Nel 1894, i giapponesi sconfissero pesantemente la Cina imponendole, con il trattato di Shimonoseki del 17 aprile 1895, una pace gravosa che prevedeva, oltre il pagamento di una indennità, la cessione di Formosa, delle isole Pescadores, della penisola del Liao-tung, con la base navale di Port Arthur, l’indipendenza formale della Corea, di fatto divenuta un protettorato nipponico. Tuttavia, la Russia, la Francia e la Germania esercitarono delle pressioni sul governo di Tokio per spingerlo a rinunciare alla penisola del Liao-tung. I giapponesi si piegarono al diktat delle potenze europee, venendo così defraudati di una vittoria colta sul campo. Tre anni dopo la Russia, alla costante ricerca di un porto militare libero dai ghiacci, riuscì ad avere in affitto dalla Cina la base navale di Port Arthur e la penisola del Liao-tung. All’epoca la politica estera zarista oscillava tra il tradizionale interesse per l’area balcanica e gli stretti turchi e un più recente impegno in Estremo Oriente, dove il disfacimento dell’Impero Cinese lasciava sperare in nuove acquisizioni territoriali. I russi iniziarono a costruire una ferrovia in Manciuria per collegare la transiberiana a Port Arthur, stanziando delle guarnigioni militari di presidio lungo il tracciato dei binari, mentre la compagnia dello Yalù, una società a capitale misto pubblico e privato, avviava una intensa penetrazione economica in Corea. Chiaramente questa politica finì per irritare i governanti nipponici che, su pressione dell’opinione pubblica, intavolarono delle trattative con il governo zarista alla ricerca di un compromesso onorevole. Tuttavia la superficialità e l’albagia dei diplomatici russi nella condotta dei colloqui, quasi si trattasse di una questione coloniale, insospettì i nipponici, timorosi che la controparte stesse prendendo tempo per completare il nuovo programma di riarmo navale. Così i giapponesi ordinarono nuove navi ai cantieri inglesi, non essendo all’epoca l’industria nazionale in grado di fabbricare bastimenti di grossa stazza, e stipularono, il 30 gennaio del 1902, un trattato di alleanza con la Gran Bretagna, mentre i negoziati si protraevano senza produrre risultati apprezzabili. In realtà lo Zar non voleva la guerra ma, complici gli ottimistici rapporti che riceveva dal luogotenente per l’oriente Evgenij Ivanovic Alekseev, figlio illegittimo dello zar Alessandro II e di una nobile armena, era persuaso che il Giappone non avrebbe osato sfidare un grande impero europeo. Così, dopo lunghe e sterili trattative, i governanti nipponici in una riunione segreta optarono per la guerra e, il 6 febbraio 1904, ruppero le relazioni diplomatiche con la Russia.
I piani di guerra.
