Dalla Sicilia spagnola alla Sicilia austriaca (1718-1720).
Gli storici della Sicilia moderna faticano ad individuare le ragioni della filosofia rinunziataria, e troppo sottomessa, del popolo siciliano che dalle giornate del Vespro (marzo 1282) fino ai giorni nostri, reagisce spesso supinamente ai mali che ancora l’affliggono dal lato politico e culturale. E’ noto che la dominazione aragonese (1302-1410), succeduta agli Angioini (1266-1282), fu un’età di prosperità, sebbene contraddistinta da una frammentazione territoriale non dissimile a quella riscontrata in Italia centro-settentrionale. Seguì il secolo imperiale a guida spagnola, dove lo sfruttamento dell’isola, fino a quell’epoca dotata di un certo sviluppo commerciale per la favorevole posizione marittima, raggiunse un elevato grado di prelievo fiscale. Infatti la supremazia politica nell’Europa moderna dopo le scoperte geografiche e il Luteranesimo, aveva visto un duello costante fra Spagna e Francia e un terreno di lotta, il territorio italiano. Con questi due forti attori politici, a volte a favore dell’uno e a volte a favore dell’altro, il Continente nel ‘500 vede anche la pari presenza del Sacro Romano Impero Asburgico e dell’Inghilterra. Il Mediterraneo e l’Oceano Atlantico furono i mari da conquistare per il relativo balzo coloniale verso l’Africa e l’America. Mentre la penisola italiana rimaneva più stabile (per esempio la Lombardia che nell’ottica storica manzoniana era il serbatoio di molte merci, sia agli Austriaci che agli Spagnoli, per il carattere produttivo di quell’economia rurale, commerciale e industriale); la Sicilia, notoriamente più povera, rimaneva soprattutto una terra da scambiare nelle continue contrattazioni – per dire i “Trattati” – della prima metà del ‘700, quando erano contrapposte le borghesie dei regni d’Europa, quasi sempre motivate da costanti conflitti di successione fra le casi regnanti, ma di fatto duelli fra le classi dirigenti borghesi che dureranno per almeno altri tre secoli, dove quella classe assumerà tutto il potere della classe aristocratica, anche prima della Rivoluzione Francese, come in Gran Bretagna e in Olanda. Ebbene, la Sicilia fu oggetto di scambio per ben tre volte, a conclusione di quelle guerre che nelle scuole stancamente vengono denominate “di Successione”, prodromiche alla grande Rivoluzione, ma successive alla Rivoluzione inglese del 1688, quando la grande politica di quella nazione fu conquistata dalla nascente borghesia, colonialista e protestante, fulcro del potere imperialista marittimo che regnò dalle Americhe all’Asia fino al secondo conflitto mondiale. Le date di questo triplice e ravvicinato passaggio, o meglio, di scambi della nostra terra, e sulla pelle della nostra nascente borghesia, che se li legò al dito (visto che già ne “I Beati Paoli” di Luigi Natoli (1857-1941), si parla della reazione dei baroni locali fondatori del partito autonomista), padre nobile della mafia che ci perseguita fino ad oggi, furono il 1714, il 1720 e il 1734.
Nel 1714, a seguito del Trattato di Utrecht, la Spagna perse il dominio dell’isola, che fu ceduta ai Savoia, alleati della Francia vincitrice. Nel 1720, dopo un biennio di resistenza della Spagna, si ebbe l’episodio navale di Capo Passero, nonché vari assedi di Siracusa. Alla fine la Sicilia toccò all’Austria. Per quel che riguarda il periodo piemontese, che molti studenti hanno spesso confuso con l’annessione sabauda del 1860, ben più intrigante perché effetto della spedizione di Garibaldi e prologo all’Unità, poco si sa e si ricorda, sia per la brevità del periodo, sia perché i baroni siciliani mal sopportarono un precedente che li avrebbe messi fuori gioco dalla supremazia politica ed economica che da secoli esercitavano. Il nuovo sovrano, Vittorio Amedeo II, imbevuto di efficienza burocratica e attento ascoltatore dell’ideologia illuminista, tentava di strappare alla Chiesa Romana i cosiddetti diritti di proprietà di legazia ecclesiastica, cioè la proprietà di immensi latifondi, che faceva paura ai notabili laici e che trovarono nel governo spagnolo, guidato dal cardinale romano Giulio Alberoni, un potente paladino. Di qui, il continuo scambio della Sicilia tra Francia e Spagna, che portò all’assedio di Siracusa da parte degli spagnoli (1718-1719) e al citato scontro di Capo Passero, quando in soccorso dei piemontesi, si allearono la stessa Francia, la Gran Bretagna e l’Austria. Questi due alleati fecero molto di più del loro vecchio partner francese (come due secoli dopo faranno gli americani e i russi contro la Germania di Hitler, a fianco della stessa Gran Bretagna). Insomma sembrò anticiparsi l’epoca delle grandi coalizioni che si svilupperà con Napoleone I, poi con Napoleone III e Bismarck nell’800, a conferma della tesi dello storico britannico Eric Hobsbawm (1917-2012) che tirò una linea immaginaria, da Edimburgo a Capo Passero, di attraversamento e di confine interno dell’Europa per ben tre secoli, fino alla fine della seconda guerra mondiale. L’Unione Europea per fortuna l’ha momentaneamente cancellata, ma di cui si teme la ripresa a causa della presente pandemia.
Dalla Sicilia austriaca alla Sicilia borbonica (1720-1816).
Finalmente nel 1720 la pace dell’Aja trasferì la Sicilia all’impero austriaco e risarcì il Piemonte con la Sardegna. Come se un’intera isola fosse merce da scambiare per contratto (anche se la contrattazione in politica non sembra affatto sparita…).
