pur dichiarando la sua amicizia nei confronti di Zahir, modificò la sua strategia cercando di incoraggiare, più o meno esplicitamente, le aspirazioni sovietiche in direzione dell’Afghanistan, dell’India, e dell’Oceano Indiano, a detrimento dell’Inghilterra che a quell’epoca egli considerava il nemico numero uno.
La mossa di Hitler era dettata da ragioni di real politik. Dopo la firma del Patto Molotov-Ribbentrop (23 agosto 1939), Berlino sperava infatti di stornare gli insaziabili appetiti di Stalin (che grazie al consenso tedesco fu poi in grado di dichiarare guerra alla Finlandia, di occupare la Polonia orientale, l’Estonia e, successivamente, nel 1940, la Bessarabia romena) verso l’Asia e più precisamente lungo i confini dell’India britannica. Non a caso, nel maggio 1940, lo Stato Maggiore britannico di Nuova Delhi – al corrente del piano tedesco favorevole ad un’espansione sovietica in Asia – elaborò un piano di guerra segreto (il cosiddetto “Piano A”) per soccorrere il governo di Kabul in caso di attacco da parte delle armate di Stalin. Il progetto avrebbe però richiesto notevoli forze al momento non disponibili, almeno sul territorio indiano, e cioè una divisione corazzata, cinque divisioni di fanteria e una brigata di fanteria di rinforzo. Mentre a quel tempo il governatorato di Delhi poteva contare su appena quattro brigate di fanteria: contingente appena sufficiente per mantenere il controllo dei confini. Di conseguenza, gli inglesi dovettero rinunciare a questa opzione.
Dopo il crollo della Francia (25 giugno 1940), il ministro dell’Economia Nazionale afghana Abdul Majid confidò all’ambasciatore tedesco a Kabul che il suo Paese avrebbe potuto schierarsi con l’Asse in poche settimane, scatenando la guerriglia lungo i confini dell’India britannica, a condizione però di ottenere precise garanzie tedesche in funzione antisovietica. Il ministro richiese poi assicurazioni circa l’ottenimento da parte dell’Afghanistan di un accesso diretto al mare (preferibilmente attraverso l’occupazione di Karachi), e la fornitura da parte della Germania di un grosso quantitativo di rifornimenti, cannoni da campagna e antiaerei, munizioni, autoveicoli, carri armati e aerei (l’Afghanistan disponeva di un apparato militare molto scarso nonostante le riforme avviate negli anni Trenta) (1). Ovviamente, di fronte a tali esose richieste – il cui soddisfacimento si sarebbe comunque rivelato, almeno in parte, tecnicamente impossibile, data la posizione geografica dell’Afghanistan – il governo tedesco tergiversò, cercando di prendere tempo. Nel settembre 1940, il ministro afghano si recò a Berlino per convincere von Ribbentrop a compiere il passo. Abdul Majid non mancò di reiterare le sue precedenti istanze, pretendendo anche l’acquisizione da parte afghana di una vasta porzione dell’India occidentale (l’attuale Pakistan), fino al corso del fiume Indo. Richiesta, quest’ultima, che lasciò senza parole von Ribbentrop. Pur non avendo ottenuto l’impegno tedesco, Majid volle comunque trattenersi a Berlino ancora per qualche tempo (anche per sottoporsi a speciali cure mediche) nel tentativo di convincere i tedeschi circa “la grande opportunità che egli stava loro concedendo”. Nonostante le assurde pretese di Majid, per qualche tempo la Germania continuò a mantenere solidi rapporti con Kabul, rinfoltendo il personale della sua ambasciata e fornendo agli afghani il denaro necessario per sostenere la propaganda antibritannica.
Soldati afghani, anni Quaranta (notare gli elmetti di foggia tedesca).
Il 1° febbraio 1941, Subhas Chandra Bose, uno dei leader del Partito del Congresso indiano (e che più tardi diverrà il capo dell’Esercito Nazionale Indiano schierato con i giapponesi e i tedeschi) giunse furtivamente a Kabul, dopo essere fuggito alla custodia inglese in India. E dalla capitale, grazie all’assistenza dell’ambasciata tedesca, Bose poté recarsi a Berlino (passando comodamente per l’Unione Sovietica, ancora legata alla Germania dal trattato Ribbentrop-Molotov) per offrire a Hitler tutto il suo appoggio nell’ipotesi di una sollevazione anti-inglese lungo il confine indo-afghano. Nella primavera del 1941, la rivolta irachena antibritannica capeggiata dal leader nazionalista Rashid Alì, indusse il governo Kabul a stringere ulteriormente i rapporti con la Germania. In seguito al colpo di stato iracheno e all’accerchiamento della base britannica di Habbaniyah (Irak), Abdul Majid, reiterò le sue proposte, dichiarandosi nel contempo disposto a garantire – non si sa bene in quale modo – “un immediato sostegno afghano ai rivoltosi iracheni”. Vane quanto ipocrite dichiarazioni quelle di Majid. Nonostante gli appelli di Baghdad per ottenere dai paesi firmatari dell’Intesa islamica di Saadabad dell’8 luglio 1937 (Patto di non aggressione siglato nel Palazzo di Saadabad, Teheran, tra i ministri degli Esteri di Turchia, Iran, Irak e Afghanistan) un fraterno ed immediato appoggio, né la Turchia né la Persia, né l’Afghanistan dimostrarono alcuna sensibilità di fronte al grido di dolore di Rashid Alì. E al di là di roboanti proclami inneggianti all’”indissolubile comunione degli stati mussulmani”, in essi prevalse il pragmatismo e soprattutto la prudenza. Successivamente, dopo la rapida repressione da parte britannica della rivolta irachena, il governo afghano ebbe la chiara conferma di quanto la real politik fosse imprescindibile e di quanto la Germania fosse sì forte, ma geograficamente e militarmente troppo distante per potere allungare i suoi tentacoli fino al Medio Oriente e all’Asia centrale.
