Ancora una volta, la politica estera italiana dimostra la sua congenita ambiguità e debolezza: non possiede una sua strategia e di conseguenza annaspa nel tentativo, flebile, di esprimere il suo punto di vista, ma soggiacendo sempre al volere dei più forti.
“Il fine giustifica i mezzi”, diceva Niccolò Machiavelli; ma a ciò si dovrebbe aggiungere, a corredo, “purché ci sia qualcosa che giustifichi il fine”. E’ un aforisma vecchio di secoli, e quanto mai attuale, nonché adattabile a diverse situazioni. Una di queste è il rapporto fra diplomazia italiana, europea e internazionale, con riferimento a singole esigenze, che a ben vedere singole non sono in quanto anello di una catena formata da numerosi elementi, che si influenzano a vicenda, non sempre con esiti positivi.
Nel quadro delle politiche dell’area del Mediterraneo, gli ‘attori’ in gioco sono ovviamente tutti i Paesi che su questo antico e cruciale mare si affacciano, o che con esso abbiano rapporti di qualche tipo, prevalentemente commerciali. E proprio a seconda del peso commerciale (e politico), ogni Paese manifesta un diverso approccio, che, ovviamente, è foriero di diversi risultati.
Da tempi immemori, nel panorama mediterraneo, l’Italia ha sempre goduto, almeno geograficamente, di una posizione geopolitica senza eguali, ma pur tuttavia il suo peso non è mai risultato quello che le sarebbe spettato; e tutto ciò per svariate ragioni, tra le quali il vizio di trastullarsi al pari di un’altalena intorno ad interessi diciamo monomaniacali o banali e che comunque, da tempo, sono sempre gli stessi. Sforzi a parte, il ‘meccanismo che dovrebbe migliorare gli obiettivi di una nazione (come l’Italia) nell’arena internazionale non cambiano, ma neppure ingranano. A questo punto viene spontaneo un dubbio: la causa di questo grave ‘malfunzionamento’ non sarà mica da cercare nei meccanismi, nemmeno tanto oscuri, di una linea politica ‘comoda’, ‘accomodante’ e comunque inscindibilmente legata ai soliti interessi commerciali a breve scadenza. Un giro di parole che, in sintesi, si riduce a tre arcinote costanti: petrolio, energia, commercio, anche se non necessariamente in quest’ordine. Ma se vogliamo possiamo andare anche oltre ed arrivare a constatare che le varianti possono anche ridursi a due soltanto: economia politica, o politica economica, che, a ben vedere, non sono però la stessa cosa.
L’ambiguità politica, le ‘convenienze’ derivanti da taciti accordi e le loro inevitabili e disastrose conseguenze, anche di modesto cabotaggio, sono una specialità tutta italiana; peccato che oggigiorno la guerra commerciale la si combatte con altri modi e metodi, altre cifre e volumi. Sarà per questo che il presidente del Consiglio, Mario Draghi, è andato in Libia ad incontrare il presidente turco Recep Erdogan, …’tutelandosi’, pochi giorni prima, per ben apparire agli occhi della comunità internazionale, con una telefonata a solido sostegno dei cosiddetti ed inderogabili diritti umani che, come è noto, ad Erdogan fanno venire l’orticaria solo a parlarne.
Risale alla fine di marzo, infatti, il colloquio telefonico, che è stato definito “articolato” dagli ambienti di Palazzo Chigi, fra il premier italiano e il presidente turco. All’ordine del giorno: i rapporti fra Turchia e Unione Europea.
Telefonata a novanta gradi, poiché Erdogan e Draghi hanno parlato anche della situazione nel Mediterraneo orientale e in Libia, nonché delle sfide globali e delle priorità della presidenza italiana del G20. Il presidente del Consiglio ha espresso – come si è detto – la sua preoccupazione per il rispetto dei diritti umani in Turchia che ormai da anni vengono violati nell’ambito di periodiche escalation di durissima violenza ai danni di qualsiasi forma di opposizione politica. Nel corso della telefonata sono stati inoltre discussi i rapporti bilaterali e le relazioni in ambito multilaterale. Tradotto in ‘politichese’, ciò significa: come, dove e soprattutto quanto. E a ben poco serviranno, come si è verificato in passato, manifestazioni di protesta come quella ultimamente organizzata a Bruxelles dagli europarlamentari del PD davanti all’ambasciata turca per chiedere all’Unione Europea un deciso intervento contro la repressione avviata da Erdogan contro minoranze, dissidenti e, non di rado, esponenti politici e militari ‘dissidenti’.
La “Ragion di Stato”
Che il ‘sultano’ Erdogan faccia “chiffon de papier” degli appelli internazionali, non è certo una novità. Per questo, la telefonata di Mario Draghi cadrà sicuramente nel dimenticatoio; ma quel che è peggio è che lo stesso premier italiano sapeva bene che sarebbe stato così ancora prima si sollevare il ricevitore. Niente di più che procedure da protocollo, un po’ come le molte, inutilissime, Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Aria fritta, e tutto come prima.
Con altezzosità tutta ottomana, a sottolineare quanto sopra, Erdogan ha incontrato il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, mentre la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, attendeva (da donna islamica) il suo turno come fosse in coda ad un ufficio postale. Un messaggio sottile e al tempo stesso diretto.
