L’ultima dimostrazione di forza del dragone cinese nei confronti della piccola isola di Taiwan, si è avuta il 4 ottobre 2021, con il volo di un intero squadrone (circa 60 velivoli) che ne hanno violato lo spazio aereo, in assetto da combattimento, dopo una precedente dimostrazione di forza il 1° ottobre, anniversario della proclamazione della Repubblica Popolare Cinese, nel 1949.
Non è certo la prima volta che la Cina invade il cielo taiwanese, con l’atteggiamento del “maschio alpha che marca il territorio” da sempre considerato una “provincia rinnegata”. Questa volta però si è trattato di un fatto senza precedenti: due ondate di aerei, che hanno nuovamente violato lo spazio aereo nazionale di Taiwan, causando lo stato di allarme della difesa aerea sia missilistica che diretta, con il decollo di alcune squadriglie dell’aeronautica militare di Taipei.
Un messaggio chiaro da parte di Pechino, che spera comunque di ridurre all’obbedienza l’isola di Taiwan senza fare ricorso a eccessiva forza militare, ma insistendo con il sostegno di una massacrante propaganda: “Dovete sottomettervi perché non potete evitare il vostro destino, ogni resistenza è inutile”.
La nota diffusa dal governo di Taipei spiega che i caccia taiwanesi sono decollati e si sono pericolosamente avvicinati a una ventina di Su-30 e J-156 cinesi di scorta a un velivolo antisom e due bombardieri H-6 (con capacità di carico nucleare), sopra le isole Pratas. La nota ufficiale prosegue, dichiarando che un secondo gruppo di 13 aerei cinesi (dieci J-6, due H-6 e un ricognitore da preallarme), è stato segnalato sul Canale Bashi, lo spazio di mare che separa Taiwan dalle Filippine, percorso da rotte che collegano il conteso Mare Cinese Meridionale all’Oceano Pacifico. Il ministero della Difesa ha opportunamente inviato diversi messaggi di avvertimento ai piloti cinesi, intimando l’allontanamento, e avvertendo che i sistemi di difesa missilistica erano stati messi in allarme. Insomma, si è raggiunto un livello di tensione estremamente pericoloso, con il rischio che anche un minimo incidente potesse fare scoppiare un conflitto aperto, e non è detto che potesse essere proprio questo lo scopo della dimostrazione di Pechino, volendo apparire come chi viene aggredito. Gli “incidenti” di questo tipo sono all’origine di molte guerre del passato: la conquista italiana dell’Etiopia (l’incidente dei pozzi di Ual-Ual); l’assassinio di Francesco Ferdinando a Sarajevo e la prima guerra mondiale; l’attacco alla stazione radio di Gleiwitz che decretò l’invasione nazista della Polonia; e quindi Vietnam, Libia, Afghanistan e Iraq.
In sostanza, quella cinese è stata un’operazione in grande stile, anche rispetto alla più recente incursione dello scorso giugno, con 28 aerei cinesi.
Il premier taiwanese, Su Tseng-Chang, ha dichiarato: “La Cina sta costruendo in modo disperato il suo potere militare e sta minando la pace regionale”. Il ministero della Difesa di Taipei ha poi specificato che sono stati inviati anche diversi messaggi radio agli aerei cinesi in volo intimando l’immediato allontanamento, mentre il sistema di difesa anti missilistico è stato messo in stato di allarme. Tensione alle stelle e seri rischi che un minimo incidente potesse scatenare un conflitto aereo vero e proprio.
Pechino non ha ancora commentato ufficialmente, ma il messaggio, sia per Taiwan che per la comunità internazionale, appare forte e chiaro. In precedenza, la Cina ha dichiarato che questi voli servivano a proteggere la sovranità cinese sull’ isola ribelle, e smantellare la complicità fra Taipei e Washington, principale sostenitore dell’indipendenza di Taiwan.
