Paul Adrien Maurice Dirac (1902-1984) è considerato da molti storici della scienza il più grande fisico del novecento dopo Albert Einstein. Dirac è stato uno dei fondatori della fisica quantistica e, grazie anche alla sua incredibile capacità matematica, è riuscito a raccordare questa nuova disciplina con la relatività ristretta einsteniana. La “Dirac equation”, cioè l’equazione relativistica che descrive il moto dell’elettrone, celebre anche per la sua eleganza formale, sarà basilare per lo sviluppo della fisica moderna; è incisa sulla targa in marmo posta, a ricordo dello scienziato, nell’abbazia di Westminster. Dalle soluzioni di questa equazione, per via esclusivamente matematica, Dirac ipotizzò nel 1928 l’esistenza dell’antimateria, prevedendo che per ogni particella dotata di carica, ci fosse un’altra particella dotata di massa identica e carica opposta: quella che oggi chiamiamo antiparticella. L’esistenza della particella gemella dell’elettrone, l’elettrone positivo o positrone, fu scoperta sperimentalmente nel 1932 nei raggi cosmici da Carl Anderson, la prima delle tante antiparticelle identificate negli anni seguenti. Il fisico Carlo Rovelli scrive: “Nelle sue mani la meccanica quantistica, da accozzaglia snaturata di intuizioni, mezzi calcoli, fumose discussioni metafisiche ed equazioni che funzionano bene e non si sa perché, si trasforma in una architettura perfetta: aerea, semplice e bellissima” (1). Il suo libro “The principles of Quantum Mechanics” pubblicato nel 1930 ed aggiornato ed ampliato fino all’ultima edizione del 1982, oltre mezzo secolo dopo la prima stesura, è il testo base sul quale hanno studiato e si sono formate intere generazioni di fisici di tutto il mondo.
Nell’autunno del 1956 il sottoscritto, allora studente dell’ultimo anno di fisica all’università di Torino, ebbe l’avventura di poterlo accompagnare per un tratto di strada e di potergli parlare, o almeno di tentare di farlo; l’immagine ingiallita che segue, scattata da un fotografo ambulante, specie oramai estinta, documenta l’inizio della passeggiata. Sullo sfondo si intravede il Palazzo Reale di Torino, da sinistra c’è il sottoscritto, Dirac e consorte e Gleb Wataghin docente della mia facoltà.
Dal 6 all’11 settembre del 1956 si svolse a Torino un importante congresso internazionale sulle costanti fondamentali della fisica unitamente al XLII congresso nazionale di Fisica, nel quadro delle onoranze ad Amedeo Avogadro di Quaregna nel primo centenario della sua morte. Vi parteciparono fisici europei ed americani; tra gli italiani c’erano Edoardo Amaldi, il più giovane degli allievi di Fermi del gruppo di via Panisperna a Roma, Antonio Carrelli, che era stato direttore dell’Istituto di Fisica dell’Università di Napoli quando Ettore Majorana aveva ottenuto in quell’ateneo la cattedra di fisica teorica nel 1937 ed era diventato poi amico del fisici siciliano scomparso misteriosamente l’anno successivo, ed un ventiduenne Carlo Rubbia che nel 1984, avrebbe vinto il premio Nobel per la fisica insieme a Simon Van der Meer per la scoperta al CERN di Ginevra dei mediatori della “forza debole”, cioè i bosoni W e Z. Erano presenti tre premi Nobel: l’americano Cecil Franck Powell, l’austriaco Wolfgang Pauli e l’inglese Paul Dirac. Sul quotidiano torinese “La Stampa” il redattore scientifico Didimo aveva scritto: ”Powell e Dirac sono i personaggi più importanti dei due congressi torinesi: sperimentatore il primo, teorico il secondo, sono, anche fisicamente, agli opposti estremi. Powell ha la figura prestante, vigorosa dell’uomo di azione, Dirac è alto, dinoccolato, con una enorme fronte alla Einstein, il viso emaciato del pensatore. E mentre Powell discute volentieri con tutti, Dirac è celebre per la sua laconicità. Di lui si dice “Parla poco, ma quello che afferma il mondo lo capisce dopo vent’anni””(2).
Per noi studenti la possibilità di vedere di persona ed ascoltare questi personaggi mitici che avevamo studiato sui libri era un’occasione emozionante e forse unica. Ci eravamo messi a disposizione dei nostri docenti per essere di aiuto ovviamente solo per le operazioni di più bassa manovalanza. In cambio avevamo intuito che avremmo potuto infilarci, mescolandoci con i congressisti, al banchetto finale dell’11 settembre nel lussuoso Grande Albergo Principi di Piemonte, che per noi, frequentatori delle più squallide “piole” della periferia torinese, era un luogo assolutamente inaccessibile.