Il rapporto di forze non era affatto favorevole per i russi. Tutta la loro strategia, che si ispirava al concetto di fleet in being, elaborata dal contrammiraglio Wilhelm Karlowich Witthoft, capo di Stato Maggiore del granduca Alekseev e cervello della flotta del Pacifico, riposava sulla errata convinzione che la sola presenza della squadra da battaglia a Port Arthur avrebbe spinto i giapponesi a sbarcare il loro esercito nella Corea orientale, lontano dall’area critica dello scontro, dando la possibilità ai rinforzi di giungere in tempo per la battaglia risolutiva. Questa impostazione non teneva conto di due fattori, l’insufficienza logistica della transiberiana e il ruolo passivo attribuito alla flotta, non essendo stata prevista alcuna operazione per ottenere il controllo del Mar Giallo. La flotta russa schierava sette corazzate contro sei, di cui solo due, la Cesarevic e la Retvizan, in grado di misurarsi con le omologhe unità avversarie, quattro incrociatori corazzati (uno solo, il Bajan, moderno) contro sei, otto incrociatori protetti contro dieci. Note dolenti infine per le siluranti, dove l’avversario godeva di una superiorità schiacciante. Particolarmente grave era il divario della qualità di fuoco, disponendo la flotta del Sol Levante di strumenti ottici di punteria più avanzati e di esplosivi con maggior potere detonante. D’altra parte le navi nipponiche di grosso tonnellaggio erano state costruite in Inghilterra o altrove e costituivano un insieme omogeneo ed efficiente. La difesa territoriale era affidata a 90.000 uomini, di cui 50.000 fucilieri, con 148 cannoni, ai quali si aggiungevano le truppe della guarnigione di Port Arthur, circa 35.000 unità agli ordini del comandante della piazza, generale Anatolij Stossel. La situazione dei magazzini e del munizionamento era discreta, scarse invece le scorte di medicinali e di carbone, per cui le uscite in mare per le esercitazioni erano rare, con gravi ripercussioni sul morale e sull’addestramento degli equipaggi, mentre la fanteria era ben preparata al combattimento corpo a corpo ma non all’azione coordinata con l’artiglieria. Tuttavia il principale fattore di debolezza dei russi era la lontananza dai loro centri industriali e demografici, mentre la transiberiana, una linea ferroviaria a binario unico, non era certo in grado di soddisfare le esigenze delle truppe al fronte. Il piano giapponese era semplice ed essenziale nelle sue linee di esecuzione. Esso prevedeva lo sbarco in forze nella penisola coreana e nel Liao-tung per sopraffare l’avversario con violenza nel più breve tempo possibile. Il Giappone non poteva permettersi uno sforzo bellico prolungato a causa della scarsa disponibilità di risorse finanziarie. I russi peraltro non riuscirono mai a comprendere il valore della finanza in un conflitto e non vollero mai adottare una strategia temporeggiatrice, la sola in grado di garantire loro la vittoria in quelle circostanze. Condicio sine qua non di questo piano era il dominio del mare, che doveva essere ottenuto immediatamente con il blocco o la neutralizzazione della flotta nemica, in modo da garantire la sicurezza dei trasporti tra la madrepatria e il fronte.
L’inizio delle ostilità.
Dopo la rottura delle relazioni diplomatiche si moltiplicarono i segnali dello scoppio imminente del conflitto. Manifestazioni patriottiche ebbero luogo in tutto il Giappone, mentre la flotta era salpata per destinazione ignota. I cittadini nipponici residenti a Port Arthur avevano lasciato la città a bordo di un piroscafo noleggiato dal loro governo, a bordo del quale si trovavano, travestiti da marinai, agenti segreti incaricati di osservare la posizione delle navi russe. Infatti, la notte tra l’8 e il 9 febbraio 1904, dieci tra le migliori torpediniere nipponiche attaccarono a sorpresa le navi avversarie all’ancora nella rada esterna, reduci da una delle rare esercitazioni e prive di misure difensive in quanto il granduca Alekseev non aveva informato il comandante della squadra navale, viceammiraglio Oskar Viktorovic Stark, sull’evolversi della situazione. Le due migliori corazzate, la Cesarevic e la Retvizan, insieme all’incrociatore Pallada, furono danneggiate dai siluri nemici e andarono ad incagliarsi nello stretto canale di accesso alla rada interna in seguito al tentativo di rimorchiarle in bacino. La mattina successiva la flotta nipponica al completo, al comando del viceammiraglio Heihachiro Togo, si presentò davanti a Port Arthur per infliggere il colpo di grazia all’avversario. Tuttavia la flotta russa contrastò l’azione a fuoco nemica pur rimanendo sotto la protezione delle batterie costiere. Togo decise di interrompere l’attacco per non correre rischi eccessivi. L’avversario poteva contare su altre squadre navali in Europa, mentre le sue navi erano insostituibili. I guai per i russi non terminarono. Lo stesso giorno l’incrociatore Variag e una cannoniera vennero sorpresi e affondati nelle acque antistanti il porto coreano di Chemulpo mentre il posamine Enisej, inviato a piazzare uno sbarramento nella baia di Dalny, a nord di Port Arthur, affondò per urto su una sua stessa mina; sorte analoga toccò all’incrociatore Bojarin mandato con quattro torpediniere a salvare i naufraghi.