Il pressing di Pechino si è fatto sempre più pesante negli ultimi mesi, e inoltre l’azione militare del 1° ottobre è stata preceduta da una serie di pesanti interventi a livello diplomatico internazionale. Dopo avere interrotto le relazioni con la Repubblica Ceca e la piccola Lituania, ritenute colpevoli, secondo Pechino, di voler stabilire relazioni ufficiali con Taiwan, ieri la Cina ha protestato anche con il governo francese per il previsto viaggio del senatore Alain Richard a Taipei, in programma dal 4 all’11 ottobre. A rischio la rottura delle relazioni diplomatiche fra Pechino e Parigi. Non è un quadro incoraggiante, considerando le veementi proteste cinesi rivolta anche a Bruxelles, dopo che al Parlamento Europeo era passata una risoluzione per dare il via ad accordi commerciali UE-Taiwan, con il ministro degli Esteri Wang-Li che ha dichiarato: “La base politica per sviluppare relazioni con l’UE e i suoi Stati membri, resta il principio di “Una sola Cina”, ovvero il non riconoscimento di una repubblica indipendente a Taiwan, che per la Repubblica Popolare dovrà essere annessa con ogni mezzo, anche con la forza”.
Il tutto, mentre per le strade e le piazze di Taipei, i taiwanesi hanno chiaramente dimostrato di non voler appartenere a Pechino e di essere più che mai determinati a lottare per la propria indipendenza, protestando anche per le repressioni in atto a Hong Kong e per l’occupazione del Tibet, del quale la comunità internazionale sembra disinteressarsi.
Un duello decennale
La storia delle controverse relazioni fra Cina e Taiwan risale alla fine della seconda guerra mondiale, nel 1945, quando l’amministrazione dell’isola passò dal Giappone sconfitto alla Cina vincitrice, e dallo scoppio della sanguinosa guerra civile cinese del ’46, oltre alla disputa ancora insoluta sul confine marittimo che separa le due entità.
La situazione rimase poi in sospeso, finché in Cina emerse chiara la vittoria del Partito Comunista e la Repubblica guidata dal Kuomintang si ritirò a Taiwan, dove stabilì la capitale provvisoria, mentre veniva proclamata la Repubblica Popolare Cinese con capitale Pechino, e con Mao Zedong (1893-1977) salito al potere.
Da allora, le relazioni fra i due governi sono state caratterizzate da tensioni e instabilità, per il fatto che la guerra civile si era fermata solo formalmente con la firma del trattato di pace, ma i due Paesi sono tecnicamente, ancora oggi, in stato di guerra. Nei primi anni ‘50 i conflitti militari continuarono, mentre i rispettivi governi facevano a gara per ritenersi ciascuno il “legittimo governo cinese”. Più recentemente, la questione si è imposta sullo status politico e legale di Taiwan che si è focalizzato nel possesso delle acque dello Stretto di Taiwan e quindi, in ultima analisi, nell’unificazione dei due Paesi o nel riconoscimento della piena indipendenza di Taiwan. La Repubblica Popolare Cinese rimane ostile a ogni forma di dichiarazione di indipendenza e mantiene le proprie pretese su Taiwan. Nel contempo, si sono incrementati gli scambi non governativi o semi-governativi. Dal 2008, sono anche iniziati negoziati per ristabilire i “tre collegamenti” fondamentali per i due stati (trasporti, commercio e comunicazioni) drasticamente tagliati dal 1949 e sono anche ripresi i negoziati fra i relativi governi, ma tutto appare estremamente aleatorio.
I primi contatti storici fra Cina e Taiwan furono di tipo culturale, sociale e commerciale e fin dai tempi antichi, nessun sovrano cinese pensò mai di incorporare Taiwan nei propri domini. Successivamente arrivò l’era coloniale: fra XVI e XVII secolo, Taiwan attirò l’attenzione prima dei portoghesi, poi degli olandesi, infine degli spagnoli. Nel 1624 gli olandesi stabilirono il primo insediamento a Taiwan e nel 1662, Zheng Chenggong, noto come Koxinga o Cheng Cheng-Kung (1624-1662) che, pur giapponese di nascita, era fedele alla dinastia dei Ming, sconfisse gli olandesi e prese il potere, stabilendo il primo formale regime Han nel Taiwan. Gli eredi di Koxinga utilizzarono il Taiwan come base per lanciare operazioni verso la Cina propriamente detta e contro il Manchu durante l’era della dinastia Qing. Ad ogni modo, vennero sconfitti nel 1683 dalle forze Qing. L’anno successivo, il Taiwan venne incorporato nella provincia di Fujian. Nei due secoli successivi, ad ogni modo, il governo imperiale cinese tributò ben poche attenzioni al Taiwan.