Vecchi mezzi a motore in dotazione all’esercito afghano negli anni Quaranta. I camion erano rari.
Dall’estate del 1941, le simpatie e soprattutto la fiducia di Kabul nei confronti di Berlino iniziarono quindi a raffreddarsi. Anzi, all’indomani della sconfitta di Rashid Alì, i vertici afghani decisero di avviare un veloce riavvicinamento politico alla Gran Bretagna e all’Unione Sovietica. E in ragione di questa scelta, il governo afghano dovette incominciare a trovare una serie di convincenti scuse per potere rimpatriare tutto il personale tedesco (civile e militare), ma anche italiano, presente sul territorio. Fino dall’aprile 1940, in Afghanistan operavano alcune centinaia di tecnici e operai italo-tedeschi impegnati nella costruzione di fabbriche ed infrastrutture viarie, e diversi agenti segreti nazisti.
Sempre nel mese di aprile del ’40 era, infatti, giunto a Kabul, a bordo di un trimotore da trasporto, un emissario dell’Abwehr (il servizio segreto tedesco dell’ammiraglio Canaris) il capitano Franz Morlock. Questi aveva portato con sé – incluse nelle due tonnellate di ”bagaglio diplomatico” – un certo quantitativo di esplosivi e addirittura una mitragliera Mauser da 20 mm con abbondante munizionamento. Nel luglio del 1941, a Kabul giunse poi uno strano gruppo di “medici” tedeschi, specializzati nella ricerca sulla lebbra che, in seguito, si sarebbero rivelati agenti e commandos appartenenti al famoso Raggruppamento Brandeburg, una speciale unità della Wehrmacht inviata in Asia con il preciso compito di accendere un’insurrezione anti-inglese ai confini dell’India. Gli uomini della Brandeburg e dell’Abwehr ebbero modo di contattare e di finanziare il fachiro di Ipi che da tempo, lungo il confine indo-afghano, infastidiva gli inglesi.
Tutti questi movimenti, che in precedenza erano stati tollerati, se non apertamente appoggiati, dalle autorità di Kabul, misero queste ultime in serie difficoltà nei confronti del governo di Londra. Anche perché i commando tedeschi riuscirono, nel corso di una breve campagna condotta al fianco dei ribelli di Ipi, a fare saltare un ponte, una stazione radio e ad avventurarsi una quarantina di chilometri all’interno del territorio indiano, venendo però successivamente catturati dagli inglesi. Anche se, stando ad altre fonti, furono i reparti regolari dell’esercito afghano – proprio quelli che avevano scortato i commando tedeschi fino al confine – ad uccidere a sangue freddo due di essi e a consegnare gli altri ai britannici. Altre voci riferiscono invece che due “medici” (in realtà agenti sotto copertura) tedeschi vennero freddati proprio mentre tentavano di mettersi in contatto con il fachiro di Ipi. Insomma, le versioni sull’accaduto risultano diverse ed incerte. Come lo è peraltro la notizia relativa ad una seconda missione segreta, compiuta nell’autunno del 1941 in Afghanistan, da un altro gruppo di agenti tedeschi. Secondo alcune testimonianze, una mezza dozzina di paracadutisti tedeschi della Brandeburg sarebbero stati trasportati e lanciati da un quadrimotore da trasporto a lunga autonomia Junkers Ju290 decollato da Rodi, lungo la frontiera russo-afghana, con lo scopo di fomentare una rivolta anti-sovietica. Con l’inizio dell’Operazione Barbarossa (22 giugno 1941), la firma della nuova alleanza tra Inghilterra e Russia e la successiva occupazione militare “preventiva” della neutrale Persia da parte delle forze di Londra e Mosca, il governo di Kabul dovette ottemperare, nell’ottobre 1941, ad una perentoria e congiunta richiesta anglo-sovietica di espellere immediatamente dal paese tutti i tedeschi e gli italiani ancora presenti, civili compresi (sebbene a piccoli gruppi di diplomatici gli afghani concederanno il permesso di rimanere ancora fino al settembre del 1943). E fu così che alla fine di ottobre 1941, duecentosei cittadini dell’Asse partirono alla volta della neutrale Turchia, attraversando l’Iran e l’Irak. Pur trovandosi di fatto sotto il controllo delle forze Alleate (a partire dal luglio del 1942 una missione americana inizierà ad operare a Kabul), il governo afghano continuerà a barcamenarsi, cercando di non spezzare del tutto l’ormai sottile filo che ancora per qualche tempo lo terrà legato a Berlino. Sul finire del 1941, Kabul sarà poi costretta a ripudiare definitivamente l’alleanza con il Terzo Reich: imposizione che gli afgani accettarono per pura sopravvivenza e non certo per particolari simpatie nei confronti dei governi Alleati. Non a caso, dopo la guerra, alcuni esponenti dell’esecutivo dichiareranno apertamente che se durante la guerra la Wehrmacht fosse riuscita a sconfiggere l’Unione Sovietica e i panzer di Hitler fossero comparsi lungo il confine settentrionale del paese, “l’intero popolo afghano non avrebbe certamente esitato a dichiarare guerra a Mosca e a Londra”.