Nonostante il bilancio negativo i russi non avevano ceduto moralmente, per cui i giapponesi si prepararono a sostenere un confronto duro e prolungato. Il porto coreano di Asan venne attrezzato con tecnici e macchinari provenienti dal Giappone e la flotta creò un ancoraggio alle isole Elliot, poco distanti da Port Arthur. Togo ordinò di affondare dei piroscafi carichi di pietrame all’ingresso della rada di Port Arthur per imbottigliare la flotta avversaria, ma l’operazione si trasformò in un insuccesso. Il 17 febbraio la stampa russa, sempre prodiga di informazioni, annunciò la nomina del vice ammiraglio Stephan Osipovic Makarov al comando della flotta del Pacifico. Makarov era considerato il migliore comandante della marina russa, molto apprezzato anche all’estero. Portò con se 200 tecnici e molto materiale per rimettere a posto le corazzate danneggiate. Al suo arrivo a Port Arthur si mise subito al lavoro avvicendando degli ufficiali, risistemando le batterie di difesa costiera e gli sbarramenti di torpedini, piazzando posti di osservazione in modo tale da consentire alle navi all’ancora di sparare sul nemico in avvicinamento. Ben presto la capacità di combattimento dei russi migliorò e, in tante occasioni, la squadra di Port Arthur seppe fronteggiare valorosamente le preponderanti forze avversarie. I giapponesi, che nel frattempo erano sbarcati in Corea, erano preoccupati per il rinnovato attivismo del nemico, per cui Togo decise di giocare la carta della posa delle mine. Così la notte del 12 aprile, approfittando della scarsa visibilità dovuta a cattive condizioni meteorologiche, un posamine affondò uno sbarramento sulla rotta di uscita da Port Arthur. Il giorno seguente le navi russe uscirono dalla base per contrastare una azione della flotta nemica e due di esse urtarono contro le mine. La nave ammiraglia, la corazzata Petropavlosk, affondò, con la perdita della vita di gran parte dell’equipaggio tra cui lo stesso Makarov, mentre la Pobeda rimase danneggiata. Il comando fu assunto da Witthoft, un buon tecnico ma privo del carisma del predecessore.
L’assedio di Port Arthur.
Dopo la morte di Makarov i giapponesi sbarcarono nella penisola del Liao-tung, senza alcun contrasto da parte della flotta russa, mentre l’armata di stanza in Corea, superata una debole resistenza nemica, penetrava in territorio mancese. Le due armate sconfissero i russi respingendoli nell’interno e dando inizio all’assedio di Port Arthur. I giapponesi infatti, nel tentativo di espugnare rapidamente la base nemica, avevano perso due corazzate per urto contro mine. Alcune settimane prima la stampa russa aveva annunciato con grande clamore l’invio di una seconda squadra nel Pacifico dal Mar Baltico agli ordini del vice ammiraglio Zinovij Petrovic Rozestvenskij. L’impresa appariva pazzesca, considerando la distanza e i problemi logistici connessi, ma i giapponesi furono costretti a risparmiare le navi e a impiegare l’esercito in una battaglia di usura contro difese fortificate. Mentre iniziava l’assedio di Port Arthur, il comandante dell’esercito russo al fronte, generale Aleksej Nikolaevic Kuropatkin, dopo aver chiesto notevoli rinforzi, che avevano finito per sovraffollare la transiberiana, tentò a più riprese di soccorrere la piazzaforte assediata, ma senza successo, mentre l’inerzia di Witthoft era divenuta proverbiale, nonostante le ripetute sollecitazioni ad affrontare il nemico. Le due corazzate danneggiate erano adesso in piena efficienza e lo stesso Zar, per ragioni di prestigio, premeva affinché si prendesse l’iniziativa. Così, in seguito ad un ordine imperiale perentorio, la flotta russa