La situazione cambiò radicalmente nel XIX secolo, quando altre potenze occidentali cominciarono a puntare al Taiwan per la posizione strategica e le risorse. L’amministrazione locale corse ai ripari, dando inizio a un massiccio programma di rinnovamento e rafforzamento delle difese poi, nel 1887, fu istituita la Provincia di Fujian-Taiwan. Dopo circa un decennio, la piccola isola era diventata la parte più moderna e progredita dell’impero cinese, finché ebbe termine la dinastia Qing che decretò una sorta di blocco dello sviluppo. Con la prima guerra cino-giapponese del 1895, Taiwan diventò possedimento giapponese e a poco servirono le sommosse popolari dei lealisti cinesi che dichiararono la Repubblica di Taiwan, represse drasticamente.
Il Giappone governò il Taiwan sino al 1945 che, come parte dell’impero del Sol Levante, fu pesantemente limitata in ogni forma di relazione con Paesi stranieri. Con la resa del Giappone nel ’45, Taiwan passò quindi all’amministrazione alleata UNRRA (United Nations Relief and Rehabilitation Administration), che si affidò al governo del Kuomintang, considerato preda della corruzione e del nepotismo.
La Crisi dello Stretto
Il periodo post-bellico 1945–1949 fu caratterizzato da conflitti locali, come il cosiddetto “incidente del 28 febbraio 1947”, quando una sollevazione anti-governativa (nata da un litigio fra una venditrice di sigarette e un ufficiale della polizia anti-contrabbando) fu violentemente soffocata dallo stesso Kuomintang, con la morte di numerosi civili, soprattutto a Taipei e Kaohsiung, e segnò l’inizio del “Terrore Bianco”, durante il quale migliaia di taiwanesi scomparvero, furono uccisi o imprigionati.
Com’è noto, in quegli anni la Cina era in preda alla sanguinosa guerra civile, dalla quale uscì vincitore Mao Zedong che fondò la Repubblica Popolare Cinese, mentre il governo sconfitto si rifugiò proprio a Taiwan.
Le due amministrazioni continuarono a rimanere in uno stato di guerra fino al 1979, ma già immediatamente dopo la presa del potere, Mao Zedong tentò di prendere Taiwan attaccando prima l’isola di Kinmen, nella battaglia di Kuningtou, ma non avanzò oltre.
Al comando dei generali Chen-Yi, Su-Yu e Ye-Fei, circa 20mila soldati del 29° Corpo d’armata e dei reggimenti 244°, 246°, 251° e 253° (28° Corpo d’armata) della Repubblica Popolare Cinese furono schierati contro la minuscola isola di Kinmen, ma effettivamente sbarcarono in meno di 10.000 da un contingente di circa 200 battelli. A difesa dell’avamposto taiwanese vi erano circa 40.000 uomini della 18a Armata ROC, della 22a e della 12a Armata con il supporto della ROC Air Force e della ROC Navy, comandati dai generali Tang-Enbo e Hu-Lian che facevano capo a Chiang Kai-Shek. Gli attaccanti ebbero circa 4.000 morti e oltre 5.000 prigionieri, i difensori ebbero 1.200 morti e poco meno di 2.000 feriti. Il generale Ye-Fei attribuì il fallimento a tre fattori: numero insufficiente di navi da sbarco, incapacità di assicurare adeguatamente le teste di ponte, e la mancanza di un comandante per supervisionare i tre reggimenti della prima ondata.
La sconfitta di Kinmen fermò l’avanzata verso Taiwan, e, con lo scoppio della guerra di Corea nel 1950, e la firma del Trattato di Mutua Difesa Pechino-Washington nel 1954, i piani comunisti per invadere Taiwan furono sospesi, sebbene fossero in avanzato stadio di preparazione, principalmente sull’isola di Hainan, come sulle isole Wanshan, al largo della costa di Guangdong, e dell’isola di Zhoushan al largo di Zhejiang.
Un gruppo di 12.000 soldati del Taiwan si trasferì a Burma da dove continuò la guerriglia agli ordini del generale Li-Mi, era pagato da Taiwan, con il titolo di governatore di Yunnan. Inizialmente, gli Stati Uniti supportarono queste operazioni con la CIA ma dopo che il governo burmese si appellò all’ONU, nel 1953, Washington iniziò a fare pressioni su Taipei perché ritirasse i propri uomini. Alla fine del 1954, circa 6.000 soldati lasciarono Burma e Li-Mi dichiarò sciolto il suo esercito, ma diverse migliaia rimasero in clandestinità, e furono protagonisti della rivolta del Kuomintang (1950–1958).