Charles Michel e Ursula von der Leyen, sono andati ad Ankara, in casa di Erdogan (dato significativo), per discutere un eventuale nuovo protocollo di intesa sulla gestione dei flussi migratori. Da non trascurare il fatto che la UE ha già stanziato a beneficio della Turchia oltre otto miliardi di euro in questo campo. Certamente si saranno sfiorate questioni di secondo piano come i giacimenti di gas naturale, o gli scambi commerciali nei punti di sbocco dei gasdotti che arrivano dall’Azerbaijan (Paese che la Turchia sostiene militarmente ed economicamente in funzione anti armena). E qui, purtroppo, si apre un’altra questione decisamente spinosa provocata dalle ben poco edificanti iniziative di certi parlamentari italiani in visita a Baku (capitale dell’ Azerbaijan) ed ai fantasiosi quanto risibili proclami personali in aula parlamentale (ogni riferimento alla senatrice Urania Papatheu è puramente voluto). Salvo che, come ultima manifestazione in materia di diritti umani, la Turchia è uscita dalla Convenzione di Istanbul per la violenza sulle donne, ma la presidente della Commissione Europea si è recata proprio ad Istanbul in missione ufficiale, senza rendersi conto che probabilmente il comportamento di Erdogan era motivato anche e soprattutto da ragioni politiche: contrariamente a qualche anno fa, alla Turchia oggi non conviene nemmeno più entrare nella UE, soprattutto se si pensa all’evoluzione degli ultimi mesi e all’accordo Ankara-Mosca (in Siria rivali a sostegno reciproco). Un accordo che si gioca soprattutto in Caucaso, con l’Italia che sta cercando di raccoglierne qualche vantaggio, magari barattando una cooperazione di altra natura in Libia, dove la Turchia sta cercando a sua volta di garantirsi determinati volumi di forniture.
Nonostante le proteste telefoniche, Draghi si è recato all’incontro di Tripoli, senza badare più di tanto alla violazione dei diritti umani in Turchia. In Libia, non a caso, Draghi ha incontrato anche Abdul Hamid Mohammed Dbeibeh il nuovo premier riconosciuto, ed è difficile credere che anche in questo caso, il presidente del Consiglio italiano non sia stato informato sulla situazione dei diritti umani anche nel paese nordafricano. Non è certo una colpa di Mohammed Dbeibeh se anche in Libia in diritti umani sono calpestati, poiché solo dal 15 marzo scorso è stato nominato primo ministro, dopo la drammatica guerra che ha visto su fronti opposti Khalifa Haftar e Fayez Al-Serraj, e per decisione di una Commissione Internazionale sostenuta dalla missione ONU in Libia (USMIL), per altro al centro di polemiche per sospetti brogli e compravendita di voti per mettere lo stesso Dbeibeh alla guida di un organismo che porti il Paese alle elezioni fissate il 21 dicembre 2021. Poco importa se la famiglia Dbeibeh, di Misurata, è intimamente legata a quella di Saif Al-Salam Al-Gheddafi, secondogenito dell’ex rais.
Senza sapere chi sarà la prossima massima autorità della Libia, o se lo stesso Dbeibeh possa essere confermato (cosa che i più danno come ben poco probabile), i governi che hanno interessi nel Paese nordafricano (Italia in primis) devono muoversi in anticipo, per garantirsi la continuità dei contratti miliardari legati alle ricchezze locali.
L’ipocrisia della diplomazia italiana è confermata poi dal fatto che il Memorandum of Understanding, formato dall’ex premier Paolo Gentiloni e dallo stesso Al-Serraj, pur profondamente criticato, è ancora in vigore, nonostante i cambiamenti avvenuti in Libia, dove ancora oggi vi sono presenze militari russe, turche, jihadiste, siriane, e le varie fazioni tribali, sullo sfondo degli enormi interessi legati all’estrazione, raffinazione e commercio del petrolio. Il rischio, sempre più reale, è che l’attuale premier libico non sia confermato alla guida del Paese, e quando avverrà, la fetta maggiore della torta nordafricana sarà quella russo-turca. L’Europa non può permettersi questo lusso.
A questo punto, riuscirà il presidente del Consiglio Mario Draghi a portare avanti quel ruolo di apripista dell’Europa, e a controbattere le mosse dell’asse Russo-Turco? Il tutto considerando anche l’arma che Erdogan ha l’opportunità di sfruttare politicamente, ovvero le migliaia di sfollati ammassati ai confini meridionali della Turchia, ai quali Erdogan potrebbe aprire le porte verso l’Europa.
Non curante di tutto questo, il presidente turco continua a sorvolare sui mutamenti sociali a livello internazionale, mentre soffoca quelli interni che non siano allineati al sogno di restaurazione dell’impero ottomano e, a tale scopo, ha approfittato di situazioni di crisi, come quella in Siria, per espandere il proprio potere.
Il quadro d’insieme è quindi decisamente desolante, perché mostra come la “Ragion di Stato” sia sempre in primo piano, rispetto a tutte le altre priorità. A questo punto, se il fine giustifica i mezzi, che cosa giustifica il fine?
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