prese il mare, il 10 agosto, con l’obiettivo di raggiungere Vladivostok. Si trattava di percorrere circa mille chilometri in acque sotto il controllo dell’avversario. La superiorità russa in corazzate, sei contro quattro, era effimera, considerando l’efficienza e la velocità delle navi nipponiche, mentre il divario nel campo degli incrociatori corazzati e delle siluranti appariva incolmabile. Dopo mezzogiorno le due squadre si scontrarono nel Mar Giallo, dando inizio ad un combattimento a grande distanza, con Togo vincolato dalla necessità di salvaguardare le sue navi. Alla ripresa del contatto balistico, nel pomeriggio, i giapponesi serrarono le distanze e, grazie ad un fuoco molto violento e rapido, centrarono la nave ammiraglia russa, la corazzata Cesarevic, nella torre di comando provocando la morte di Witthoft e dei suoi ufficiali. La flotta russa, rimasta priva di comando, si sbandò, finché il principe Pavel Uchtomskij da bordo della Peresvet diede l’ordine di rientrare alla base. Cinque corazzate fecero così ritorno a Port Arthur, mentre la nave ammiraglia e tre incrociatori si rifugiarono in porti neutrali. L’incrociatore leggero Novik, il solo che diresse su Vladivostok, fu affondato dai giapponesi al termine di una caccia serrata.
Operazioni in Manciuria.
Con l’arrivo di rinforzi il generale Ywao Oyama, comandante dell’esercito giapponese, decise di sferrare un attacco risolutivo il 30 agosto contro il grosso delle forze nemiche, attestate nella città di Liao-yang. I due eserciti erano equilibrati, 150.000 uomini per parte, tuttavia i giapponesi erano più addestrati alla guerra moderna, con un ottimo coordinamento tra fanteria, artiglieria e cavalleria, e meglio comandati. Dopo una grande battaglia di usura e preoccupato per l’estensione del fronte, il generale Kuropatkin, il 3 settembre, ordinò la ritirata, che si svolse senza inseguimento da parte dell’avversario per le elevate perdite subite. Nel frattempo proseguivano i combattimenti intorno a Port Arthur, dove le truppe del generale Maresuke Kiten Nogi si dissanguavano in continui attacchi contro le postazioni fortificate. L’invio di materiale più moderno, artiglierie di grosso calibro, unito al lavoro di mina, permisero, alla fine, di espugnare la cosiddetta Montagna Alta, una collina che domina la rada interna di Port Arthur. Il bombardamento e l’affondamento delle navi all’ancora indussero il generale Stossel a firmare, il 2 gennaio 1905, la capitolazione. Kuropatkin, dopo l’arrivo di ulteriori rinforzi, si apprestò a lanciare una offensiva su vasta scala. Tra il 9 e il 16 gennaio la cavalleria cosacca sferrò una scorreria nelle retrovie avversarie causando panico e la perdita di numerosi magazzini. Il giorno 19 febbraio Kuropatkin decise di muovere le sue truppe su posizioni più avanzate per dare inizio all’attacco il 25, ma il 20 febbraio Oyama lo prevenne attaccando a sua volta. Nonostante la superiorità numerica dei russi, 375 battaglioni di fanteria, 140 squadroni di cavalleria e 1.400 cannoni, contro rispettivamente 265 battaglioni, 65 squadroni e 900 cannoni del nemico, la sorpresa tattica del maresciallo Oyama riuscì in pieno, cogliendo le forze avversarie nella delicata fase di riposizionamento. I combattimenti si protrassero per tre settimane senza interruzione. Alla fine i russi furono costretti a ritirasi per carenza di rifornimenti, lasciando 40.000 prigionieri nelle mani del nemico. I due eserciti avevano perso, tra morti e feriti, circa 50.000 uomini per parte. Kuropatkin fu esonerato dal comando mentre in Russia dilagava la rivoluzione, in seguito ai fatti di sangue del 22 gennaio 1905.