La mancanza del sostegno americano, costrinse Taiwan a concentrarsi sui possedimenti nella provincia di Fujian, dove si contava di concentrare una difesa abbastanza forte da poter rivoltare le sorti di un attacco cinese e riprendere il controllo dell’intero territorio, ma il 3 settembre 1954 il governo di Taipei entrò in crisi, quando l’Esercito Popolare di Liberazione minacciò la presa delle isole Dachen. Il 20 gennaio 1955, l’esercito cinese prese l’isola di Yijiangshan, uccidendo o catturando l’intera guarnigione di 720 uomini. Quattro giorni dopo, il Congresso americano approvò la cosiddetta “Risoluzione Formosa” autorizzando il presidente a difendere le coste di Taiwan, ma la guerra aperta fu ancora una volta evitata grazie agli accordi presi durante la conferenza di Bandung (marzo ’55) e alla decisione di Pechino di cessare i bombardamenti.
La situazione voltò nuovamente al peggio alla fine dell’agosto 1958, con scontri aerei e navali fra Repubblica Popolare Cinese e Repubblica di Cina, con Quemoy che venne pesantemente bombardata dalla Cina, e Amoy bombardata da Taiwan. Si giunse anche in questa occasione, a un passo dalla guerra, evitata ancora grazie all’intervento americano, che determinò l’interruzione dei rifornimenti per Taiwan, e costrinse Chiang Kai-Shek a rinunciare all’intenzione di bombardare le artiglierie nemiche. Malgrado la fine delle ostilità, da ambo le parti non venne mai siglata una conclusione formale, né venne raggiunto alcun accordo formale, per cui si parlò di “guerra simbolica”, che comunque terminò solo nel 1979 col ristabilirsi delle relazioni diplomatiche tra la Cina e Taiwan.
Durante questo periodo i due paesi quasi non ebbero contatti, e furono bloccati tutti i trasporti da e per le due direzioni, sebbene non mancassero le eccezioni. Uno degli appartenenti più illustri a quest’ultima categoria fu Justin Yifu-Lin, economista ed ex ufficiale dell’esercito di Pechino che nel 1979, volendo disertare, attraversò a nuoto lo Stretto di Kinmen, e successivamente è diventato vicepresidente della Banca Mondiale.
Molti osservatori esterni avevano fatto notare come il governo di Chiang Kai-Shek sarebbe caduto nel caso di un’invasione comunista di Taiwan e per questo gli Stati Uniti non mostrarono interesse nel supportarne il governo, avviato ormai al tramonto. Le cose cambiarono con lo scoppio della guerra di Corea nel giugno del 1950, dove Taiwan si dimostrò importante piazzaforte, al punto che il presidente americano Harry Truman in persona ordinò che la flotta statunitense si portasse nello stretto di Taiwan per impedire alle due nazioni di attaccarsi a vicenda, sfruttando la guerra di Corea come pretesto.
Diplomaticamente durante questo periodo e fino al 1971 circa, il governo taiwanese continuò ad essere riconosciuto dalla maggior parte dei governi della NATO, mentre il governo cinese fu riconosciuto come legittimo anche da parte di tutti i paesi facenti parte del blocco sovietico e da alcune nazioni occidentali come Inghilterra e Paesi Bassi.
Cona e Taiwan diedero inizio a una sorta di “guerra di propaganda” per ottenere alleanze e supporto (soprattutto militare) in caso di conflitto aperto e naturalmente per tutelare i propri interesso geopolitici ed economici. Una situazione della quale fecero le spese Paesi terzi, dove ebbero inizio vere e proprie tragedie, come in Myanmar, Corea, la sanguinosa rivolta di Hong Kong del 1956 e del 967, l’insurrezione comunista in Thailandia, e altro.
A seguito della rottura delle relazioni ufficiali tra Stati Uniti e Taiwan nel 1979, il governo taiwanese, sotto la guida di Chiang Ching-Kuo, mantenne la cosiddetta “Politica dei Tre No” riguardo alle comunicazioni col governo cinese, successivamente rivista a seguito dell’attacco a un cargo della China Arilines nel maggio del 1986, nella quale un pilota taiwanese costrinse gli altri membri dell’equipaggio a dirottare l’areo a Guangzhou. Per tutta risposta, Chiang inviò delegati a Hong Kong per discutere ufficialmente con la Cina, fatto che venne visto come una svolta ufficiale nelle relazioni bilaterali.