Alla fine di una sessione pomeridiana del congresso, Wataghin mi chiese di accompagnare in albergo Dirac insieme a lui che però ci avrebbe lasciati molto prima di arrivare a destinazione. Mi raccomandò, guardandomi con un sorriso ambiguo, di intrattenere, strada facendo, l’illustre ospite raccontando di Torino, della sua storia e delle sue bellezze. Mi accinsi con passione ed entusiasmo ad eseguire il mio compito ma mi accorsi subito che l’unica persona che mi dava retta era la signora Dirac, che il marito pare presentasse raramente come sua moglie ma piuttosto come “la sorella di Wigner” (Eugene Wigner era un suo famoso collega che riceverà il Nobel nel 1963). Dirac camminava lentamente a capo chino; di tanto in tanto, come disturbato dal mio parlare, mi guardava con uno sguardo mite e quasi sorpreso, come se mi vedesse ogni volta per la prima volta. Sembrava non sentire il mio stentato inglese, era altrove, chissà in quei momenti dove volava la sua mente sublime. Io ero stregato dalla sua presenza; me lo immaginavo ventiquattrenne discutere nel 1926 la tesi di dottorato, la prima al mondo dedicata alla meccanica quantistica, a Cambridge, lì dove, nel 1932, sarà nominato alla cattedra Lucasiana di Matematica che oltre 250 anni prima era stata di Isaac Newton. Arrivati davanti al suo albergo rispose al mio saluto con un lieve cenno del capo.
L’indomani tentai invano di contattare Wataghin, troppo impegnato con i congressisti, e mi rivolsi allora ad alcuni giovani fisici inglesi per raccontare la mia esperienza con Dirac e chiedere loro qualcosa del carattere di questo scienziato. Mi dissero che era famoso per la sua laconicità che rasentava il mutismo, tanto che a Cambridge i suoi colleghi avevano inventato una unità di misura di loquacità, chiamata appunto Dirac, che valeva una parola ogni 60 minuti!
Anni dopo venni a conoscenza della sua infanzia infelice dovuta alla severità del padre, un immigrato svizzero insegnante di francese, che pretendeva che in casa si parlasse solo quella lingua: quando il figlio si accorse che non riusciva ad esprimersi soddisfacentemente in francese, preferì smettere praticamente di parlare. Il padre aveva obbligato i due figli maschi a laurearsi in ingegneria (il fratello maggiore si sarebbe suicidato nel 1925) ma Paul, subito dopo la laurea, si era interessato alla teoria della relatività ed in seguito alla nuova fisica che stava germinando in quegli anni laureandosi successivamente in matematica. Quando il padre morì Dirac scrisse “Ora mi sento molto più libero, ora sono me stesso”. Dirac soffriva sicuramente di una forma di autismo nota come sindrome di Asperger, di cui aveva sofferto anche Majorana; era un uomo timidissimo e schivo il che spiega la sua scarsissima notorietà al di fuori dell’ambiente scientifico. E’ noto che nel 1933, quando seppe di essere stato scelto per il premio Nobel per la fisica, voleva rifiutarlo per evitare il clamore che ne sarebbe derivato intorno alla sua persona, accettò soltanto quando si convinse che essere il primo scienziato a rifiutare il Nobel, gli avrebbe procurato una pubblicità ben maggiore.
Einstein aveva detto di lui: “Ho problemi con Dirac. Procedere in equilibrio in questo vertiginoso cammino tra genio e pazzia è un’impresa terribile” ma aveva anche descritto la teoria di Dirac come “quella più logicamente perfetta della meccanica quantistica”. Niels Bohr, il grande fisico danese, aveva scritto: “Of all physicists Dirac has the purest soul”.
Un recente articolo (3) ha dimostrato, con una sperimentazione su un campione di circa 100.000 persone, che alcuni disturbi mentali e la creatività, cioè il binomio genio e sregolatezza o follia, condividono le stesse radici genetiche e quindi il “genio” presenta un maggiore rischio genetico di sviluppare condizioni anomale della propria personalità. Queste, se combinate con altri fattori biologici ed ambientali, possono predisporre o portare a delle patologie mentali come la schizofrenia o i comportamenti “bipolari”. Credo che l’infanzia difficile di Dirac ed il suo immenso talento confermino i risultati di questa ricerca.
Il genio poetico di Emily Dickinson aveva colto molto prima della scienza il senso profondo del mutismo di queste persone: “Temo l’uomo di poche parole / Temo l’uomo silenzioso / L’arringatore lo posso sovrastare / Il fanfarone intrattenere / Ma colui che pondera mentre gli altri / spendono fino all’ultima libbra / Di quest’uomo diffido / temo la sua grandezza”.
- Carlo Rovelli: “La realtà non è come appare”. Cortina editore, 2014
- Didimo: “Premi Nobel e scienziati illustri discutono sulle ultime scoperte atomiche”. La Stampa, 7.09.1956
- Robert A. Power et al.: “Polygenic risk scores for schizophrenia and bipolar disorder predict creativity”. Nature Neuroscience, 8.06.2015
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