Tsushima. Il 14 ottobre 1904 era salpata la seconda squadra del Pacifico, nonostante i proclami risalissero a mesi prima. Tranne le nuove corazzate classe Borodino questa flotta era composta da unità obsolete. Gli equipaggi erano formati da veterani disillusi per quanto stava accadendo al fronte e nel paese e da complementi di leva a corto di addestramento. Il viaggio si presentava difficile e costoso, con pochissime possibilità di effettuare degli scali comodi, essendo i maggiori porti dell’epoca sotto il controllo dell’Inghilterra, alleata del Giappone. I russi dovettero spesso rifornire le navi in mare, stipulando un contratto con una linea mercantile tedesca, la Hamburg-Amerika Linie. Inoltre, Rozestvenskij, per il fondato timore della chiusura del canale di Suez da parte degli inglesi, preferì affrontare il periplo dell’Africa con tutti i disagi connessi. Alla fine di un viaggio disastroso, con le navi bisognose di manutenzione e gli equipaggi di franchigia, il 27 maggio 1905 la flotta russa affrontò i giapponesi in un combattimento senza speranza di successo nelle acque dell’isola di Tsushima, tra il Giappone e la Corea. Motivi di politica interna e la speranza di tagliare le comunicazioni tra il Giappone e l’esercito nipponico in Manciuria, in modo da rimettere in discussione l’esito dell’intero conflitto, spinsero lo Zar e i suoi ministri ad una mossa azzardata e sconsiderata. La flotta russa, rallentata dalle navi vecchie, non riuscì a manovrare con la tempestività richiesta. Togo ebbe modo di concentrare il fuoco contro la nave ammiraglia avversaria, la corazzata Suvorov, che, colpita, abbandonò la formazione di battaglia. Lo stesso ammiraglio Rozestveskij venne gravemente ferito. Come nel precedente scontro del Mar Giallo, la flotta russa diventò facile preda dei giapponesi, che inflissero agli avversari perdite gravissime. Le ultime navi russe, rimaste circondate, si arresero. Il 5 settembre 1905, grazie ai buoni uffici del governo degli Stati Uniti, fu stipulato il trattato di pace a Portsmouth. Il Giappone ottenne il riconoscimento del protettorato sulla Corea, la parte meridionale dell’isola di Sachalin, Port Arthur e la ferrovia mancese meridionale. La Manciuria fu restituita alla Cina. I giapponesi non riuscirono ad ottenere il pagamento di una indennità, cosa di cui avevano disperato bisogno. Proprio la mancanza di adeguate risorse finanziarie aveva loro impedito ulteriori avanzate, mentre l’esercito russo era diventato infido grazie all’opera di agitatori rivoluzionari. I giapponesi realizzarono di dover incrementare l’economia e l’industria per diventare una vera grande potenza, mentre i governanti russi non recepirono affatto la lezione del pericolo rivoluzione precipitando la nazione con leggerezza nella Prima Guerra Mondiale.
BIBLIOGRAFIA: Carpi Vittorio, La guerra russo-giapponese, Torino, 1907 Dal Verme Luchino, La guerra nell’estremo oriente, Roma, 1906 Giannitrapani Luigi, La guerra russo-giapponese, Roma, 1905 Klado Nicholas, The russian navy, London, 1905 Mauriello Benigno Roberto, La guerra russo-giapponese, Chieti, 2008 Semenov Vladimir Ivanovich, Rasplata, London, 1909 Thiess Frank, Tsushima, Milano, 2002
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