SEF e ARAT
Nel 1987 il governo taiwanese iniziò a permettere delle visite in Cina, fatto di cui beneficiarono vecchi soldati rimasti separati dalle famiglie per decenni. Era, in sostanza, un atto di buona volontà e, per avviare nuovi negoziati con Pechino, senza compromettere la propria posizione, Taipei organizzò la SEF (Straits Exchange Foundation). Pechino rispose creando la ARAT (Association for Relations Across Taiwan) così da poter mantenere contatti ufficiosi fra i due Paesi senza apparire in svantaggio di fronte alla comunità internazionale e senza essere costretti a rivedere i rispettivi punti di vista sulle politiche di sovranità.
Alla guida della SEF venne posto Koo Cheng-Fu, mentre alla direzione della ARAT fu nominato Wang Daohan, i quali riuscirono a organizzare un incontro fra le autorità portavoce dei rispettivi governi nel 1992, dando inizio a quella che è diventata nota come “politica dei guanti bianchi”.
Di fatto, nel corso degli anni, le politiche dei due Paesi erano nel frattempo cambiate. Realisticamente, Taiwan era giunta alla consapevolezza della impossibilità di riunire la Cina sotto la propria sovranità, preferendo intendere le tendenze indipendentiste come entità politica nazionale. Nel 1996 l’Esercito di Liberazione Popolare tentò di influenzare le elezioni a Taiwan conducendo esercitazioni missilistiche, ma l’unico risultato fu una nuova crisi dello Stretto nel ’98 e a una nuova rottura delle relazioni.
Nel 2000, le elezioni presidenziali a Taiwan portarono al potere Chen Shui-Bian che politicamente si dimostrò favorevole alla totale indipendenza, ripudiando la politica del dialogo del ‘92, e impedendo un augurabile miglioramento delle relazioni con Pechino.
Tre anni dopo, in Cina fu eletto presidente Hu Jintao, sebbene dal 2002 fosse segretario generale del Partito Comunista Cinese e quindi capo indiscusso dell’intero Paese, il quale era su posizioni opposte e vedeva favorevolmente una riapertura del dialogo con Taipei.
Chen Shui-Bian però aveva orientato il proprio programma politico verso il raggiungimento di una formale indipendenza di Taiwan, mentre Pechino, di fronte alla situazione, si orientò verso un potenziamento dell’arsenale missilistico nei pressi dello Stretto del Taiwan, oltre a a creare pressioni su altre nazioni al fine di isolare il Taiwan.
Nel 2001 Chen decise di togliere il bando commerciale che da 50 anni affliggeva le possibilità di scambi commerciali con la Cina, rendendo possibile l’apertura verso una nuova economia. Nel corso della guerra in Iraq nel 2003, la Repubblica Popolare Cinese permise agli aerei di Taiwan di utilizzare lo spazio aereo cinese per operazioni di sostegno.
Dopo la rielezione di Chen Shui-Bian nel 2004, il governo cinese continuò la propria politica di non-contatto, contro ogni forma di indipendentismo di Taiwan. Hu Jintao fece alcune aperture nei confronti di Taipei per una ripresa dei negoziati, favorendo nuove consultazioni e, con la Legge Anti-Secessione del 2005, per la prima volta, la Cina rinunciò al proprio autoritarismo, dando la possibilità di aprire dei negoziati con Taiwan senza imporre la politica della “Unica Cina” come condizione iniziale, pur mantenendo comunque entrambe le parti la loro convinzione politica.
I sempre crescenti contatti portarono allo storico incontro fra Hu-Jintao e Lien Chan nell’aprile 2005, prologo a una serie di ulteriori consultazioni.
Nell’aprile 2008, Hu Jintao incontrò il vicepresidente di Taiwan, Vincent Siew, presso la sede della Cross-Straits Common Market Foundation nel corso del Boao Forum for Asia. Il 28 maggio 2008, incontrò il taiwanese Wu Po-Hsiung, con lo scopo di riavviare le relazioni diplomatiche, sulla base del consenso del 1992.