Nel quindicennio successivo si vide la speranza di un periodo di minore sfruttamento e di maggiore produttività dell’isola, con un parallelo decadere dei privilegi medievali e di un minore potere della Chiesa negli affari commerciali. Tuttavia, l’imperatore Carlo VI d’Asburgo (1685-1740) non si ritenne più obbligato al mantenimento dei tanti privilegi del regno di Sicilia a favore dei nobili ottenuti dagli aragonesi che li aveva guidati alla vittoria sugli angioini dopo la guerra dei Vespri fin dal XIII° secolo e perpetuati fino ai tanti Filippo di Spagna. I vari Viceré asburgici che si succedettero a Palermo difesero spesso le città guidate dai pochi borghesi del vecchio Regno, ridimensionato a piccola provincia dell’Impero, dove il potere centrale assicurava la giustizia, batteva moneta, riscuoteva tributi e dava impulso più alla produzione che al mero consumo. Una certa politica economica di stampo capitalista cominciava ad emergere favorita da un periodo di pace più lungo. Soprattutto, il viceré Joaquín Fernández de Portocarrero (1681-1760) colpì la corruzione, bloccò le invasioni dei pirati dalla Tunisia, limitò fortemente la schiavitù dell’Africa, con uno strano atteggiamento silenzioso dei Baroni, divisi al loro interno fra progressisti e conservatori.
Come ci narra il citato Natoli nel suo famoso romanzo storico, prevalse l’ala conservatrice, a causa delle esose richieste fiscali che quella classe mal sopportava, soprattutto perché incalzata dalle maestranze operaie e contadine che cominciavano a rumoreggiare perché loro pagavano e lavoravano, contro i Baroni erano notoriamente meri fruitori del prodotto finito (le numerose rivolte popolari in Spagna e Francia si erano propagate in Sicilia per effetto dei diversi resoconti di viaggio di non pochi scrittori, come ci racconterà Dacia Maraini nel romanzo “La lunga vita di Marianna Ucria”). Nacque così la sedicente società segreta dei Beati Paoli e la conseguente rivoluzione baronale contro il governo dei Viceré asburgici, che culminerà nel ritorno dei Borboni nel 1734 con Carlo, infante di Spagna che, con tale alleato interno, riprese il Regno di Sicilia. Quest’ultima guerra durò poco, perché non tornarono più gli inglesi ad aiutare gli austriaci, consentendo il blocco navale dell’isola da parte degli spagnoli.
Il 25 settembre del 1734, l’ultimo viceré austriaco, marchese Giuseppe Rubi, volse la prora delle sue navi verso Trieste, impossibilitato a sbarcare. Qualche giorno dopo, una delegazione di deputati siciliani si presentarono a Napoli per consegnare al nuovo Re Carlo III di Borbone (1716-1788), il Regno di Sicilia appena liberato della dominazione austriaca. Così la Sicilia tornò ad essere terra appena riconquistata dalla Spagna con Carlo III suo sovrano indipendente, ma di fatto unita al Regno di Napoli. Nella sfortunata vicenda siciliana, passata da una casa regnante all’altra, alla ricerca di un’autonomia non pienamente raggiunta, un po’ di fortuna qui l’ebbe, visto che proprio Carlo III fu uno dei Borboni di Napoli più lungimirante perché dotato di un senso di assolutezza governativa meno prepotente degli altri suoi colleghi. Dopo una breve guerra contro gli austriaci, non ancora paghi di aver perduto la Sicilia, li sconfisse a Velletri nel 1744 e regnò in pace per altri 15 anni avvalendosi di ministri riformatori. Ispiratosi al cugino Giuseppe II d’Austria (1741-1790), uno dei maggiori sovrani dell’epoca che ascoltava i nuovi filosofi francesi, appena morì Filippo V re di Spagna (1683-1746) alquanto retrivo, libero da influenze straniere, si avvalse dell’opera di alcuni ministri protoliberali, specialmente Bernardo Tannucci (1698-1783), che operò proficuamente una mediazione con i Baroni siciliani, mantenendone alcuni privilegi, ma avviando una riforma del catasto e la relativa cartografia del territorio, base di una riforma agraria sul modello austriaco per la Lombardia, purtroppo interrotta dalla abdicazione di Carlo per il regno di Spagna e la successione del figlio Ferdinando IV, poi Ferdinando III Re di Sicilia nel 1799 e infine Ferdinando I Re delle Due Sicilie nel 1816. Una sequela di titoli che designa di per sé la pochezza, se non lo squallore, di quel sovrano. Nei decenni successivi, la Sicilia tornò ad essere terra di sfruttamento e la gloriosa sua indipendenza e regalità di fatto andarono ancora una volta in oblio. Ma questa è un’altra storia.
Bibliografia:
- Sulle guerre di successione, vd. Storia moderna e contemporanea: dalla rivoluzione inglese alla Rivoluzione francese, di ADRIANO PROSPERI e PAOLO VIOLA, Einaudi, 2000.
- Per la storia della Sicilia, vd. GIUSEPPE GIARRIZZO, La Sicilia moderna dal vespro al nostrotempo, Firenze, Le Monnier, 2004; nonché Storia mondiale della Sicilia a cura di GIUSEPPE BARONE, edizione Laterza, 2018.
- Per le vicende dalla classe dirigente in Sicilia nel ‘600 e ‘700, cfr. DOMENICO LIGRESTI, Sicilia aperta. Mobilità di uomini e idee nella Sicilia spagnola (secoli XV- XVII), Catania, 2005.
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