(1) Negli anni ’30, le forze armate del regno, che fino ad allora risultavano arretrate sotto tutti punti di vista, furono soggette ad un processo di riforme. Grazie all’assistenza di consiglieri e istruttori turchi e tedeschi, vennero introdotte nuove e tecniche di addestramento. Nel 1932, a Kabul, fu aperta un’accademia militare a Kabul, proprio con lo scopo di addestrare i sottoufficiali (gli ufficiali superiori vennero, invece, inviati nelle accademie turche). Nonostante l’assistenza straniera, forze armate afgane, risultavano male equipaggiate e prive di moderni armamenti, in quanto la Gran Bretagna, che dalla seconda metà dell’Ottocento influenzò i vari regnanti, aveva ritenuto prudente mantenere sostanzialmente arretrato l’esercito afghano, onde evitare di trovarsi un nemico pericoloso lungo la frontiera pakistana che, nel 1893, l’Inghilterra aveva incorporato nei suoi possedimenti indiani. I primi risultati della riforma dell’esercito si videro nel 1937, quando le forze di terra, ancora parzialmente addestrate e armate, vennero divise due Corpi d’armata, composto ognuno da tre divisioni miste (reclute provenienti dalle varie regioni afghane). Il Comando di tutte le forze dipendeva direttamente dl re, coadiuvato, per le pratiche esecutive e tecniche, dal Ministro delle Forze Armate. Ciascuna divisione includeva da tre a cinque reggimenti di fanteria, uno o due reggimenti di cavalleria, e un solo reggimento di artiglieria, dotato di pezzi piuttosto antiquati. Nel 1938, la forza complessiva dell’esercito regolare (affiancato da numerose, ma male armate ‘bande’ di irregolari) ammontava a circa 90.000 soldati dotati di fucili, mitragliatrici e cannoni di piccolo e medio calibro in gran parte di fabbricazione tedesca; quasi assenti risultavano i mezzi a motore e quelli blindati o corazzati. Nel 1939, l’esercito afghano contava, almeno sulla carta, di 103.000 tra ufficiali, sottoufficiali e soldati. La coscrizione. Tutti i maschi tra i 22 e i 42 anni, erano obbligati a prestare servizio militare per due anni. In caso di guerra, a fianco delle forze armate regolari, il regno afghano poteva disporre (sempre sulla carta) 300.000/400.000 coscritti tribali appartenenti a variegati (e in certi casi inconciliabili) gruppi etnici, religiosi e linguistici. Nel 1942, l’esercito afgano, dotato di non più di 500 cannoni, in gran parte vetusti, e poche armi automatiche, risultava composto da due Corpi (ciascuno composto due divisioni miste), sette divisioni provinciali miste, una brigata mista di guardie della casa reale, e una brigata indipendente. Irrilevante risultava poi la componente aeronautica (300 tra piloti e specialisti addestrati in India , Turchia e Germania, e una dozzina di aerei degli anni Venti/Trenta).
Bibliografia:
Adamec, Ludwig W. Afghanistan’s Foreign Affairs to the Mid-Twentieth Century, Tucson, AZ: University of Arizona Press, 1974
Gregorian, Vartan, The Emergence of Modern Afghanistan, Stanford, CA: Stanford University Press, 1969
Hirszowicz, Lukasz, The Third Reich and the Arab East, London: Routledge & Kegan Paul, 1968
Kirk, George, Survey of International Affairs, 1939-1946:The Middle East in the War, London: Oxford University Press, 1953
Kurowski, Franz, The Brandenburgers: Global Mission, Winnipeg, Manitoba: J.J. Fedorowicz, 1997
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