Il dialogo fra SEF-ARAT ebbe un ulteriore consolidamento nel giugno 2008 con un incontro a Pechino, ma né la Repubblica Popolare Cinese né Taiwan riconobbero ufficialmente l’entità opposta come legittima, pertanto i contatti si limitarono a coinvolgere SEF e ARAT anziché i governi. Chen Yunlin, presidente dell’ARAT, e Chiang Pin-Kung, presidente del SEF, riaprirono il 12 giugno gli accordi secondo i quali dal 4 luglio successivo sarebbero stati possibili voli aerei fra i due Paesi e che Taiwan avrebbe ammesso l’entrata di 3000 visitatori cinesi al giorno come numero massimo.
Le relazioni economiche, commerciali e finanziarie fra le due parti sono effettivamente migliorate dal maggio 2009, grazie a un accordo definito una vera e propria pietra miliare: per la prima volta il governo di Taiwan permise agli investitori cinesi di commerciare ed entrare nel mercato locale, cosa che non avveniva al 1949. Era una delle manifestazioni della politica definita “Step-by-Step”, assicurando stabilità per il fatto che la Cina non avrebbe mai attaccato un paese dove avesse interessi economici. La principale compagnia di telecomunicazioni cinese, China Mobile, fu la prima a investire 529 milioni di dollari per comprare il 12% della Far EasTone, terzo maggiore operatore nel settore telecomunicazioni a Taiwan, ma la richiesta di Taipei a Pechino di smantellare le piattaforme missilistiche sullo Stretto rimasero inascoltate.
Il 30 gennaio 2010, l’amministrazione Obama annunciò di avere intenzione di vendere 6,4 miliardi di dollari di sistemi antimissile, elicotteri e altre strumentazioni militari al Taiwan, mossa che ebbe conseguenze pesanti in Cina, dove il governo tagliò ogni collegamento militare con Washington, facendo sapere che le relazioni tra Stati Uniti e Cina ne avrebbero risentito in modo sostanziale.
Le relazioni bilaterali, nonostante le buone intenzioni apparenti, rimanevano comunque a un punto morto. Inoltre, nel 2013, la politica economica estera cinese, fra i principali strumenti di neo-colonizzazione (vedi Africa) venne adattata al nuovo corso con una trentina di nuove misure finanziarie per annettere economicamente Taiwan.
Nell’ottobre del 2013, i ministri dell’Economia delle rispettive parti si incontrarono, riconoscendo reciprocamente i titoli ufficiali, e cercando di instaurare un dialogo più regolare, facilitando gli scambi commerciali. L’11 febbraio 2014, il ministro Wang incontrò il ministro Zhang a Pechino, nella prima visita ufficiale fra i due governi dal 1949. Nel corso dell’incontro, Wang e Zhang si accordarono per stabilire un canale di comunicazione diretto, sulla base del consenso del 1992.
Nel settembre del 2014, Xi Jinping, segretario generale del Partito Comunista Cinese, decise di adottare una politica ideologica innovativa definita “Un Paese, Due Sistemi”, quindi avvenne un ulteriore incontro, nel 2015 a Singapore, facendo così incontrare due capi di Stato per la prima volta dalla fine della guerra civile cinese del 1949.
Nuovi problemi, vecchie rivalità
La situazione volse al peggio con le elezioni politiche a Taiwan nel 2016, che decretarono la vittoria del Partito Progressista Democratico di Tsai-Ing-Weng, che a Pechino non era ben visto e che per altro si affrettò a negare la politica del consenso.
Il 1° giugno 2016, venne confermato che l’ex presidente Ma Ying-Jeou avrebbe visitato Hong Kong il 15 giugno per tenervi una conferenza sulle relazioni tra i due Paesi, ma Tsai Ing-Wen bloccò l’iniziativa e solo dopo molte discussioni si decise una videoconferenza.
La successiva visita di diversi magistrati e sindaci taiwanesi in Cina venne pensata per far ripartire il dialogo fra i due Paesi, dopo le iniziali tensioni create dalla salita al potere del governo Wen. Gli otto funzionari ad ogni modo confermarono il proprio sostegno alla politica dell’unica Cina ed al consenso del ‘92.
Nell’ottobre 2017, Tsai Ing-Wen espresse le speranze che entrambe le parti riprendessero relazioni amichevoli dopo il 19º Congresso Nazionale del Partito Comunista Cinese, ma espresse forti dubbi sul fatto che le vecchie pratiche politiche potessero portare a una soluzione. A questo punto, le relazioni bilaterali subirono un nuovo stallo.
Nel discorso di apertura al 19º Congresso Nazionale del Partito Comunista Cinese, il segretario generale Xi Jinping pose l’attenzione sulla sovranità della Repubblica Popolare Cinese nei confronti di Taiwan, ritenendo di avere sufficienti capacità per non temere alcun tentativo indipendentista. Nel contempo si offrì di riaprire i contatti, ma senza alcun cambiamento se Taiwan avesse seguito la politica del consenso del 1992. Come segno evidente delle intenzioni di Pechino, venne significativamente ridotto il numero di cinesi a cui fosse permesso di visitare Taiwan.
Nell’aprile del 2018, i partiti politici e le organizzazioni nazionaliste taiwanesi hanno chiesto un referendum per l’indipendenza, dando vita alla cosiddetta “Alleanza di Formosa” per far fronte alla crescente crisi con la Cina, e alle pressioni di Pechino per l’unificazione.
Evitare il peggio, ma a quale prezzo?
Gli allarmi suonano sempre più insistenti lungo lo stretto di Taiwan (Formosa). Al momento sono soltanto parole, al netto di qualche dimostrazione militare sopra le righe dell’aviazione cinese. La situazione è nuovamente molto delicata, al punto da mandare causare forti preoccupazioni per i governi di mezzo mondo. Il presidente cinese Xi Jinping ha deciso (per ora solo a parole) di accelerare il progetto di unificazione con Taiwan, dichiarando ufficialmente: “Risolvere la questione di Taiwan e realizzare la completa riunificazione della Cina è una missione storica e un impegno incrollabile. Nessuno dovrebbe sottovalutare la risolutezza, la volontà e la capacità del popolo cinese di difendere la propria sovranità nazionale e l’integrità territoriale. Non esiteremo a schiacciare qualsiasi complotto per l’indipendenza di Taiwan. Qualsiasi forza straniera che tenterà d’intromettersi dovrà scontrarsi con una grande muraglia d’acciaio”.
La questione diventa ancor più delicata se si considera che l’avvertimento cinese coinvolge direttamente USA e Giappone.
Washington, pur non riconoscendo formalmente Taiwan come Stato indipendente e sovrano, e mantenendo negli anni un ruolo ambiguo, ha fatto nuovi passi per riallacciare rapporti commerciali con i rappresentanti di Taipei, in funzione anti-cinese (obiettivo numero uno della politica estera impostata dalla presidenza Biden). In una nota il Dipartimento di Stato americano (che ai taiwanesi garantisce forniture di armi) ha risposto alle dichiarazioni del presidente cinese, ribadendo il sostegno degli Stati Uniti a una risoluzione pacifica della questione dello Stretto di Formosa. Da tenere poi presente il National Defense Authorization Act per il 2022, che prevede il sostegno americano al rafforzamento delle capacità difensive di Taiwan.
A Tokyo si teme che un atto di forza cinese nei confronti di Taiwan possa essere soltanto il preludio al tentativo di riconquista delle isole Senkaku (minuscoli atolli disabitati nel Mar Cinese Orientale, controllati dal Giappone e ricchi di giacimenti di gas e petrolio). Un timore talmente marcato da spingere il vicepremier giapponese Taro Aso a una dichiarazione inusuale: “Se la Cina dovesse invadere Taiwan, il Giappone si schiererebbe a fianco degli Stati Uniti per difendere l’isola. Qualora si verificasse un grave problema a Taiwan, non sarebbe eccessivo dire che si potrebbe trasformare in una situazione di pericolo per la stessa sopravvivenza del Giappone”.
Le principali operazioni che la Cina potrebbe attuare per prendere Taiwan sono quattro, combinabili o conducibili separatamente. La prima prevede l’embargo del traffico aereo e marittimo attorno all’isola e attacchi cibernetici che disturbino le comunicazioni taiwanesi. La seconda consiste nell’infiltrazione anticipata nell’isola per attaccarne infrastrutture o leader politici. La terza è il lancio di raid aerei e missilistici contro obiettivi specifici per neutralizzare i sistemi di difesa taiwanesi. L’ultima è l’attacco anfibio e lo sbarco dell’Epl a Formosa. Si tratta dell’opzione più complessa: non è possibile senza il raggiungimento della superiorità aerea e navale nello Stretto e soprattutto può dare inizio a un combattimento terrestre.
Qualora la Cina riuscisse celermente a superare questi ostacoli, proseguirebbe le operazioni in direzione delle Penghu e infine dovrebbe fare i conti con l’orografia di Formosa. Alcune porzioni della costa occidentale si prestano particolarmente all’approdo. Per esempio tra Taichung e Taipei a nord e tra Tainan e Kaohsiung a sud. Le scogliere sulla costa orientale rendono l’attracco più complicato. A ogni modo, le forze cinesi si addestrano a circondare tutta l’isola per ostacolare l’eventuale intervento americano e giapponese. Insomma, dal punto di vista di Pechino, l’unificazione pacifica a cavallo dello Stretto resta la soluzione più conveniente, sebbene l’opposizione della popolazione taiwanese la renda estremamente difficile da raggiungere.
L’asse Anti-Cina
Sottomarini a propulsione nucleare all’Australia, per rafforzare enormemente la presenza americana e occidentale in Asia e contenere le mire della Cina. Joe Biden ha sfoderato una nuova alleanza militare nel Pacifico, battezzata Aukus, che vedrà Stati Uniti e Gran Bretagna fornire a Canberra la delicata tecnologia necessaria per dotarsi d’una flotta di sottomarini atomici, anche se armati di missili cruise con testate convenzionali.
La dura risposta di Pechino non si è fatta attendere, con accuse di voler riportare il mondo alla Guerra Fredda a causa di un atteggiamento irresponsabile.
Il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Zhao Lijain, ha affermato che la Cina monitorerà la situazione, e ha invitato i tre paesi ad abbandonare concetti obsoleti e a rispettare le aspirazioni dei popoli della regione, altrimenti danneggeranno i loro stessi interessi. La Cina non è menzionata esplicitamente nel patto a tre, ma l’obiettivo di Biden appare chiaro.
Nell’annunciare Aukus dalla Casa Bianca, affiancato via teleconferenza dal leader britannico Boris Johnson e dal premier australiano Scott Morrison, ha sottolineato di voler preservare una libera e aperta regione Indo-Pacific e fare i conti con l’attuale clima strategico. Washington denuncia con crescente preoccupazione l’aggressività di Pechino, dalla Via della Seta in economia fino alle bellicose rivendicazioni di isole contese nel Mar Cinese Meridionale e a minacce a Taiwan.
Da tempo ha iniziato una virata verso l’Asia, ora accelerata dal ritiro dall’Afghanistan, quale epicentro delle priorità geopolitiche, etichettando la Cina come principale avversario strategico. Nei prossimi giorni Biden ha anche convocato alla Casa Bianca il Quad, il forum che comprende Usa, Giappone, India e Australia.Il neonato Aukus riflette questa svolta. I nuovi sottomarini avranno raggio d’azione illimitato, capaci di spingersi nel Mar Cinese Meridionale e a Taiwan, di operare in assoluto silenzio e difficili da intercettare, con la possibilità di manovre navali alleate nell’aera che modifichino drasticamente l’equilibrio militare nella regione. Tale mossa ha anche sollevato malessere fra gli alleati degli USA, non solo nei ranghi di un’Unione Europea emarginata dall’intesa. Se la Francia, che ha perso un contratto per rinnovare i sottomarini di Canberra, ha protestato contro rigurgiti di America First, nella stessa regione asiatica la Nuova Zelanda è rimasta fredda. Il premier Jacinda Arden – da anni parte dell’intesa di intelligence Five Eyes con USA, Gran Bretagna, Canada e Giappone – ha fatto sapere che non farà eccezione alla messa al bando dalle acque territoriali di vascelli a propulsione nucleare per la flotta australiana. Morrison ha assicurato che Canberra non intende sviluppare arsenali nucleari ma i sommergibili ricorreranno a uranio fornito dagli USA e arricchito al livello usato per bombe atomiche.
Bibliografia
“Taiwan’s Security: History and Prospects. Routledge” – B. Cole;
“Playing with Fire: The Looming War with China over Taiwan” – J. Copper;
“Dangerous Strait: the US-Taiwan-China Crisis” – N.B. Tucker;
“The Illusion of Peace. Review of Convergence or Conflict in the Taiwan Strait” – J. M. Cole;
“Taiwan’s Future: Narrowing Straits” – R. Sutter;
“China, Taiwan, and the Battle in Pacific Affairs” – NBR Special Report, May 2011.
Lascia un commento
Devi essere connesso per inviare un commento.